2.
Non so quanto tempo passò. Dormii una specie di sonno agitato, svegliandomi di continuo. Avevo freddo, fame, sete.
A un certo punto, nella stanza entrò un’altra persona.
Era una ragazza giovane, più giovane di me. Doveva avere al massimo vent’anni.
Non era una di loro. Era un essere umano. Mi posò una ciotola subito fuor dalla gabbia, dove potevo arrivare con le mani.
Se ne andò senza guardarmi.
Ora, dovete capire che nel frattempo era tutto diventato ancora più schifoso. Ero rimasta chiusa lì dentro diverse ore – almeno dodici, secondo i miei calcoli – e avevo espletato i normali bisogni corporei dentro la gabbia.
Che cosa avrei dovuto fare?
Era ributtante.
Guardai il contenuto della ciotola. Era una fetta di pane nero immersa in un liquido denso, forse (sperai) brodo.
Facendo passare le mani attraverso le sbarre, la presi e me la portai alle labbra. Premendo le guance contro le sbarre riuscii a bere. Un po’ di brodo mi colò sul mento e sul petto.
Stavo finendo quando nella stanza entrò qualcun altro.
«Diavolo, che schifo» disse il biondo che avevo conosciuto come Vlan. Si stava tappando il naso con due dita.
Quello, per la prima volta, mi fece provare rabbia. Non dissi niente. Posai la ciotola e lo guardai. Pensai il più chiaramente possibile: Se mai mi libererò, sarò io a uccidere te.
Il biondino mi guardò con espressione glaciale. «Questo proposito ti costerà caro» disse.
«Mi costerà caro tutto comunque» ribattei io, a voce alta. Avrei voluto dirlo in tono fermo, ma era la mia prima voce della giornata e fu piuttosto roca.
Quello che accadde dopo fu velocissimo. Quegli esseri non si muovevano come le altre persone. Riuscivano ad accelerare in modo spaventoso.
La porta della gabbia si aprì e io venni trascinata fuori per un braccio. Il mio polso destro si ruppe con un crock secco e io urlai. Per il primo secondo il dolore fu bestiale, ma poi si attutì. Sapevo che di lì a qualche minuto avrei ripreso a urlare, comunque.
Rotolai per terra e venni sollevata come una piuma. Un secondo più tardi, di nuovo dolore.
Non so nemmeno che cosa successe.
Qualcosa mi entrava dentro, spaccando tutto, e usciva di nuovo. Più tardi capii che Vlan mi aveva infilato una mano dentro la v****a. Una mano intera, veloce come un maglio.
Gridai di nuovo, accorgendomi spaesata che avevo iniziato a sanguinare copiosamente.
Il dolore al polso, intanto, era diventato devastante. Stesa su un fianco, gemetti piano. Sperai di svenire, ma non avvenne.
«Che cazzo, Vlan» disse un’altra voce maschile. «Ti sta sporcando tutto il tappeto».
«Ha pensato di ammazzarmi» spiegò il primo.
Sentivo le loro voci come se provenissero da una distanza incalcolabile.
«Vuol dire che ha carattere».
«Diavolo, sanguina come un porco».
«A occhio e croce direi che l’hai appena rotta. Finiscila, no?».
«Può durare ancora qualche giorno».
Con immensa fatica, sollevai lo sguardo su quelle voci. Continuavo a sanguinare e iniziavo a vedere delle macchie nere davanti agli occhi.
Vlan mi guardava con espressione seccata, Adrian era imperturbabile.
Aiutami, pensai.
Vlan rise.
«Lo farei» rispose, invece, l’altro, serio. «Ma non sei mia. Non sarebbe educato».
«Non ti regalerei mai questo scarto di puttana, Adrian» disse Vlan, che con lui era dolce come il miele. «Ma se per caso ti interessa puoi prenderla».
«È gentile, da parte tua» rispose il primo, leggermente sarcastico.
Vlan abbassò ulteriormente le penne. «Intendevo dire che è un dono ben misero. Puoi scegliere qualunque mio schiavo, se lo desideri».
Nel frattempo io continuavo a sanguinare, è chiaro. A sanguinare e a provare un dolore fortissimo al polso e tra le gambe.
Sentii un sospiro e poi venni sollevata. «Molto bene» disse Adrian. «È il giorno fortunato di questo animaletto. O forse no». Una lievissima risata. «Probabilmente no».
Subito dopo mi sembrò di finire in un tornado. Più tardi capii che, molto semplicemente, Adrian si era spostato alla sua velocità.
Mi ritrovai in un’altra stanza, una camera da letto.
Sul letto.
A pancia in su.
Continuavo a sanguinare.
Adrian mi allargò le gambe e si chinò sopra il fulcro di dolore pulsante che era la mia fica. Sentii la sua lingua che lappava il mio sangue e sperai che non avesse intenzione di usarmi come spuntino e basta.
Lui rise.
