La mia realtà era la prigione. Luci accecanti. Cibo pessimo. Aria stantia. Centinaia di donne che mi guardavano come se fossi un pezzo di carne fresca. Solitudine. Tradimento.
“Sì, signorina Pierce. Mi dispiace moltissimo. Di solito non interrompo i test in modo così brusco, ma devo ammettere che le sue grida mi hanno innervosita non poco.”
Non potei fare a meno di arrossire. “Diciamo che quel sogno era molto… vivido.”
La custode guardò il tablet che aveva in mano, a quando pareva dopo aver deciso che non stavo per morire. Girò intorno al tavolo e si mise a sedere. La stanza era beige, clinica. Se non fosse stato per la sofisticata sedia sulla quale ero seduta, avrei potuto pensare di trovarmi in una sala riunioni. No, che mi avevano legato come si faceva con i pazzi. Le manette che avevo attorno ai polsi erano larghe almeno tre centimetri e spesse due. Non sapevo che razza di donne superumane ci legavano di solito, ma per una ragazza normale l’unico modo per uscirne era di usare una motosega.
Mi guardai e fui stranamente contenta di vedere che indossavo un blando camice grigio e non i pantaloni arancioni e la maglietta bianca che avevano costituito il mio unico capo di vestiario durante gli ultimi mesi. Sotto ero nuda, ed ero nuda dalle ginocchia in giù. I camici degli ospedali erano sempre orribili, non importava da quale pianeta arrivassero. E di certo non ero una fan del mio sedere nudo che si era appiccicato alla sedia. Dov’erano i soliti mutandoni della nonna e il reggiseno sportivo?
“Il test ha avuto successo, è stato effettuato un abbinamento. Compatibilità del 99%.”
Un sorriso le trasformò la faccia e mi resi conto che non era poi così vecchia, anzi, probabilmente era persino più giovane di me di qualche anno. Aveva i capelli marroni raccolti in uno chignon severo, uno stile che mi ricordava le educatrici nei vecchi film western. I suoi occhi grigi racchiudevano un’intelligenza che potevo rispettare, ma le sue parole mi avevano allarmata. Ero qui su insistenza del mio avvocato. Ma io a tutta questa storia dell’abbinamento non ci credevo. Voglio dire: seriamente? Come diavolo fa un computer alieno a selezionare l’uomo perfetto per me? Non ci credevo. Ma ciò non poteva impedire a un piccolo frammento di speranza di sbocciare ronzandomi dolorosamente nel petto.
Mi accigliai per nascondere la mia reazione. Le cose non dovevano andare così.
“Sono stata abbinata?”
“Sì, a un guerriero Prillon.”
“Un Prillon?” Io non sapevo niente degli altri pianeti della Coalizione. Avevo passato gli ultimi dieci anni con il naso ficcato nelle piastre di Petri e gli occhi schiaffati contro le lenti di un microscopio. “Vi ho detto che non lo voglio. Non lo voglio un abbinamento. Non voglio andare… su un altro pianeta.” Sputai le ultime parole come se fossero acido. “Ve l’ho detto. Non dovrei trovarmi qui, non dovrei essere in prigione. Io non ho fatto niente di male, ho solo detto la verità. Non lascerò la Terra perché qualcun altro ha infranto la legge.”
La custode mi guardò con occhi carichi di empatia. “Sì, so tutto del suo caso, so che si proclama innocente. Da un punto di vista processuale, il test non cambia niente. Lei è stata condannata. E non cambierà il fatto che dovrà andare in prigione per i prossimi venticinque anni.”
“Ho fatto ricorso in appello.”
“Sì, il suo avvocato mi ha informato di ciò, e le auguro buona fortuna.” I suoi occhi grigi si intenerirono, e la mia rabbia svanì sotto l’enorme pietà che vi scorsi. “Rachel, mi dispiace. Ma la sua innocenza o la sua colpevolezza sono irrilevanti per me. E, mi creda, non importerà nemmeno al suo nuovo compagno. Lei si trova qui. È stata condannata. Devo avere trovato delle prove.”
“Mi hanno incastrata,” risposi.
