INDICE
Il lassativo
I regni della natura
La fede perduta
Il garante
La gazzetta del mezzogiorno
L’antro di espedito
Onlio e Stanlio
I dioscuri
Acchiappavento
La prima notte
Filuccio
Il becchino
Vincenzo
Il cane morto
Il semaforo
Le uova di Pasqua
Una delle cose della mia fanciullezza, che ricordo con maggiore nitidezza, è il salone da barbiere di Damiano, dove mio padre, tre volte la settimana, si recava per sbarbarsi. Una volta il mese e qualche altra volta in cui uscivamo con nostro padre, anche io e mio fratello visitavamo il salone di Damiano, per il taglio mensile dei capelli. Più che taglio dei capelli, la nostra era una vera e propria tosatura: eseguita a mano e con una macchinetta, priva di un qualsiasi meccanismo di sicurezza di cui sono provviste le macchinette elettriche. I pizzicotti sulle nostre nuche ci strappavano gridi soffocati di dolore, e, quando un pizzicotto era più intenso degli altri e con uno scatto della testa, cercavamo di sfuggire al nostro aguzzino, Damiano, pensando forse rassicurarci, ripeteva “Abbiamo finito! Abbiamo finito!” Sapevamo che era veramente finito solo quando l’odore dell’alcool feriva il nostro olfatto ed il bruciore alla nuca irrigidiva la nostra posizione sulla sedia. Il salone di Damiano era una stanza quadrata abbastanza ampia, al piano terra di uno di quei palazzi, con un certo decoro architettonico, che si affacciano sul corso principale della mia cittadina. Il salone aveva una parete tutta occupata da un’enorme vetrata a tre ante, quella centrale fungeva da porta di ingresso, le due laterali reggevano la parte centrale. La vetrata proteggeva il salone dalla strada, ma era anche una vetrina, da osservare attentamente, da parte di tutti gli sfaccendati che, a ogni ora del mattino e della sera, passeggiavano per corso Roma. Le due pareti laterali avevano due specchi verticali per ciascuna, davanti ai quali c’erano delle sedie girevoli, provviste di poggiatesta regolabili, una per ogni specchio. La parete di fondo, parallela a quella d’ingresso, era in buona parte coperta da uno specchio orizzontale, davanti al quale faceva bella mostra di sé una vecchia scrivania, raccattata da qualche rigattiere, o ricevuta in dono da qualche professionista che frequentava il salone, che serviva a Damiano per le sue incombenze contabili o per riposarsi nell’attesa di clienti. Gli specchi confessavano interamente la loro età e il loro stato di salute; lungo le pareti, negli spazi liberi, trovavano posto una dozzina di sedie per i clienti in attesa del proprio turno. Nell’angolo in fondo alla parete di sinistra, una tenda di un tessuto rigido e pesante nascondeva l’ingresso a un ripostiglio, nel quale Damiano o un suo figlio entravano per depositare le schedine della Sisal coperte di schiuma da barba, tolta dalla faccia dei clienti di turno o sospingere con la scopa le ciocche di capelli sottratti alle teste degli stessi.
A quella tenda nessuno, che non fosse lavorante della bottega, poteva avvicinarsi: mai capito il perché. Quasi sempre al centro del salone e dell’attenzione c’era Damiano. A me sembrava un omone, forse perché ero piccolo o forse perché portava con disinvoltura, se non con orgoglio, una pancia che dava alla sua figura una forma di arco, messa ancora più in evidenza dal camice che indossava come un medico nel suo studio. Forse un tale atteggiamento gli era venuto dall’abitudine di appoggiarsi con la pancia al bordo delle poltrone, nello svolgimento della sua professione. Alla sommità del busto, su un collo robusto ma alquanto corto, si protendeva sempre in avanti una testa ben grossa, fornita di una capigliatura mossa, nera con fili d’argento sulle basette che scendevano a punta sulle guance paffute. Due occhi piccoli, neri e quasi sempre ironici si muovevano incessantemente sotto un paio di sopracciglia molto arcuate e molto folte. Sotto un grosso naso e su un labbro prominente trovava la giusta collocazione un baffetto largo due dita, che rendeva il suo sorriso sempre un po’ sornione e spesso un po’ beffarda. Le orecchie molto attaccate al cranio reggevano spesso una matita o una sigaretta, scroccata al cliente che si preparava a fumare. Ricordo che, comunque, la sua presenza e i suoi sguardi un po’ mi intimidivano, anche quando erano accompagnati da un sorriso. Era forse il suo modo di parlare che mi dava sempre l’impressione che le sue parole fossero poco sincere, che nascondessero un sentimento di antipatia o di invidia verso noi clienti. Pure era sempre sussiegoso nei suoi atteggiamenti, che facevano pensare a qualcosa di untuoso insito nel suo carattere. Aveva sempre pronto un motto, un modo di dire, un proverbio adatto per qualunque dialogo, discorso o discussione si verificasse nel suo salone. Interveniva su tutto e quasi mai a sproposito, ma non sempre con discrezione. Sapeva tutto di tutti, nessuno era immune dalle sue forbici, si vantava spesso. Era a dir poco asfissiante con le sue domande, sempre insistenti quando non ricevevano risposta, sempre insinuanti: le poneva quasi sapesse già le risposte. Il primo di noi ad abbandonare il salotto di Damiano fu mio fratello, che mal sopportava il modo di fare del nostro Figaro. Io continuai per molto tempo ancora a frequentarlo un po’ per abitudine, un po’ per non scontentare mio padre che non voleva