La sua lingua mi leccò sulle cosce e sulla vulva, delicata. Sollevai la testa e cercai di guardare che cavolo stesse facendo. Il mondo sembrò iniziare a girarmi attorno.
Vidi il suo viso tra le mie cosce, con la bocca e il mento insanguinati. Il dolore era devastante. La sua lingua, quando riprese a lapparmi, lo accentuò soltanto. Mi morsi le labbra per non urlare.
Ero lacerata, allargata, slabbrata. Mi bruciava tutto come se avessi dei carboni ardenti tra le grandi labbra.
Adrian continuò a lappare. Era semplicemente dolorosissimo, ma era anche... strano. Dove era passata la sua lingua, la mia pelle formicolava leggermente.
Lo vidi lacerarsi il labbro inferiore con i denti.
Dalla ferita colò un rivolo di sangue. Lui abbassò di nuovo la testa e sentii la sua lingua entrare nell’imboccatura della mia v****a.
Non so che cosa avvenne. Lentamente, il dolore si attenuò. Mi resi conto che non sanguinavo più. Continuavo a provare un dolore sordo all’interno.
Adrian si morse di nuovo. Mi posò le labbra sul buchetto e soffiò come se volesse gonfiare un palloncino. Lanciai un piccolo grido. Sentii che qualcosa mi colava dentro. Di nuovo quello strano formicolio.
Un’altra volta la sua lingua, che mi esplorava meticolosamente. Grandi e piccole labbra. Perineo. Imboccatura della v****a. Clitoride.
Ora, quello non c’entrava davvero niente. Era l’unica parte che si fosse salvata, in pratica.
Lui lo leccò e lo succhiò. Lo mordicchiò, addirittura.
Del tutto a tradimento, fui invasa da un’ondata di piacere. Non aveva alcun senso.
Non aveva alcun senso che iniziassi ad ansimare come una puttanella in calore, in quelle circostanze, eppure iniziai a farlo.
Ripensai a Myra, il giorno prima, e mi chiesi se non ci fosse qualcosa di particolare nella saliva di quel tizio.
«Sì» rispose lui, praticamente parlando con la mia v****a.
Oh, fantastico, pensai. Avevo il respiro accelerato, i capezzoli mi si erano induriti e la fica iniziava a bagnarsi e a pulsare. Cosa che, per inciso, mi faceva male.
Lui mi leccò ancora sopra il clitoride.
«Hai capito?» mi chiese.
Annuii.
Sollevò la testa e si slacciò i pantaloni. Non lo vidi nemmeno entrare, ma lo sentii. Mi sentii improvvisamente piena di un pene maschile, nessun dubbio in merito.
Mi fece un male del diavolo. Mi morsi le labbra per non gridare.
Nonostante tutta la preparazione, mi sembrava che il suo cazzo fosse di un qualche materiale incandescente.
Iniziò a muoversi. Io restai ferma, troppo dolorante per fare alcunché.
Almeno alzare un pochetto il bacino sarebbe stato gentile, ma non ce la facevo. Il dolore era troppo. Non volevo che pensasse che non gli ero grata – perché capivo che cosa stava facendo – ma era già tanto che non urlassi.
«Va bene» disse lui.
Accelerò e fu più o meno la fine del mondo. Dolore devastante, mescolato a un’infinitesima parte di piacere.
«Guardami» disse lui.
Lo feci.
I suoi occhi verdastri si fermarono nei miei e iniziai a sentirmi stranamente intontita. Poi eccitata.
Di nuovo, i capezzoli mi si indurirono. Una scossa di piacere si mescolò al dolore.
Quell’essere inspiegabile continuava a guardarmi e io cominciai a godere. Mi uscirono dalle labbra piccoli gemiti soffocati. Mi protesi verso di lui, cercando la sua bocca.
Lui mi baciò e mi morse nello stesso momento. Poi mi leccò. Poi mi morse di nuovo.
Sentii una contrazione dolorosa attraversare la mia disgraziata fichetta. Piacere, tormento, tutto.
Ebbi un orgasmo doloroso e liberatorio. Un istante dopo Adrian mi venne dentro. Sentii fisicamente il suo seme, bruciante.
Lui si sfilò e si allontanò, troppo veloce perché vedessi tutti i suoi movimenti.
Restai sul letto, ansimante, con le ginocchia ancora aperte e l’interno del sesso che mi formicolava. Stranissimo.
Quando mi fui ripresa a sufficienza, chiusi le gambe e mi voltai su un fianco.
Cercai Adrian con lo sguardo.
Lui si sedette tranquillamente accanto alla mia testa.
Grazie, pensai. Stavo guarendo. Anche in quel momento, stavo guarendo, lo potevo sentire.
«Vediamo questo polso» disse lui.
Lo sollevai.