Qualunque accenno di orgasmo era ormai svanito, rimpiazzato dalla stessa rabbia, dalla stessa frustrazione e dalla stessa amarezza che ormai mi davano la caccia da cinque mesi. Quando la legge sugli Informatori era entrata in effetto, non mi aveva inclusa. No. Avevano fatto presto a portarmi via, a farmi accusare di crimini che non avevo commesso da persone che avevano fatto cose di gran lunga peggiori.
Sì, ero la ricercatrice capo di GloboPharma. Supervisionavo tutti gli esperimenti. Ma avevo staccato la spina quando le cose andavano nel verso sbagliato. Avevo seguito le linee guida dell’FDA alla lettera. I dati nei miei rapporti erano veritieri e accurati. Sì, avevo scoperto che la compagnia aveva centinaia di milioni di dollari in gioco, che stavano ricercando una cura per il cancro. E che il trattamento funzionava, e che nel frattempo uccideva troppe cellule sane.
Avevo inviato i miei rapporti, sicura che i miei superiori facessero la cosa giusta.
Quando poi sentii che la FDA aveva approvato la medicina, ci mancò poco che non sputai il mio panino al salame sulla mia scrivania. Avevo chiamato il presidente della compagnia in persona e, siccome lei non mi aveva voluto dare ascolto, avevo chiamato l’amministratore delegato.
Mi ignorarono tutti quanti. Inviarono degli scagnozzi a sfasciarmi l’appartamento e a farmi chiudere il becco. Mi avevano licenziata e mi avevano discreditata. E, senza che io lo sapessi, si erano tenuti i miei dati, così da potermi incolpare nel caso in cui le fossero andate a rotoli.
E le cose ci andarono eccome, a rotoli. Morirono almeno quattrocento persone prima che la FDA riuscì a capire che la responsabile era proprio quella nuova medicina. Quando si misero alla ricerca di qualcuno a cui dare la colpa, GloboPharma gli servì la mia testa su un piatto d’argento.
Stronzi. Mi rifiutai di cedere senza lottare. Non sarei scappata come un cagnolino impaurito per andare a vivere il resto della mia vita su un altro cavolo di pianeta. Dovevo fare la cosa giusta. Dovevo lottare. Se non lo facevo, quei bastardi sarebbero rimasti impuniti. Avrebbero fatto la stessa cosa. E poi di nuovo. E poi di nuovo ancora. Ero andata al college e avevo ottenuto il mio dottorato in biochimica giusto lo scorso anno. Avevo studiato fisiologia così da poter fare la differenza, dare il mio contributo al mondo. Volevo aiutare le persone. Non avevo mai voluto ritrovarmi una guerra del genere. Ma ora eccomi qui. Non potevo andarmene. Non avevo nessuna scelta. Potevo lottare, o potevo marcire in prigione. E se mi fossi lasciata sconfiggere, allora loro avrebbero continuato a fare quello che facevano sempre. A commettere errori. A uccidere le persone. A mentire.
“Non posso andarmene. Devo andare in tribunale. La prego, deve capirmi.”
“Il suo ricorso è tra due mesi,” rispose lei senza fare commenti sulla mia sfuriata. Sapeva cos’era successo, le accuse, il processo, la condanna. Era tutto all’interno del file che aveva nel suo tablet. Lì dentro c’era tutto su di me, incluso quello che avevo mangiato per pranzo tre mesi fa e la mia taglia di reggiseno. “Il suo avvocato si è raccomandato di eseguire i test per il Programma Spose Interstellari, non si sa mai.”
Il mio avvocato era un brav’uomo, bravo nel suo lavoro, ma a lottare contro di lui c’era un’intera schiera di abilissimi avvocati assunti dalla FDA e dalla GloboPharma. Mi aveva avvertita, sarebbe stata una dura lotta, ma a me non importava. Io non avevo fatto niente di sbagliato. Avevo scoperto quello che avevano fatto gli altri, quello che stavano facendo a decine di migliaia di persone malate e spaventate. Avevano falsificato la documentazione, avevano mentito e cospirato e avevano dato a me la colpa di tutto. La compagnia aveva pagato una multa ridicola e l’aveva scampata. Ero io quella che si trovava in cella per falsificazione, frode e cospirazione. E quello non era nemmeno tutto. Non mi importava quello che dicevano su di me. Non avevo intenzione di arrendermi.
“Sì, due mesi, e poi la verità verrà a galla e io sarò libera.”
