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Il dramma di Orcival

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Blurb

Quando il castello dei conti Trémorel viene trovato mezzo distrutto dai ladri e, in riva al fiume, viene rinvenuto il cadavere della contessa, scatta la ricerca del corpo del conte e la caccia ai colpevoli.Il magistrato arresta subito il giardiniere Guespin, che sembra inchiodato da tutte le prove, quando entra in scena monsieur Lecoq, l’infallibile investigatore parigino che tirerà le fila di una torbida vicenda che inizia anni prima con un altro omicidio mascherato da morte naturale.Con la seconda inchiesta del poliziotto creato da Gaboriau ci ritroviamo tra la provincia francese e i bassifondi parigini.

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I.
I.Il 9 luglio 186..., un giovedì, Jean Bertaud, detto Bisboccia, e suo figlio, i quali campavano, come ben si sapeva a Orcival, facendo i bracconieri e i ladruncoli, si alzarono appena cominciò ad albeggiare, verso le tre del mattino, per andare a pesca. Carichi del loro sartiame, imboccarono l’incantevole viottolo ombreggiato di acacie che si intravede dalla stazione d’Ivry e scende dalla borgata di Orcival alla Senna. Qui raggiunsero la barca, ormeggiata abitualmente a monte del ponte di ferro, lungo un prato che confinava con Valfeuillu, la magnifica tenuta del conte di Trémorel. Arrivati sulla riva del fiume, si sbarazzarono degli arnesi per la pesca e Jean detto Bisboccia balzò nella barca per svuotarla dall’acqua che ne copriva il fondo. Mentre, impugnata la gottazza, la maneggiava con disinvoltura, si accorse che uno degli scalmi della vecchia imbarcazione, consunto dall’attrito con il remo, stava per rompersi. — Philippe — gridò al figlio, occupato a sbrogliare un giacchio di cui un guardapesca avrebbe trovato le maglie troppo strette. — Philippe, vammi un po’ a prendere un pezzo di legno per rifare questo scalmo. — Va bene. Vado — rispose Philippe. Ma sul campo non c’era un solo albero. Il giovanotto, di conseguenza, si diresse verso il parco di Valfeuillu, che era distante solo pochi passi e, senza preoccuparsi minimamente dell’articolo 391 del Codice Penale, varcò con un salto il largo fossato che cingeva la proprietà del signor Trémorel, con l’intenzione di tagliare un ramo da uno degli antichi salici piangenti che allungavano le loro fronde verso l’acqua, sfiorandone la corrente. Trasse di tasca il coltello, lanciò intorno a sé le classiche occhiate furtive del cacciatore di frodo, e gli sfuggì un grido soffocato. — Papà! Ehi! Papà! — Cosa c’è? — rispose il vecchio bracconiere senza muoversi. — Papà, vieni qui! — continuò Philippe. — Per amor di Dio, vieni subito! Jean detto Bisboccia si rese conto, dal tono del figlio, che doveva essere accaduto qualcosa d’insolito. Abbandonata la gottazza, in preda all’inquietudine, con tre salti entrò nel parco. Anche lui rimase impietrito di fronte allo spettacolo che aveva terrorizzato Philippe. Sulla riva del fiume, in mezzo ai giunchi e ai gigli d’acqua, giaceva il cadavere di una donna. I suoi lunghi capelli sciolti erano attorcigliati intorno alle erbe acquatiche; e l’abito di seta grigia, lacero e stracciato, era sporco di melma e di sangue. La parte superiore del suo corpo era immersa nell’acqua poco profonda e il viso affondato nel fango. — Un assassinio! — balbettò Philippe con la voce che gli tremava. — Ah, certo, non ci sono dubbi! — rispose Bisboccia indifferente. — Ma chi può essere questa donna? Sembra quasi la contessa! — Lo vediamo subito — disse il giovanotto. E fece un passo verso il cadavere; ma il padre lo prese per un braccio. — Cosa vuoi fare, disgraziato! — esclamò. — Non si deve mai toccare il cadavere di una persona assassinata senza che sia presente la giustizia. — Credi proprio? — Certo. Si