Il misterioso avvertimento del Conte, sul momento mi aveva spaventato; ma adesso, se ci ripenso, più ancora mi spaventa, perché significa che in futuro egli eserciterà un malefico potere su di me. Avrò paura di dubitare di qualsiasi cosa mi dirà!
Dopo aver vergato il diario e averlo accuratamente riposto in tasca insieme con la penna, mi sono sentito assonnato. Mi è tornato, sì, alla mente l'avvertimento del Conte, ma piaceva l'idea di disobbedirgli. Il sonno si impadroniva di me, in una con la pigrizia che gli funge da lacché. La morbida luce della luna era distensiva, e l'ampio panorama mi dava un senso di confortante libertà. Ho deciso di non far ritorno nelle stanze visitate dalla tetraggine, ma di dormire là dove, in tempi andati, dame gentili se ne stavano a cantare e a condurre dolci vite, i cuori gentili rattristati dalla lontananza dei loro uomini impegnati in lontane, spietate guerre. Ho cavato un gran divano da un angolo, in modo che, standovi disteso, potessi ammirare l'amabile panorama a est e a sud, e senza pensare affatto alla polvere, a essa del tutto indifferente, mi sono accinto a dormire.
Penso di essermi addormentato; anzi lo spero, ma temo di no, perché tutto ciò che è accaduto era straordinariamente reale, così reale che, a starmene seduto qui ora, nella grande, chiara luce del sole mattutino, non riesco assolutamente a convincermi che di sonno si sia trattato.
Non ero solo. La stanza era la stessa, immutata sotto ogni riguardo dacché vi avevo messo piede; scorgevo sul pavimento, al lume della luna, le orme dei miei passi là dove avevo disturbato il lungo accumulo di polvere. Di fronte a me, nel raggio dell'astro notturno, erano tre donne giovani, dame nell'abbigliamento e nel tratto. Al primo vederle, ho creduto di sognare perché, sebbene avessero la luna alle spalle, non proiettavano ombra alcuna sul pavimento. Mi si sono accostate, guardandomi per un po', quindi sussurrando tra loro. Due erano brune, con nasi aquilini come quello del Conte, e grandi occhi scuri, penetranti, che sembravano quasi rossi nel lucore giallo pallido della luna. La terza era bionda come più non si può essere, con grandi masse di capelli d'oro ondulati, e occhi come pallidi zaffiri. Avevo l'impressione, non so perché, di conoscerne il volto, e che fosse correlato a un onirico timore, ma non sono riuscito a ricordare, al momento, il dove e il come. Tutte e tre avevano candidi denti smaglianti che scintillavano come perle sulle labbra rosse e voluttuose. Provavo, per esse, qualcosa che mi metteva a disagio, una brama e in pari tempo una paura mortale. Avvertivo in cuor mio un perverso, ardente desiderio di essere baciato da quelle rosse labbra.
Non è bene che io lo scriva; ma è la verità. Le tre bisbigliavano tra loro, e quindi tutt'e tre si sono messe a ridere una risata argentina, musicale, ma aspra da far sembrare che mai suono simile potesse uscire da molli bocche umane. Era come l'intollerabile, tinnante dolcezza di un'armonica a bicchieri suonata da un'abile mano. La fanciulla bionda ha scosso il capo con civetteria, e le altre due l'hanno incoraggiata.
Ha detto una:
“Avanti, sei la prima. Dopo tocca a noi. Hai il diritto di cominciare.” E l'altra:
“È giovane e forte; ci sono baci per tutte noi.” Io me ne stavo immobile, sogguardando di sotto le palpebre, in un tormento di deliziosa attesa. La fanciulla bionda si è accostata e si è chinata su di me tanto che sentivo il suo alito sfiorarmi. Dolce, era, in un certo senso dolce come il miele, e mi ha comunicato lo stesso brivido della sua voce, ma con qualcosa di acre sotteso alla dolcezza, alcunché di oltraggiosamente acre, come odor di sangue.
