Prologo

1252 Words
PROLOGO Il grosso cervo si muoveva cautamente attraverso la foresta fitta. Si fermò a guardarsi attorno. Un brivido percorse il suo manto fulvo e le sue orecchie guizzarono avanti e indietro nel tentativo di individuare anche i più lievi fra i suoni che non appartenevano al suo habitat. I suoi grandi occhi marrone scuro osservarono il cespuglio vicino, alla ricerca di un pericolo che l’animale era in grado di percepire, ma non di vedere. Dopo aver fatto timidamente un passo avanti, il cervo si voltò di scatto e superò con un balzo un tronco caduto, svanendo nella foresta circostante. Un’imprecazione borbottata esplose dalle labbra della sagoma che giaceva immobile sul terreno. L’uomo uscì lentamente dal suo nascondiglio, un grosso coltello da caccia in mano. Non mangiava da tre giorni. Mentre si alzava, levandosi foglie e rami dalle spalle e dalle gambe, un brusco impatto al centro della schiena lo spinse in avanti e lui giacque immobile, sapendo di essere appena stato ucciso. “Ultimo bersaglio abbattuto,” mormorò Trisha nel microfono. Ripose con calma l’arco nell’imbracatura che portava al fianco e cominciò a scendere dal grande albero su cui si trovava. Nonostante fosse in movimento, era quasi impossibile distinguere la sua piccola sagoma, perché si teneva fra le ombre e dietro la copertura dei rami. Si lasciò cadere per l’ultimo mezzo metro e raggiunse l’uomo che giaceva prono sulla terra umida. Avvicinandosi con la pistola stretta al corpo, guardò la chiazza rossa che si allargava sulla schiena del bersaglio. Un colpo netto, pensò. Spina dorsale tranciata, freccia nel cuore, nessun suono. “Brava, piccola mia,” disse con orgoglio una voce profonda. “Dieci su dieci. Marchia il bersaglio e torna alla base.” Trisha sorrise mentre si chinava e toccava il bersaglio. “Ti ho preso,” disse. L’uomo gemette mentre si voltava e sollevava lo sguardo sui luminosi occhi marroni della bambina sopra di lui. La sua unica consolazione era di essere stato l’ultimo a cadere. Il problema era che era caduto per mano di una dodicenne. Gli altri membri del suo squadrone non gliel’avrebbero mai fatta passare liscia. “Papà dice che possiamo tornare,” disse Trisha mentre allungava una mano per aiutare il soldato che partecipava a un programma intensivo di sopravvivenza in natura con il padre di Trisha. “Cosa mi ha tradito?” brontolò l’uomo mentre si rialzava lentamente in piedi. “Ti brontolava lo stomaco,” rispose sorridendo Trisha. “Avresti dovuto mangiare quegli insetti due giorni fa, o un po’ del pesce avanzato da quel grizzly. Non era male.” L’uomo si limitò a grugnire mentre ruotava la spalla, cercando di alleviare il dolore dove Trisha lo aveva colpito con la freccia. Le punte di quelle frecce avevano una bustina di inchiostro all’estremità, in modo da segnare il bersaglio colpito agli occhi degli istruttori. Il problema era che facevano comunque un male cane. L’uomo avrebbe avuto un livido grande quanto una palla da tennis per almeno una settimana. “Come fai a sapere degli insetti e del pesce?” chiese l’uomo mentre cercava di guardarsi la spalla per vedere in che condizioni sarebbe stato se Trisha lo avesse colpito con una freccia vera. “Oh, ho trovato la tua pista circa un’ora dopo che te ne sei andato. Hai lasciato delle tracce belle visibili e non è stato difficile seguirti. Comunque, ho visto mentre cercavi di decidere se mangiare o meno,” rispose Trisha mentre scavalcava un tronco. “A proposito, ti ho tranciato la spina dorsale e la freccia ti avrebbe trafitto al cuore, uccidendoti sul colpo.” L’uomo scosse la testa incredulo. Che razza di padre insegnava alla figlia piccola a seguire tracce, cacciare e uccidere per divertimento? Aveva sentito parlare di quella