«Le ossa sono un’altra faccenda» spiegò Adrian. «Naturalmente potrei farti bere da me, ma la mia immensa generosità non si spinge fino a questo punto» sorrise, sarcastico. «Quindi... vediamo se la frattura è composta e lasciamo che la natura faccia il suo corso».
Ancora una volta, mi fece un male da impazzire, ricomponendo i due frammenti del mio polso fratturato. Fece a brandelli una parte del lenzuolo e lo usò per bendarlo stretto.
Tornò a chinarsi su di me e, fissandomi negli occhi, mormorò: «Dormi».
Qualche minuto più tardi dormivo davvero.
+++
Mi svegliai per il dolore al polso. Tra le gambe era più o meno tutto okay, ma il polso mi faceva un male del diavolo.
Aprii gli occhi e mi guardai intorno. Ero nella stanza da letto in cui Adrian mi aveva curata (diciamo “curata”). Ero ancora nuda, ma qualcuno mi aveva posato una coperta addosso. Sempre il solito vampiro gentile, supponevo, anche se sul gentile avevo i miei dubbi.
Un istante più tardi realizzai che ero sola e non ero in una gabbia.
Mi alzai di scatto. Il mondo iniziò a girarmi attorno.
Non importava. Respirai lentamente per qualche minuto. Ero debolissima, questo è chiaro. Non mangiavo un pasto completo da almeno un giorno, avevo perso un sacco di sangue, ero febbricitante e avevo un polso rotto...
Ma quella era, probabilmente, l’unica occasione di scappare che avrei avuto.
Barcollando, arrivai fino alla finestra. Scostai le tende. Era notte fonda. Eravamo in campagna. Vedevo degli alberi e una strada stretta e curva. Dei cespugli. Immaginai che fossimo da qualche parte non molto distante da Londra. Potevo camminare fino a raggiungere un centro urbano: l’Inghilterra non è il deserto del Sahara, c’è gente dappertutto.
La stanza in cui ero era in alto, al secondo o al terzo piano, ma decisi che non aveva importanza. Mi sarei anche tuffata nel vuoto, pur di andarmene di lì.
Provai ad aprire la finestra, ma naturalmente era chiusa.
Andai alla porta e constatai senza stupore che era chiusa anche quella.
Non sapevo quanto tempo avessi. Mi guardai intorno. Non c’era niente di utile, solo il letto e un grande armadio.
Mi venne un’idea. Aprii l’armadio, sperando che ci fosse un bastone appendiabiti.
«Sì!» sussurrai, quando lo trovai. Lo presi. Era del tipo peggiore, con l’asta di legno e la punta di plastica, ma doveva bastare.
Lo bilanciai nella sinistra, pronta a sferrare il primo colpo contro il vetro della finestra. Non ero molto ottimista sui risultati, ma dovevo provare.
«No, no...» disse la voce bonaria di Adrian, alle mie spalle. Mi voltai, senza lasciare il bastone. In fondo, pensai, era un bastone di legno. Chissà se...
Il suo viso fu attraversato da un guizzo ironico. «E uccideresti me?» chiese, divertito.
«Riuscendoci» risposi, onestamente. Lui mi aveva curata e probabilmente mi aveva salvato la vita, ma mi teneva anche prigioniera. Non l’avrei ucciso volentieri, ma per liberarmi l’avrei fatto.
«Li-ber-tà...» sillabò lui, ancora divertito. «Ah, sì. Un concetto importantissimo. No, non puoi uccidermi con quell’affare. Non puoi nemmeno usarlo per sfondare il vetro, probabilmente. Sono vetri belli spessi. Se anche ci riuscissi, poi, nelle tue condizioni non riusciresti ad arrivare a terra viva. Quindi, capisci, ti conviene fare docilmente quello che ti dico».
Annuii seccamente e posai il bastone.
«Qua ci sono i tuoi vestiti» disse, posando sul letto una sacca scura. «Ti accompagnerò in un bagno, dove ti laverai e ti vestirai. Partiamo tra mezz’ora».
Avrei voluto sapere per dove, ma mi rimangiai la domanda. Aveva detto di essere un ospite, in quella casa. Probabilmente saremmo andati nel posto in cui viveva lui, ovunque fosse.
Per me non faceva differenza.
Presi il borsone e lo seguii fuori dalla stanza. Arrivammo in fondo a un corridoio e Adrian mi aprì una porta.
Entrai.
Era un piccolo bagno privo di finestre. C’era un box doccia, un water e un lavandino senza specchio. Definirlo “essenziale” era riduttivo. Sentii la porta che veniva chiusa a chiave dietro di me. Fine dei miei progetti di fuga.
Feci i miei bisogni, bevvi, poi posai il borsone sul coperchio del water.
Entrai nel box doccia e mi lavai usando il bagnoschiuma che trovai all’interno. Mi asciugai con il telo di spugna che era appeso fuori.
Non avevo modo di pettinarmi i capelli, quindi ci provai con le dita. Non avevo uno specchio, quindi non so fino a che punto ci riuscii.