1. Sono la guardia del corpo

3132 Words
1 Sono la guardia del corpo Calix Gli doveva la vita, lo sapeva e si rendeva perfettamente conto che Ken glielo avrebbe rinfacciato finché la morte non lo avesse seppellito assieme a tutti gli altri suoi avi. Calix stava ammirando l’oscurità che li circondava: tutta quella immensa distesa d’acqua era inquietante. La notte era scura e nascondeva i possibili nemici. Il lieve russare di Ken era l’unico suono nella cabina, il suo udito però poteva sentire senza difficoltà gli scricchiolii della nave, il rumore dei motori e il lieve vociare delle persone che si fermavano a chiacchierare nel corridoio. Sospirò frustrato. Che noia. Il suo compagno di viaggio aveva voluto prendere la nave da crociera come copertura, come se fosse possibile passare inosservati stando accanto a Ken Suzokawa, l’uomo che lo aveva obbligato a seguirlo come guardia personale. Sapeva bene che la sua vita ormai era di proprietà della Suzokawa Corporation, ma ogni tanto gli sarebbe piaciuto avere la possibilità di poter scegliere se accettare o meno. Sospirò di nuovo: nessuno lo avrebbe mai preso sul serio come guardia personale. Questo era sicuramente uno dei punti di forza del suo basso profilo: sembrare un uomo qualunque, sotto i trent’anni, uno di quelli che avresti confuso con tutti gli altri. Capelli neri, occhi scuri e pelle chiara: insomma, il classico uomo qualunque. Peccato che nessuno potesse immaginare che sotto quell’aspetto si nascondesse un’età che superava le due cifre a cui di solito un essere umano poteva aspirare. Aveva visto il mondo cercare di cambiare e di migliorarsi, ma ogni volta era stata sempre una delusione. Gli esseri umani non riuscivano a sradicare coloro che li avevano mal governati per anni. Il potere era passato dai padri ai figli e così via, distruggendo intere nazioni, scatenando guerre inutili. Aveva perso il conto ormai di quante volte le masse avevano tentato di rivoltare quell’assurdo sistema. Che tristezza. Quante vite sprecate. Anche lui una volta era stato uno di loro, un essere umano, ma si trattava di tanto tempo fa. Un rumore attutito dalla moquette attirò la sua attenzione. Osservò circospetto la porta: due presenze erano lì dietro, li sentì distintamente caricare le armi. Per un breve istante valutò l’idea di svegliare Ken, ma la scartò immediatamente: non serviva averlo fra i piedi, il suo compito era proteggerlo e lui lo avrebbe fatto. Si posizionò di fianco alla porta in attesa; come previsto i due l’aprirono silenziosamente, a quanto pareva avevano una chiave magnetica, segno che qualcuno a bordo li stava aiutando. Quella poteva essere una scocciatura. Con una mossa veloce li afferrò entrambi per il collo, fece pressione con le dita e in un attimo le loro teste penzolavano in maniera innaturale. Li buttò a terra e chiuse la porta; erano dei dilettanti. I suoi occhi osservarono i due uomini, scoprendo che non erano presenti nella sua memoria. I tratti erano caucasici, i vestiti di ottima fattura, le armi erano dei modelli costosi. Sicuramente erano stati ben pagati, ma non avevano previsto di incontrare lui sul loro cammino. Se il loro obiettivo era Ken, sicuramente avrebbe avuto altre sorprese durante il viaggio. Memorizzò i volti, li avrebbe cercati più tardi tramite il database della Suzokawa Corp., adesso doveva liberarsi di loro. Si avvicinò alla finestra e la aprì, la brezza marina entrò nella stanza invadendo l’ambiente. Con calma afferrò il primo e senza tante cerimonie lo gettò in mare; stessa fine fece anche il secondo. Per qualche minuto si godette la sensazione dell’aria sulla pelle, mentre i suoi capelli si muovevano indisciplinati a causa del leggero venticello: era piacevole. «Chiudi quella maledetta di finestra.» E addio alla piacevole brezza. Senza contraddire l’ordine, ubbidì. D’altronde era stato creato e assunto per questo: ubbidire. Nient’altro quella notte venne a disturbarli. Per qualche folle motivo aveva invece sperato in