La custode non sembrò utile. “Accoppiarsi con un Prillon non è la fine del mondo, Rachel.”
“Sì, lo è. Letteralmente. Non vivrei più sulla Terra.”
“Io ci sono stata. Su Prillon.” Inclinò la testa verso di me. “Sei anni fa ero la compagna di un guerriero Prillon. La cosa migliore che mi sia mai capitata in vita mia.”
“Eppure adesso è qui,” risposi. Le sue labbra si strinsero formando una linea sottile, e un’ombra attraversò i suoi occhi grigi. Avevo detto qualcosa che l’aveva ferita. “Mi dispiace. Non so niente di lei, della sua vita. È che –” strattonai i legacci, “- sono in trappola.”
Quando lei non rispose, studiai con attenzione la sua espressione stoica. Sì. Era giovane. Probabilmente più giovane di me di circa quattro anni, sui ventotto. Ma il dolore che aveva negli occhi era vecchio. Vecchio e indurito, una scorza che le avvolgeva il cuore.
“Come hai fatto ad andare su Prillon sei anni fa? Il Programma Spose è cominciato solo due anni fa.” Erano passati due anni dall’arrivo degli alieni. Due anni da quando tutto sulla Terra era andato in tilt e avevamo imparato che non eravamo soli.
Due anni, e i nostri governi ancora bisticciavano tra di loro come bulli nel parco giochi. Non era cambiato niente. Non sarebbe mai cambiato niente. La natura umana era… beh… troppo umana.
Lei sorrise in modo controllato, e io non la guardai negli occhi. “Beh, non mi trovavo nella sua stessa posizione. Semplicemente, ero al posto sbagliato nel momento sbagliato. I miei compagni mi hanno trovato prima che la Terra entrasse ufficialmente a far parte della Coalizione. Non avevo altra scelta, Rachel. A differenza di te. Sono stata con loro per pochissimo prima che lo Sciame li uccidesse, ma io li amavo e non ho rimpianti. Ho amato ogni istante passato con loro. Capisco i tuoi timori. Ma sei stata abbinata a un comandante decorato dei Prillon. Sono certa che imparerai ad amarlo. E il suo secondo, se ne sono sicura, sarà altrettanto notevole.”
“Secondo?”
La custode annuì. “Sì, tutti i guerrieri Prillon condividono la loro compagna con un altro uomo. Si fa così. Se uno dei due compagni muore in battaglia, tu, e i tuoi figli, avrete pur sempre il secondo a proteggervi e a prendersi cura di voi.”
“Due uomini? Una cosa a tre?” Era fuori di testa? Io non volevo un ménage à trois. Non volevo un alieno, figuriamoci due.
Il mio corpo si ricordò dei due uomini che solo un momento fa mi stavano riempiendo con i loro cazzi durante quel dannato sogno, e subito si accalorò. No.
No. No. No. Non sarei scappata dal processo solo per farmi una scopata con due alieni. No.
“Impossibile,” dissi. Se avessi potuto tagliare l’aria con la mano, l’avrei fatto. Per come stavano le cose, dovetti accontentarmi di far tintinnare la sedia a cui erano attaccate le mie manette. La guardai negli occhi e scossi di nuovo il capo per essere sicura che avesse capito con esattezza quello che le stavo dicendo. “No, grazie. Lo so che John ha detto che dovevo venire qui, ma no. Non posso andarmene. Rifiuto l’abbinamento.”
“Allora ritornerà nella prigione di massima sicurezza in attesa del processo.”
L’idea di ritornare in isolamento mi faceva star male. Un cella o lo spazio. Le scelte erano tetre. Sapere che ero innocente mi diede risolutezza.
“Apprezzo la sua preoccupazione, Custode. Ma io sono innocente. Devo credere di poter vincere. Non posso lasciare che la facciano franca dopo aver mentito alla FDA e a tutti quei pazienti e alle loro vittime. Non lascerò il pianeta rovinando la mia carriera. Se scappo via, tutti quanti crederanno che sono colpevole, che ho mentito sui rischi, che ho mentito per proteggere la compagnia. E io non l’ho fatto. Ho dato loro i dati reali e posso provarlo. Non voglio andarmene su un altro pianeta. Mi piace questo qui. Avevo una bella vita. E la rivoglio indietro!”