Non osavo sollevare le palpebre ma guardavo e vedevo perfettamente. La ragazza si è inginocchiata e si è protesa su di me, con avidità, sì. C'era una manifesta voluttà che era insieme elettrizzante e repulsiva, e mentre piegava il collo si è leccata le labbra proprio come un animale, e al lume di luna ho veduto scintillare le labbra umide e scarlatte, e la lingua rossa lambire i denti bianchi e appuntiti. Giù, sempre più giù scendeva il suo capo, e le labbra si sono allontanate dalla mia bocca e dal mio mento, sì che parevano prossime ad avventarmisi alla gola. Poi si è arrestata, e ho udito il risucchio della lingua che leccava denti e labbra, e ho potuto avvertire il fiato caldo sul collo. E la pelle mi si è accapponata come quando una mano ci si accosta per farci il solletico, vicina, sempre più vicina.
Quindi il tocco delle labbra duttili, frementi, sulla pelle sensibilissima della gola, e il duro contatto di due denti acuminati, che sfiorano appena e si fermano. Ho chiuso gli occhi in un'estasi di languore, e ho atteso, atteso col cuore che mi batteva forte. Ma proprio in quell'istante, un'altra sensazione mi ha attraversato, rapida come il baleno. Ero consapevole della presenza del Conte, del suo essere lì, in preda a una tempesta d'ira. Gli occhi mi si sono riaperti involontariamente, e ho visto la sua forte mano afferrare il fragile collo della donna bionda e, con gigantesca possanza, tirarla indietro, e gli occhi azzurri della fanciulla erano stravolti dall'ira, i denti bianchi digrignanti, le belle guance ardenti di collera. Ma il Conte! Mai avrei immaginato una simile rabbia e furore, neppure tra i diavoli dell'inferno. Aveva gli occhi letteralmente fiammeggianti, e la luce rossa in essi era immonda, come se le fiamme dell'abisso ardessero dietro le sue pupille. Aveva il volto mortalmente pallido, e i tratti ne erano tesi come cavi d'acciaio, le folte sopracciglia, che sopra il naso s'univano, sembravano ora una pesante barra di metallo incandescente. Con un violento strattone ha scagliato la donna lontano da sé, e alle altre due ha indirizzato un gesto di ripulsa: lo stesso, imperioso movimento che gliel'avevo visto fare di fronte ai lupi. Con voce che, sebbene bassa, anzi quasi un sussurro, sembrava squarciare l'aria e rimbombare nella stanza, ha detto:
“Come osate toccarlo, voialtre? Come osate mettergli gli occhi addosso, quand'io ve l'ho proibito? Indietro, vi dico! Quest'uomo appartiene a me! Attente a non tentare di avvicinarlo, o avrete a che fare con me.” La fanciulla bionda con una risata di ribalda civetteria, ha ribattuto:
“Tu, tu che mai hai amato, che sei incapace di amare!” Le altre si sono unite a lei in una risata priva di gaiezza, dura, inanimata, che ha echeggiato nella stanza, e all'udirla mi sono sentito poco meno che svenire: la si sarebbe detta un'allegria da demoni. Poi il Conte si è volto e, dopo avermi scrutato attentamente, ha detto in un lieve sussurro:
“Sì, anch'io so amare, e voi stesse ne avete avuto la riprova in passato. Non è forse così? Be', vi prometto che, quando l'avrò finita con lui, potrete baciarlo a volontà. Ma ora via, via! Devo svegliarlo, perché c'è del lavoro da compiere.”
“E per noi niente, questa notte?” ha chiesto una delle tre con una bassa risata, indicando la sacca che il Conte aveva gettato sul pavimento e che si sommuoveva come se contenesse alcunché di vivente.
Per tutta risposta, egli ha annuito, e allora una delle donne è balzata ad aprirla. Se le orecchie non mi hanno ingannato, c'è stato un ansito e un breve vagito, come di un bambino semisoffocato. Le donne si sono assiepate attorno alla sacca, mentre io ero impietrito dall'orrore; ma quando ho riaperto gli occhi erano scomparse, e con esse l'orrido involto. Non c'era uscio vicino a esse, né avrebbero potuto passarmi accanto senza che me ne avvedessi. Erano semplicemente parse svanire nei raggi della luna e uscire dalla finestra, perché per un istante ne ho scorto, lì fuori, le vaghe figure nebulose, prima che dileguassero affatto.
Poi l'orrore mi ha sopraffatto, e sono sprofondato nell'incoscienza.