va in galera. — Allora andiamo ad avvertire il sindaco. — E perché? Come se la gente che sta da queste parti non ce l’avesse anche troppo con noi! Come si fa a essere sicuri che non ci accuseranno? — A ogni modo, papà... — Insomma! Se andiamo ad avvertire il signor Courtois, ci chiederà come e perché ci trovavamo nel parco del conte de Trémorel. A te cosa importa che la contessa sia stata uccisa? Troveranno il suo corpo, prima o poi... vieni, andiamocene. Ma Philippe non si lasciò convincere. A testa bassa, il mento appoggiato al palmo della mano, rifletteva. — Bisogna avvertire qualcuno — dichiarò in tono deciso. — Non siamo dei selvaggi! Diremo al signor Courtois che abbiamo scorto il cadavere mentre costeggiavamo il parco con la nostra barca. Situato a cinque chilometri da Corbeil. sulla riva destra della Senna, a venti minuti dalla stazione d’Ivry, Orcival è uno dei villaggi più incantevoli dei dintorni di Parigi, malgrado l’etimologia infernale del suo nome. Il parigino, rumoroso e avido che, la domenica, si riversa nelle campagne, più distruttore delle cavallette, non ha ancora scoperto queste ridenti campagne. L’odore del fritto, tanto gustoso da far venne l’acquolina in bocca, che esce dalle trattorie locali non sommerge ancora il profumo del caprifoglio, e non vi risvegliano ancora un’eco i canti dei canottieri o il ritornello della cornetta che suona nelle sale da ballo pubbliche. Pigramente disteso sul dolce pendio di un colle che bagna la Senna, Orcival ha le case bianche, grandi alberi fronzuti che offrono un’ombra piacevolissima e un campanile nuovo di zecca di cui il paese è fiero e orgoglioso. Da ogni parte lo circondano vaste tenute e case di campagna per il cui mantenimento non si bada a spese e dal suo punto più alto si possono vedere le banderuole di una ventina di castelli. A destra, ecco gli alberi d’alto fusto di Mauprévoir e lo stupendo castello della contessa de la Brèche, di fronte, sull’altra riva del fiume, ecco Mousseaux e Petit-Bourg, l’antica tenuta degli Aguado diventata proprietà di un famoso fabbricante di carrozze, il signor Binder; a sinistra, quegli alberi magnifici appartengono al conte di Trémorel, quel palco grandioso è il parco di Etiolles e in lontananza, più in basso, ecco Corbeil, quella immensa costruzione il cui tetto sovrasta le querce maestose e il mulino Darblay. Il sindaco di Orcival abita nella parte più alta della borgata in una di quelle case che tutti sognano ma che possono permettersi soltanto coloro che hanno una rendita di centomila franchi. Il signor Courtois, fabbricante di tele a riposo, aveva cominciato a lavorare senza il becco d’un quattrino e dopo trent’anni di attività indefessa, si era ritirato con un patrimonio di quattro milioni di franchi. Agli inizi la sua intenzione era stata quella di vivere tranquillamente con la moglie e le figlie, trascorrendo l’inverno a Parigi e l’estate in campagna. Ma, quasi improvvisamente, aveva cominciato a mostrarsi irrequieto e malcontento. Era l’ambizione a roderlo. Perciò aveva fatto il possibile e l’impossibile, con abili manovre, perché gli venisse quasi imposto di accettare la carica di sindaco di Orcival. E se lui l’aveva accettata, lo aveva fatto con evidente riluttanza come si vedrà da quanto segue. Quella carica, in realtà, rappresentava la sua felicità e la sua disperazione. Una disperazione apparente, una felicità autentica e segreta. In apparenza cupo e accigliato, pareva che affrontasse di malavoglia tutte le preoccupazioni inerenti alla sua carica, mentre gongolava, soddisfatto e trionfante, quando poteva partecipare alla festa del consiglio municipale con la fascia, guarnita di passamaneria d’oro, legata alla cintola. Tutti dormivano ancora in casa del sindaco quando i due Bertaud, padre e figlio, si attaccarono al massiccio