squadra padre/figlia da altri Navy SEAL che si erano sottoposti all’addestramento. Nessuno era arrivato in fondo al primo tentativo senza venire ucciso. Pochissimi, quasi nessuno, sopravvivevano al secondo o al terzo. Una volta passata la prova, il padre gliela faceva ripetere, ma questa volta mandando la figlia sulle loro tracce. Nessuno sopravviveva mai. “Perché non mi hai ucciso prima?” chiese l’uomo. Seguì la piccola sagoma di fronte a lui senza chiederle se sapesse dove fossero o dove stessero andando. “Oh, mi piace osservare la preda per capire come pensa. Papà dice che si può imparare molto di una persona osservando il modo in cui reagisce a quello che la circonda. Sei stato bravo quando hai capito che ti stavo seguendo. Mi è piaciuto il modo in cui hai usato il fiume per cercare di coprire le sue tracce,” disse Trisha, voltandosi verso uno stretto sentiero tracciato dalla selvaggina. “Grazie,” brontolò nuovamente l’uomo. Dante Rodriguez ascoltò mentre Trisha elencava tutto ciò che gli aveva visto fare bene e indicava alcuni errori. Scosse la testa; difficile credere che stesse ascoltando una dodicenne. La bambina sembrava molto più grande. Si muoveva con una grazia e una sicurezza naturali che trasmettevano la sua conoscenza, la sua esperienza e il suo agio nell’ambiente in cui si trovava. Dante ricordava di aver riso assieme agli altri nove ragazzi del suo squadrone quando il suo comandante aveva detto loro che avrebbero partecipato a un corso di sopravvivenza in natura organizzato dalla Grove Wilderness Guides, un’azienda privata del Wyoming. I ragazzi avevano detto che, se erano riusciti a sopravvivere all’addestramento di base e a Camp Coronado, potevano sopravvivere a qualunque cosa. Palesemente, gli U.S. Navy Seals non si sarebbero mai aspettati di dover affrontare una dodicenne di grande talento. “Papà!” Trisha lanciò un gridolino improvviso e si mise a correre. Dante guardò mentre la sua sagoma snella veniva avvolta in un abbraccio da un enorme orso d’uomo. Più tardi, quella sera, Trisha era sdraiata sul tetto fuori dalla finestra della sua stanza. Il suo papà stava salutando l’ultimo dei loro clienti e lei lo aspettava nel loro posto preferito. Le si illuminarono gli occhi quando la grossa sagoma muscolosa di suo padre attraversò la stretta apertura senza emettere un suono. Un attimo dopo, l’uomo calò il suo corpaccione accanto a lei ed entrambi fissarono in silenzio il cielo notturno. “Sei stata davvero brava, piccola mia,” disse suo padre con voce burbera. “Io e la tua mamma siamo molto orgogliosi di te.” Trisha sorrise mentre fissava le stelle luccicanti. “Su quale è questa sera?” chiese sottovoce. Il suo papà indicò un punto luminoso. “Quella,” rispose con voce altrettanto bassa. “Questa notte, tua madre è su quella stella che ti guarda. La senti? Mi dice che stai diventando bellissima e che è davvero orgogliosa di te.” Trisha sorrise alla stella indicata da suo padre. “Ne sono felice. Un giorno, volerò fin lassù e la troverò,” disse prima di voltare la testa per guardare il suo papà. “E quando lo farò, ti porterò con me.” Il padre di Trisha, Paul, tenne lo sguardo fisso sulla stella che aveva scelto quella notte. Non disse nulla; non ce la faceva. Aveva la gola stretta per lo sforzo di trattenere le lacrime di fronte all’innocenza nella promessa della sua unica figlia. Da quando sua moglie era morta per un aneurisma cerebrale, al tempo Trisha aveva un anno, loro due erano rimasti soli. Tutte le sere si sdraiavano sotto le stelle e ne sceglievano una diversa. Paul allungò una grande mano per avvolgere quella piccola di Trisha. “Certo, piccola mia. E io sarò felice di venire con te,” disse infine.
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