un po’ più di movimento: peccato. Il mattino era sempre bello da vedere, tutte quelle sfumature nel cielo gli infondevano calore; per quel breve attimo in cui i colori si mescolavano fra loro aveva ancora la parvenza di essere un semplice umano. «Dove diamine è la mia colazione?» Un giorno lo avrebbe ucciso, ne era certo. Quell’uomo aveva il magico dono di aprire bocca nei momenti meno indicati. «Recupera la mia maledettissima colazione.» L’osservò alzarsi dal letto e cercare di riordinare i pensieri. «Questo non fa parte delle mie priorità. Ti ricordo che il mio compito è di proteggerti, non di accudirti.» Si voltò nuovamente verso la finestra, lo spettacolo dell’alba ormai era sfumato. Non gli interessavano i borbottii e i rimproveri diretti a lui: aveva un compito e lo stava svolgendo, il resto non erano affari suoi. «Avrei dovuto eliminare il tuo carattere quando mio nonno ti ha passato a me,» sbuffò Ken sbattendo la porta del bagno. Ricordava ancora perfettamente il giorno in cui era stato creato, era uno di quei momenti che avrebbe volentieri cancellato dalla memoria, ma che purtroppo gli serviva per aggrapparsi a quella poca umanità che gli era rimasta. Solo quando era strettamente necessario, doveva sottoporsi a dei controlli per degli upgrade, ovviamente sotto strettissimo controllo del personale della Suzokawa Corporation. Inutile dire che lui era unico, un segreto ben custodito che nessuno, al di fuori del personale specifico, conosceva. Nel database erano state programmate tutte le identità che aveva assunto nei suoi anni di vita: infatti, più o meno ogni trent’anni doveva fingersi un’altra persona. Era diventato quasi un divertimento programmare la propria morte, ne aveva in mente alcune davvero fantasiose. La Suzokawa Corporation era l’azienda più importante al mondo per le tecnologie. Tutto passava da lì. L’intera umanità le aveva affidato i propri dati, la loro stessa esistenza, e la società li custodiva gelosamente. Le migliori menti erano sotto contratto e strettamente sorvegliate, perfino i motori della nave su cui stavano viaggiando erano stati costruiti da una delle loro filiali. Questo non voleva dire che non ci fossero altre società come la Suzokawa, ma fra tutte era quella che disponeva di più risorse. Ovviamente provenienti dalle commissioni militari. Ken uscì dal bagno lavato e profumato. «Muoviamoci, ho fame.» Calix lo seguì nei vari corridoi che li avrebbero condotti nella sala da pranzo. «Ma che diavolo hai fatto stanotte? Perché c’erano le finestre aperte?» «Due scarafaggi, li ho buttati in mare.» Lo sguardo curioso dell’uomo si posò su di lui. «Ah, sì?» «Credo però che ci sia un terzo scarafaggio nei paraggi.» «Bene, mi affido a te.» Entrarono nella grande sala, i suoi sensi già all’erta per ascoltare e valutare tutto quello che si stava svolgendo attorno a loro. Si sedettero al tavolo e Ken ordinò anche per lui; ovviamente non gli aveva chiesto nulla, non serviva. Lui lo conosceva bene. Sul fondo della sala erano stati posizionati degli specchi immensi per rendere visivamente ancora più grande l’intero spazio. Calix si soffermò a osservare la propria immagine: sembrava davvero un essere umano, chi avrebbe mai potuto sospettare che sotto quella pelle si celasse un segreto rigorosamente tabù? Sorseggiò il caffè assaporandone l’aroma forte, come piaceva a lui. «Allora, una volta arrivati sai chi dovremo cercare?» chiese Ken. Era ovvio che lo sapesse, era stato aggiornato poco prima della partenza: il Dottor Eshmun, bioingegnere ricercato da tre continenti per aver effettuato i suoi esperimenti su esseri umani non consenzienti. Improvvisamente sparito negli ultimi sei anni. I pazienti erano tutti morti, nessuno aveva mai trovato i suoi appunti, dati o registrazioni. Tutto rigorosamente cancellato. «Non trovo che sia una buona idea.» «Non ti ho chiesto un parere,» rispose Ken mangiando con gusto la sua colazione. Sapeva sempre come trovare il modo di rendere piacevole ogni