batacchio della porta. Dopo un po’, un domestico mezzo intontito dal sonno e vestito alla bell’e meglio apparve a una delle finestre del pianterreno. — Si può sapere cosa volete, bricconi? — domandò di pessimo umore. Jean Bisboccia si rese conto che era meglio fingere di non aver sentito quell’insulto, troppo ben giustificato dalla reputazione che aveva nel circondario. — Vogliamo parlare con il signor sindaco — rispose. — Si tratta di una faccenda della massima urgenza. Andate a svegliarlo, signor Baptiste, e non si rimprovererà, vedrete. — A me non mi rimprovera nessuno — grugnì Baptiste. Comunque ci vollero dieci minuti buoni di trattative e di spiegazioni per farlo decidere. Finalmente i due Bertaud vennero ammessi alla presenza di un ometto corpulento, rosso in faccia, visibilmente corrucciato per essere stato tirato giù dal letto a quell’ora antelucana: si trattava del signor Courtois. I due Bertaud avevano deciso che sarebbe stato meglio se fosse stato Philippe a parlare. — Signor sindaco — cominciò quest’ultimo. — Veniamo ad annunciarvi una grave sciagura; nella tenuta del conte de Trémorel è stato commesso un delitto. Il signor Courtois era amico del conte e, di fronte a una dichiarazione così inaspettata, diventò ancora più bianco della sua camicia. — Ah, Dio mio! — balbettò senza riuscire a dominare la propria commozione. — Che cosa mi dite... un delitto... — Sì, poco fa abbiamo visto un cadavere, come in questo momento vediamo voi, e credo che si tratti proprio della contessa. Quella degna persona che era il sindaco di Orcival alzò le braccia al cielo con aria sconvolta. — Ma… dove... quando? — domandò. — Poco fa, in fondo al parco lungo il quale stavamo passando per andare a ritirare le nostre reti. — Ma è orribile! — ripeté il signor Courtois. — Che disgrazia! Una così brava signora! Non è possibile, dovete sbagliarvi; sarei stato avvertito… — Abbiamo visto il cadavere con i nostri occhi, signor sindaco! — Un simile delitto qui, nel mio borgo! Certo, avete fatto bene a venire. Mi vesto in un batter d’occhio e poi ci precipitiamo… no, volevo dire... aspettate! Rifletté un momento e poi chiamò: — Baptiste! Il domestico non era molto lontano. Tenendo incollati alternativamente al buco della serratura l’occhio e l’orecchio, ascoltava e guardava senza perdere nulla di ciò che stava succedendo. Al richiamo del padrone, gli bastò allungare un braccio per aprire la porta. — Il signore mi ha chiamato? — Corri dal giudice di pace — gli disse il sindaco. — Non abbiamo un istante da perdere, si tratta di un delitto, di un assassinio, che venga presto, più presto che può. Quanto a voialtri — continuò, rivolgendosi ai due Bertaud — aspettatemi qui. Vado a mettere la giacca. Il giudice di pace di Orcival, papà Plantat, come lo chiamavano, era un anziano procuratore legale di Melun. A cinquant’anni, dopo una vita in cui tutto gli era sempre andato a gonfie vele, aveva perso nel giro di poche settimane la moglie che adorava e i figli, due simpatici ragazzi, uno di diciotto e l’altro di ventidue anni. Questi lutti che si erano susseguiti a così poca distanza l’uno dall’altro avevano annientato un uomo che trent’anni di vita serena e agiata rendevano ormai incapace di difendersi da una simile sciagura, e per molto tempo tutti avevano temuto che perdesse la ragione. Bastava la visita di un cliente, che venisse a strapparlo dal suo dolore per chiedergli un parere su squallide storie di interesse, a esasperarlo. Di conseguenza nessuno si era meravigliato di vedergli cedere lo studio professionale per la metà di quello che valeva. Il signor Plantat voleva ritirarsi in un posto dove vivere tranquillamente, in compagnia dei propri dolorosi ricordi, con la certezza di non essere disturbato da nulla e da nessuno. Ma, col passare del tempo, l’intensità del suo