in nessun modo rispondere alle domande di Damiano sui motivi che avevano indotto mio fratello a disertare il salone. Continuai a frequentarlo anche perché Damiano era un grande affabulatore: conosceva e raccontava con dovizia di particolari, con la mimica e l’espressione di un grande attore, episodi della sua vita e di quella degli altri. Conquistava il centro del salone, poggiava le mani con le dita incrociate sul ventre prominente, allungava il collo per quanto glielo potevano permettere le sue vertebre cervicali, assumeva un’aria insieme sorniona e compiaciuta, e quando, girando lo sguardo sugli ascoltatori, si rassicurava di aver monopolizzato l’attenzione di tutti, cominciava rivolgendosi sempre ad un vecchio agricoltore, assiduo frequentatore del salone, chiamandolo familiarmente Cumpacicc. E Cicc, basso e tarchiato, bianco di capelli coperti da uno spesso strato di brillantina, ma sempre ben vestito e con un panciotto che teneva in bella vista, per mostrare forse una bella catena d’oro che era legata da una parte ad un’asola e finiva in un taschino, da cui traeva ad intervalli di pochi minuti un orologio pure d’oro ben attaccato alla catena, gli faceva da spalla con domande pertinenti e a tempo giusto,così che sembrava che si fossero accordati in precedenza sul da farsi. Il salone di Damiano era frequentato assiduamente da persone che a me sembravano affatto particolari ed alcuni si rivelarono ai miei occhi grandi narratori dello stesso calibro di Damiano. Ed in alcuni momenti il salone si trasformava in un salotto, nel quale, a turno, qualcuno raccontava un aneddoto o una storia accaduta o qualche maldicenza su personaggi ben in vista della nostra cittadina e tutti gli altri ascoltavano attentamente o interloquivano, per rendere il racconto più circostanziato, o commentavano con battute, il più delle volte ironiche, che suscitavano il riso. I più assidui in questa incombenza erano Ciccillo l’agricoltore, che di solito faceva da spalla a Damiano, quando era il titolare del salone a raccontare. C’era anche l’avvocato R., che non esercitava la professione forense, ma insegnava francese in una scuola media della provincia, per quale recondito motivo nessuno lo sapeva. Era ridanciano, bianco di capelli, per quei pochi che incoronavano il suo cranio come un’aureola, e rubizzo di carnagione, specialmente quando interveniva con battute adeguate. Era in quei momenti che diventava particolarmente importante nella vita del salone, perché la sua risata, un miscuglio di singhiozzi, respiri contratti, attacchi di asma, colpi di tosse e il rossore che invadeva tutta la sua pelle, dalla pelata del cranio, alla pappagorgia che gli donava, non un doppio mento, bensì una gorgiera di carne come quelle di trine che si ammirano nei ritratti di nobildonne dei secoli passati, eseguiti da grandi pittori, la sua risata era qualcosa che più esilarante e contagiosa non ci possa essere: quando la risata dell’avvocato partiva prima sommessa e poi sempre più varia e potente, il salone era squassato da una risata collettiva che si protraeva per un tempo che sembrava interminabile. Al termine era tutto uno sfoderare di fazzoletti: tutti avevano le lacrime agli occhi per il troppo ridere; qualcuno nel soffiarsi il naso continuava a ridere. Solo mio padre e Damiano, ed in questo e forse solo in questo erano dello stesso parere, accennavano ad un sorriso. C’era anche il pensatore o nel gergo dei frequentatori del salone il filosofo. Filiforme, con capelli radi, abbastanza lunghi, di colore grigio sporco e quasi sempre in disordine ed arruffati. Naso adunco, occhietti molto mobili, nessuno era mai riuscito a guardarlo negli occhi, perché sfuggivano ad ogni sguardo, anche il più sereno ed ingenuo. Sedeva sempre su una stessa sedia, posta in un angolo della stanza: tutti lo sapevano e, chiunque stesse seduto su quella sedia, al suo ingresso, si alzava e gli lasciava libero il posto per sedersi. Se qualcuno, per disattenzione o per scherzo, continuava ad occupare quella sedia, il filosofo continuava a starsene in piedi silenzioso, vicino alla vetrina, e, di tanto in tanto, continuava a girarsi per vedere se la sua sedia fosse libera. Quando accadeva questo era tutto un ridere sommessamente, uno scambiarsi sguardi d’intesa, un tossicchiare continuo, fino a quando l’abusivo non comprendeva e l’ordine delle cose ritornava ad essere quello deciso da Damiano. Ma quando iniziava a parlare, le parole fiorivano sulle sue labbra ed, anche se erano il più delle volte vaniloqui, l’uditorio era come rapito ed ascoltava attentamente ed in religioso silenzio. Era un prete guasto, per essersi innamorato di una donna sposata ad un esponente della polizia. La famiglia della donna, con l’aiuto o meglio la costrizione del vescovo, scapparono di notte e al poverino non restò altro, per coerenza con se stesso affermava, che buttare la tonaca alle ortiche ed insegnare filosofia al liceo. E che filosofia! Questi menzionati erano quelli che si distinguevano più degli altri nell’arte di raccontare, ma a dire il vero, quasi tutti si cimentarono con alterna fortuna nel racconto di avvenimenti conosciuti o ascoltati per la prima volta. Solo mio padre, pur sorridendo partecipe a qualche racconto di avvenimento inusuale, non lo vidi mai nelle parti del narratore.