singola giornata della sua vita, che fosse una semplice colazione o una trattativa con un pazzo schizzato che si definiva in grado di curare ogni male. Con sua somma sorpresa e noia, il resto del tragitto fu tranquillo. Una volta a terra, cambiarono diverse vetture e alla fine si fermarono davanti ad alcuni palazzi all’apparenza rispettabili: grattacieli simili l’uno all’altro, nessuno spiccava per qualche bellezza architettonica. Lo scanner d’ingresso li fece passare, segno evidente che qualcuno lo aveva programmato in quel modo. I suoi sensi erano al massimo ma nessun rumore pareva fuori posto. «Sembra tutto troppo tranquillo.» Ken si spolverò la giacca da qualche granello di polvere invisibile. «Sei troppo teso. Tranquillo, lui sa quello che fa.» Si premurò di fissarlo con scetticismo ma non aggiunse niente. Il loro ascensore li stava portando in alto, molto in alto; si fermarono al settantaquattresimo piano. Uscì per primo, controllando che non ci fosse nessuno, e poco dopo Ken lo seguì in silenzio. Si fermarono davanti a una porta, con il simbolo della Suzokawa Corp. in bella vista. «Questo spiega perché nessuno abbia messo le mani sul Dottore. Lo stavi proteggendo.» Una constatazione, nulla di più: sapeva che Ken e la sua corporazione avevano le mani ovunque, ma che addirittura proteggessero quell’uomo era assurdo. Mantenne però quei commenti per sé e si tenne pronto a scattare a qualsiasi segno di pericolo; d’altronde era quello il suo compito. Quando la porta si aprì, rimase stupito nel trovarsi di fronte a un comunissimo appartamento: un paio di divanetti color crema, uno schermo piatto attaccato al muro e altri mobili. Tutto troppo normale e tutto troppo nuovo. Nessun segno di usura, il nulla più totale. Era uno specchietto per le allodole, ma cosa stavano cercando di nascondere? «Ammira, il palazzo dentro il palazzo.» Calix notò chiaramente l’orgoglio nella voce di Ken, mentre una porta si apriva dove prima c’era un muro praticamente perfetto. «Camuffamento olografico,» sussurrò piano. «Esattamente. Una trovata geniale per tenere alla larga gli impiccioni del governo.» Geniale era riduttivo. Un mimetizzatore olografico era qualcosa che conosceva solo perché lo aveva visto nei laboratori della Suzokawa. Tecnologia avanzatissima arrivata dal lontano Titano per scopi scientifici, ma che abbinata all’intelletto umano portava a nascondere anche i segreti più pericolosi. A volte si domandava cosa sarebbe successo se gli altri membri del Consiglio dei pianeti li avessero scoperti. Altro che uomini poveri e indifesi! Dalla ripresa dell’attacco avvenuto quasi duecento anni prima a opera delle milizie di Urano, gli esseri umani avevano imparato che la protezione doveva essere silenziosa. Ufficialmente avevano abbandonato la via militare, ma segretamente erano forse il pianeta meglio armato della Via Lattea. Come era ovvio, nessuno a parte chi di dovere era a conoscenza di queste informazioni, e queste persone Calix le poteva contare sulle dita di una mano, considerando che due erano proprio loro. Un segreto davvero ben custodito. Con un briciolo di emozione aprì la porta e ciò che si trovò davanti fu una vera sorpresa. Adesso poteva seriamente capire l’allusione di prima: un palazzo dentro a un palazzo. «Questo è assurdo,» mormorò piano osservando attentamente i lunghi corridoi circondati da pareti trasparenti che mostravano la grandiosità del posto nascosto. «Sicuramente un ottimo investimento, il vecchio gioco delle scatole cinesi.» Ken era soddisfatto, lo poteva chiaramente vedere. D’altronde, chi non lo sarebbe stato? «Quanto personale è umano? Perché non mi sembra di vederne.» Androidi dalle fattezze umane, talmente perfetti da sembrare persone reali, svolgevano i compiti più diversi, passando indisturbati da un reparto all’altro. «Tre, contando il Dottore.» Avanzarono attraversando il corridoio principale. Ken sapeva perfettamente come muoversi, e questo la diceva lunga su quante volte avesse visitato