dolore era diminuita mentre cominciava a farsi sentire sempre più forte la noia provocata dalla mancanza di un’attività. Il seggio di giudice di pace di Orcival era vacante; il signor Plantat lo aveva chiesto, e lo aveva ottenuto. Entrato in carica, aveva cominciato ad annoiarsi un po’ meno. Lui che aveva creduto che la propria vita fosse finita, adesso non poteva fare a meno di interessarsi alle mille cause, fra le più svariate, che gli venivano affidate. Quindi aveva cominciato ad applicare nella professione tutte le migliori capacità di un’intelligenza superiore e tutte le risorse di uno spirito mirabilmente equilibrato nel distinguere il vero dal falso in mezzo alle numerose menzogne che era costretto ad ascoltare. Continuava a vivere in solitudine, malgrado le esortazioni del signor Courtois, affermando che la compagnia del suo prossimo lo affaticava e l’uomo triste e infelice non poteva che diventare un guastafeste per tutti. Così dedicava a un’impareggiabile collezione di petunie il tempo che il tribunale gli lasciava libero. La sfortuna che, in genere, fa modificare il carattere, a volte in meglio, a volte in peggio, lo aveva fatto diventare, almeno in apparenza, terribilmente egoista. Dichiarava sempre di interessarsi alle cose della vita né più né meno come un critico, dal gusto ormai rovinato, di fronte a ciò che si recita su un palcoscenico. E gli piaceva ostentare la sua profonda indifferenza per tutto ciò che lo circondava, arrivando perfino al punto di dichiarare che, se anche una pioggia di cenere e lapilli si fosse rovesciata su Parigi, un fatto del genere non avrebbe provocato in lui il minimo interesse. Pareva che fosse impossibile suscitare la sua commozione, “cosa volete che me ne importi!” era il suo ritornello preferito. Ecco, dunque, chi era il personaggio che, un quarto d’ora dopo essere stato mandato a chiamare da Baptiste, arrivò in casa del sindaco d’Orcival. Il signor Plantat era alto di statura, magro, tutto nervi. La sua fisionomia non aveva niente di straordinario. Portava i capelli corti; i suoi occhi avevano un’espressione inquieta e pareva che cercassero sempre qualcosa, il naso era lungo ma affilato come una lama di rasoio. Dopo tutte le sue disgrazie, la bocca, anche quella lunga e sottile, aveva cambiato forma; il labbro inferiore, più molle e afflosciato, gli dava un’aria ingenua e un po’ sciocca, del tutto ingannevole. — A quanto mi dicono — esclamò appena entrato dalla porta — la contessa di Trémorel sarebbe stata assassinata. — Perlomeno è quello che affermano questi uomini — rispose il sindaco, rientrando anche lui in quel momento. Il signor Courtois non sembrava più quello di prima. Aveva avuto il tempo di riacquistare un po’ il controllo di sé e, adesso, faceva del suo meglio per assumere un aspetto freddo e maestoso, ma continuava a rimproverarsi di aver mancato di dignità manifestando liberamente il proprio turbamento e il proprio dolore davanti ai due Bertaud. “Niente deve commuovere fino a questo punto un uomo nella mia posizione” si era detto, e quindi, adesso, per quanto fosse profondamente sconvolto, si sforzava di mostrarsi calmo, impassibile, freddo. Quanto al signor Plantat, lo era già di natura. — Sarebbe un incidente molto increscioso — esclamò con un tono assolutamente privo d’interesse — ma, in fondo, ci riguarda relativamente, vero? A ogni modo è necessario andar subito a vedere di che si tratta; ho già fatto avvertire il brigadiere della gendarmeria che verrà a raggiungerci. — Allora, andiamo — disse il signor Courtois. — Ho la mia fascia tricolore in tasca. Si avviarono. Philippe e suo padre per primi, il giovanotto con un’aria ansiosa e spazientita, il vecchio con la faccia cupa e preoccupata. Il sindaco, a ogni passo, si lasciava sfuggire una nuova esclamazione. — Cerchiamo di capirci — mormorava. — Un delitto nel mio comune... un comune dove a memoria d’uomo non è stato mai commesso un crimine? E scrutava i due Bertaud con occhi colmi di sospetto. La strada che conduceva alla villa — in paese la chiamavano “il castello” — del signor Trémorel non aveva niente di bello, incassata com’era tra due muri alti qualche metro. Da una parte costeggiava il parco della marchesa de Lanascol, dall’altra il grande giardino di Saint-Jouan. Tutto quell’andirivieni aveva richiesto parecchio tempo e, quindi, erano quasi le otto quando il sindaco, il giudice di pace e le loro guide si fermarono davanti al cancello della villa Trémorel. Il sindaco suonò. La campana era squillante e soltanto un piccolo cortile con il fondo coperto di sabbia, largo cinque o sei metri, separava il cancello dall’ingresso della villa. Tuttavia nessuno comparve. Il sindaco suonò di nuovo, con rinnovato vigore, e poi più forte ancora, con tutte le sue forze, ma invano. Davanti al cancello della proprietà della signora de Lanascol, situato quasi di fronte, un palafreniere era intento a lucidare alcuni finimenti. — È inutile prendersi la briga di suonare, signori — disse costui. — Al castello non c’è nessuno. — Come! Non c’è nessuno? — domandò il sindaco sorpreso. — Voglio dire che ci sono soltanto i padroni — rispose il palafreniere. — I domestici sono partiti ieri sera, con il treno delle otto e quaranta, sono andati tutti a Parigi alla festa di nozze della ex cuoca di casa, la signora Denis. Dovrebbero rientrare stamattina con il primo treno. Ero invitato anch’io ma... — Gran Dio onnipotente! — lo interruppe il signor Courtois. — Allora il conte e la contessa sono rimasti soli questa notte? — Sì, completamente soli, signor sindaco. — Ma è orribile! Sembrava che il signor Plantat cominciasse a spazientirsi di fronte a quel dialogo. — Sentite un po’ — disse. — Non possiamo restare in eterno davanti a questo cancello. I gendarmi non arrivano. Andiamo a chiamare il fabbro. Philippe stava già per avviarsi quando dalla strada si sentirono provenire canti e scrosci di risa e ben presto comparvero cinque persone, tre donne e due uomini. — Ah! Ecco la servitù del castello — disse il palafreniere che sembrava singolarmente incuriosito da quella visita mattutina — E devono avere una chiave. I domestici, da parte loro, accorgendosi del gruppetto di persone fermo davanti al cancello, ammutolirono e affrettarono il passo. Anzi uno del gruppo si mise addirittura a correre, precedendo gli altri; era il cameriere personale del conte. — I signori desiderano parlare con il signor conte? — domandò, dopo aver salutato il sindaco e il giudice di pace. — Abbiamo già suonato energicamente almeno cinque volte — disse il sindaco. — È molto strano — osservò il cameriere — Fra l’altro, il signore ha il sonno molto leggero. Potrebbe darsi, però, che sia uscito. — Che sciagura! — si mise a gridare Philippe. — Saranno stati assassinati tutti e due! Queste parole ottennero subito lo scopo di far passare tutta l’allegria ai domestici che, a giudicare dalla loro aria giuliva, dovevano aver brindato abbondantemente alla felicità dei novelli sposi. Quanto al signor Courtois, invece, stava studiando attentamente il modo di comportarsi del vecchio Bertaud. — Un assassinio! — mormorò il cameriere. — Ah! Deve essere stato per la faccenda dei soldi, allora... qualcuno sarà venuto a sapere che… — Che cosa? — domandò il sindaco — Il signor conte ieri mattina ha ricevuto una grossa somma di denaro. — Già, è vero, molto grossa — aggiunse una domestica. — Era un pacco così, tutto di biglietti di banca. Perfino la signora ha detto al signor conte che non avrebbe chiuso occhio per tutta la notte con una simile quantità di denaro in casa! Seguì un silenzio. I presenti si scrutavano con aria spaventata. Il signor Courtois