quel posto senza la sua protezione. Allora perché stavolta lo aveva voluto con sé? La risposta arrivò poco dopo e ciò che i suoi occhi gli mostrarono era sicuramente una cosa che mai avrebbe voluto vedere. Il suo corpo reagì quasi istantaneamente al pericolo, poteva percepire i nanorobot rinforzare il suo scheletro, pronti a incassare i colpi o a reagire con la forza. «Che cosa diavolo ci fa questa cosa qui?» sibilò. Quella capsula criogenica l’avrebbe riconosciuta ovunque, era una di quelle usate quasi due anni prima dai soldati di Urano per tentare un’invasione sulla Terra, una sorta di cavallo di Troia. Aveva creduto che la guardia di Titano li avesse eliminati tutti. Un’idea orribile gli si affacciò nella mente. «L’avete sottratta prima che arrivassero le guardie… Come avete potuto? È pericoloso, lo sapevate perfettamente.» Lo sguardo di sufficienza che Ken gli rivolse lo fece incazzare. «Non lo lascerò libero di vivere.» Fece per avanzare verso il suo obiettivo quando un massiccio guerriero dalla pelle bluastra si palesò davanti ai suoi occhi: Calix era stato così sorpreso della capsula criogenica da non accorgersi che il suo contenuto probabilmente lo stava osservando fin dal suo ingresso. Sperava solo di essere abbastanza forte per staccargli la testa: sapeva bene che i guerrieri di Urano erano non solo letali ma mostruosamente forti. «Non farai niente del genere.» La voce glaciale di Ken lo fermò. «Keres è sotto il mio controllo.» «Gli hai dato perfino un nome?» gli chiese Calix, guardandolo allibito. «Questo è il mio nome.» Una voce bassa e calda, mai sentita fino a quel momento, gli fece rizzare i peli sul collo. Si voltò di scatto, trovando due occhi azzurro ghiaccio che lo fissavano; nessuna espressione o posizione di attacco sembrava indicarne la pericolosità. Calix però ricordava bene quello che era successo durante la famosa invasione: lui c’era e mai più avrebbe voluto riviverla. Quel mostro enorme dalla pelle bluastra si stava avvicinando e lui fu costretto a indietreggiare. Era decisamente alto, sicuramente arrivava ai due metri, ed era muscoloso, tutto coperto di cicatrici e simboli. Sapeva bene cosa rappresentassero quei tatuaggi blu scuro sul torace: erano segni di vittoria. Era un guerriero delle prime file. «Tu non dovresti essere sopravvissuto,» gli sibilò contro mettendosi in posizione. «Saresti dovuto morire due anni fa.» Una smorfia di rabbia e di dolore passò su quel volto per essere sostituita da un sorriso triste. «Avrei dovuto, sì. Una morte dignitosa era quello che avrei dovuto avere, non questo.» Allargò le braccia verso tutto ciò che li stava circondando. Cosa diavolo stava succedendo? Quel corpo emanava potenza e impotenza nello stesso momento. Calix si concesse qualche istante per analizzare la situazione. Gli occhi ardenti del colosso davanti a lui erano decisamente incazzati, ma tutto in lui esprimeva arrendevolezza. Come era possibile? «Visto, non è incredibile?» Calix si riscosse a quella voce: si era dimenticato di Ken. Il suo compito era quello di proteggerlo, ma per un folle momento si era scordato di lui! Questo pensiero lo lasciò quasi senza fiato: non era mai successo nella sua lunga vita. «Incredibilmente triste, intendi?» trovò la forza di rispondergli, nascondendo il suo turbamento. Ken scosse con forza la testa. «Non capisci la grandiosità del nostro lavoro. Lui è domato! Siamo riusciti a domare il nemico!» Quello sguardo follemente compiaciuto glielo rese estraneo per la prima volta. Fissò quegli occhi azzurri incastonati in quel corpo da guerriero. «Come avete fatto?» «Controllo degli impulsi.» Una voce estranea lo fece voltare di lato. «Abbiamo imparato molto dalla loro invasione, sapevamo che eravamo simili, ma quello che più di tutto ci accomuna è il cervello. È praticamente identico al nostro, due emisferi con funzioni molto simili.» Lo sconosciuto si stava avvicinando a loro, continuando a parlare. «Mentre era incosciente, gli abbiamo fatto