rifletteva. — A che ora siete partiti ieri sera? — domandò ai domestici. — Alle otto. Avevamo servito con un po’ di anticipo la cena. — Siete partiti tutti insieme? — Sì, signore. — Non vi siete mai lasciati? — Neanche per un minuto. — E siete anche tornati tutti insieme? I domestici si scambiarono una strana occhiata. — Sì, tutti — rispose la cameriera che sembrava più loquace delle altre. — Cioè no. C’è stato uno di noi che, arrivati alla Gare de Lyon, a Parigi, ci ha lasciato; si tratta di Guespin. — Ah! — Sì, signore, se l’è squagliata per conto suo dicendo che ci avrebbe raggiunto da Wepler, a Batignolles, dove si teneva la festa di nozze. Il sindaco allungò una robusta gomitata al giudice di pace, come per raccomandargli di stare attento, e continuò l’interrogatorio. — E questo Guespin, come lo chiamate... non l’avete più visto? — No, signore. Per tutta la serata, mi è capitato più di una volta di domandare sue notizie, ma inutilmente; la sua assenza mi pareva poco chiara. Era evidente che la cameriera tentava con ogni mezzo di farsi passare per una persona straordinariamente perspicace; a lasciarla fare, si sarebbe addirittura messa a parlare dei presentimenti di una disgrazia, che credeva di aver avuto! — Torniamo a questo domestico — continuò il signor Courtois. — Si trovava da molto tempo a servizio qui, in casa? — Dalla primavera. — Quali erano le sue incombenze? — Era stato mandato dalla ditta del Gentil Jardinier per curare i fiori rari della serra della signora. — E... era al corrente anche lui di quella somma di denaro? I domestici si scambiarono ancora altri sguardi mollo significativi. — Sì, sì — risposero in coro. — Ne avevamo parlato in merito anche fra di noi. — Figuratevi — aggiunse la cameriera linguacciuta — che ha perfino detto, parlando proprio con me: “E pensare che il signor conte, nella sua scrivania, ha quello che basterebbe a fare la fortuna di tutti noi!” — Che tipo di uomo sarebbe questo Guespin? Bastò questa domanda a far ammutolire del tutto i domestici. Nessuno osava parlare, rendendosi conto che sarebbe bastata anche la minima parola a fornire elementi sufficienti per una gravissima accusa nei confronti di un loro compagno. Ma il palafreniere della casa di fronte, che moriva dalla voglia di intromettersi, non ebbe tanti scrupoli. — È un bravo ragazzo, Guespin — rispose. — Un ragazzo che conosce il mondo. Perdio, se non lo conosce! E racconta anche certe storie! È molto istruito, quel brav’uomo, anzi sembra che, in passato, sia stato anche ricco e se avesse voluto... ma, perbacco, certo che non gli piace troppo lavorare! Ci sono pochi ai quali piace far la bella vita e spassarsela come a lui e, come se non bastasse, gioca a biliardo in un modo formidabile! Per quanto ascoltasse in modo apparentemente distratto queste dichiarazioni o meglio, a voler esser più giusti, questi pettegolezzi, il signor Plantat stava esaminando con somma attenzione il muro di cinta e la cancellata. A un certo momento si voltò bruscamente per interrompere il palafreniere e disse in un tono che scandalizzò, letteralmente, il signor Courtois: — Bene, adesso finiamola! Prima di procedere con questo interrogatorio, sarà meglio constatare l’esistenza del delitto, se poi di delitto si tratta, perché, a ben pensarci, non è ancora stato dimostrato. Chi di voi ha la chiave, apra il cancello. Il cameriere personale del conte, che ne era in possesso, si fece avanti per aprire ed entrarono tutti nel piccolo cortile. In quel momento arrivarono anche i gendarmi. Il sindaco diede ordine al brigadiere di seguirlo e fece disporre due uomini ai lati del cancello con l’incarico di non lasciar né entrare né uscire nessuno senza il suo permesso. Soltanto a questo punto il cameriere aprì la porta della villa.

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