un’iniezione di piccoli nanorobot e tutti i nostri problemi sono finiti.» Soddisfazione, questo vedeva in quel piccolo uomo stempiato, semicurvo per il troppo lavoro in laboratorio. «In poche parole lo controllate con un telecomando.» «Che cosa antica! I miei piccolini sono stati programmati fin dall’inizio, non serve nessun telecomando.» Lo vide fissare con ammirazione il gigante bluastro. Era assurdo per lui vedere un guerriero potente come Keres rimanere immobile davanti a loro. Poteva vedere la furia in quegli occhi così azzurri e la sofferenza per il non poterla esprimere fisicamente. Pena, ecco cosa stava provando per quello che una volta era il loro grande nemico. Una pena infinita. Non riusciva a smettere di fissarlo, quella assurda situazione era fuori da ogni suo controllo e lo detestava. Qualche minuto dopo, loro tre erano seduti mentre il gigante era rimasto fermo nella stessa posizione. Vedere il capo indiscusso della Suzokawa Corporation seduto accanto al Dottor Eshmun era già strano, avere poi quel mostro lì con loro mentre discutevano di cose importanti come la sicurezza della Terra, era incredibilmente surreale. Non si sentiva a suo agio, dentro di sé stava ribollendo di rabbia e di confusione. Come potevano seriamente parlare di armamenti davanti a lui? Era dannatamente stupido. Non si fidava di Eshmun, figurarsi del loro vecchio e acerrimo nemico. Sembrava stessero facendo una gara di sguardi: chi avrebbe vinto? Anche se il corpo del guerriero mostrava tutti i segni tipici del rilassamento, i suoi occhi comunicavano decisamente altro. «Credo che sia perfettamente inutile che tu possa progettare un suo prossimo decesso, mi serve in vita e per altro tempo.» Lo sguardo di Calix lasciò il viso del gigante per fissare il volto vecchio del Dottore Eshmun. «Ritengo che abbiate fatto una pazzia.» «Non dovresti dire la stessa cosa di te stesso? Tu sei la nostra migliore pazzia che ci ha portato alla vittoria.» «Non può paragonarmi a lui.» «Solo perché sei umano non vuol dire che non possa farlo. Se non ricordo male, durante l’invasione tu ne uccidesti parecchi di loro.» Si curvò verso di lui. «Come puoi chiedermi di considerarti diverso?» Adesso era incazzato oltre ogni limite e offeso profondamente. «Io ho difeso questo pianeta e la vita che lo popola, non ero io l’invasore.» Si alzò dal suo posto posizionandosi dietro lo schienale di Ken, e vi appoggiò sopra le mani cercando di mantenere la calma; eppure, quando sollevò lo sguardo e incrociò quegli occhi azzurri, notò che lo stavano fissando sgomenti. Mentalmente ripassò tutto quello che sapeva di Urano e dei suoi temibili abitanti: era il settimo pianeta del sistema solare, con una distanza dal sole di circa tremila milioni di chilometri; il suo diametro era di circa quattro volte quello terrestre, era composto principalmente da acqua, ammoniaca e metano congelati. Le sue ventisette lune portavano i nomi dei personaggi di un’antica opera di Shakespeare e la temperatura del pianeta era la più fredda del sistema solare, arrivava circa a 220° sotto lo zero. Ma quello che in realtà tutti fingevano di non ricordare era che i guerrieri come Keres non arrivavano da Urano, ma da Miranda, una delle sue lune. Comunque, cosa diavolo volessero ancora da loro, sinceramente non lo capiva. Avevano imparato che gli abitanti di Urano respiravano idrogeno e sulla Terra era possibile ricavarlo tramite l’elettrolisi dell’acqua, ma ancora non capiva perché volessero a tutti i costi invaderli. La loro pelle non era adatta a sopportare il caldo del sole, perché troppo sensibile. Cosa poteva esserci di così prezioso sulla Terra da essere una preda così ambita? Avrebbe voluto chiederlo perché era certo che, una volta scoperto cosa fosse, sarebbe stato possibile trattare con loro e magari rispedire Keres indietro, anche se, vista ormai la sua conoscenza delle loro difese strategiche, era decisamente meglio sopprimerlo.
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