1.

1940 Words
1. Skye gli si buttò addosso durante uno degli scrosci improvvisi dell’inizio di ottobre. Peter era uscito per fumare una sigaretta sotto la tettoia accanto all’ingresso posteriore dell’autofficina e questa ragazzetta trafelata gli era finita tra le braccia. Nemmeno aveva fatto in tempo a guardarla, se l’era trovata addosso e il suo impeto l’aveva buttato quasi a terra. La sigaretta era caduta in una pozzanghera e si era spenta sibilando. La ragazza singhiozzava e Peter, dopo il primo “Ehi!” risentito, si limitò a sorreggerla con gesti impacciati. «Tutto bene?» chiese. Che domanda stupida. «Cioè, no, lo vedo. Posso... aiutare? In qualche modo?». La ragazza era minuta, ma non giovane come Peter aveva pensato all’inizio. Doveva essere sui trent’anni, non certo venti come gli era parso in un primo momento. Gli occhi grandi e verdi erano arrossati e pieni di lacrime, il nasino era rosso. In quanto ai capelli, ai vestiti e alla pelle, erano tutti fradici. Lei tirò su con il naso e cercò di asciugarsi gli occhi con il dorso di una mano. Indossava un giacchino leggero, aveva diversi sacchetti appesi a un braccio e ai piedi portava dei mocassini lucidi, di vernice nera, ma così bagnati e schizzati di fango che probabilmente avrebbe dovuto buttarli. Aveva un aspetto... costoso, pensò Peter. Non sapeva come altro catalogarla, anche perché il suo americano, sebbene perfetto nell’accento, non aveva un vocabolario ampio come quello di un madrelingua. Se così fosse stato, forse l’avrebbe definita “sofisticata”. «Senti un po’... posso darti un asciugamano. Chiamarti un taxi. Mi sa che non sei di ‘ste parti». Poi pensò che forse avrebbe fatto meglio a voltarsi e lasciarla lì, perché le tizie come quella potevano portare guai. Ma piangeva, era fradicia... Peter non se la sentiva di abbandonarla senza una parola. «G-grazie» balbettò lei, e lo seguì dentro l’autofficina. «Bob!» gridò Peter, precedendola, «Faccio usare un attimo il bagno a questa signora!». Quella era una cosa dell’America che faceva sempre sorridere Peter, anche dopo tutti quegli anni: chiamavano “signora” tutte le donne sopra i quindici anni. E quella probabilmente lo era, una signora, ma a casa sua l’avrebbero definita ancora “ragazza”. Bob, il suo capo, alzò a stento la testa da dentro il cofano di una macchina. Bofonchiò qualcosa come “tanto l’ultimo stronzo l’ho mollato due ore fa”. Peter sperò che la ragazza costosa lì, non l’avesse sentito. Le aprì la porta del piccolo bagno. «Ci sono degli asciugamani puliti in quell’armadietto» spiegò. Lei si decise a rivolgergli un sorriso. Un sorriso incantevole, in realtà, fatto di denti bianchi e perfetti. «Grazie. Sei gentile. Io sono Skye». «Io Peter. Cioè, in realtà sarebbe Petre, ma tutti mi chiamano Peter». Skye prese un asciugamano, lo esaminò per qualche secondo con vago scetticismo, e iniziò a strofinarsi i capelli. «Petre. Perché?». «Sono nato in Georgia». Lei aggrottò le sopracciglia. «Non sapevo che in Georgia...» Peter rise. «Non la Georgia americana. Quella europea». «Ah». E poi: «C’è una Georgia anche in Europa?». Lui rise di nuovo. «E già. Anche se è un po’ in Asia. È sul Mar Nero, hai presente?». «Come la Turchia?». «Proprio». «Ehm... wow. Si imparano sempre cose nuove. Senti, ti dispiace tenermi un attimo la giacca?». Aveva già seminato attorno a sé i sacchetti, ora si sfilò il giacchino leggero senza aspettare che Peter assentisse. Anche se non aveva niente in contrario. Prese l’indumento fradicio, cercando di non bagnarsi a sua volta e, specialmente, di non macchiarlo di grasso. Skye si piegò sul lavandino e si sciacquò la faccia, un gesto che Peter capì solo fino a un certo punto. Era già quasi tutta bagnata dalla pioggia. Il vestito bianco e dorato che portava sotto la giacca le si incollò alla schiena, rivelando la fascia del reggiseno. E quando si rialzò, in trasparenza... niente, la stoffa sottile e bagnata rivelò tutto, dall’ombelico di lei, al completo di pizzo bianco. Peter la guardò come un imbecille. La fissò del tutto disarmato, senza avere idea di che cosa fare. «Non avete un phon?» chiese lei. Peter scosse la testa. Il bagno stesso era poco più di uno sgabuzzino, con un water, un lavabo, l’armadietto con i loro asciugamani e i loro ricambi, perché lavorare in un garage sporcava parecchio... «Non puoi chiudere la porta? Solo un attimo?». Peter retrocesse. «Sì, certo, non volevo...» Skye lo tirò dentro per la felpa e chiuse la porta alle loro spalle. Peter si chiese che cazzo stesse succedendo, se lo chiese con queste esatte parole, ma poi il pensiero gli scivolò via dalla mente, perché Skye si era appena sfilata il vestito e lo stava strizzando nel lavandino in mutande e reggiseno. Peter mollò la giacca sul coperchio del water e la strinse da dietro. Goffamente, perché non sapeva neanche lui che cosa stava facendo: stava per farsi quella tizia o stava per beccarsi una gomitata nei denti? Skye lo stava provocando o lo considerava così irrilevante da non doversi preoccupare di lui? Lei lasciò il vestito nel lavandino e si girò per baciarlo. Lo fece in modo famelico, tenendogli ferma la testa con le mani e strisciandosi al suo corpo come fosse in calore. Era scossa da un brivido leggero, le sue mani erano fredde. «Cerca di capire. Sto così male. Devo sublimare in qualche modo tutto questo dolore» gli disse, stringendosi a lui. Peter le toccò il culo. Lo palpò. Non aveva idea di che cosa gli avesse appena detto. Capiva solo che una donna davvero bella gli si era buttata addosso e che le chiappe che stava stringendo erano la fine del mondo: morbide, sode, piccole e tonde. Lei gli mise una mano sul cazzo. La infilò dentro i suoi pantaloni di felpa, dentro i suoi boxer aderenti. Gli diede una bella palpata e iniziò e fargli una sega. Gli diventò duro come un palo. «Cristo» borbottò Peter. Tutta quell’irruenza era quasi dolorosa. Il modo in cui gli stava strapazzando l’uccello non era del tutto gradevole. Ma l’eccitazione era così forte che non ci fece caso. Le spremette fuori dal reggiseno quelle tettine (continuava a strusciargliele sul petto) e strattono le sue mutande fino a strapparle. «Ehi, ma sei sicura?» le chiese. Era tutto così assurdo. Era tutto così arrapante. Lei si inginocchiò sul pavimento sporco e iniziò a leccarglielo come un cane. Peter la prese per i capelli. «Tu sei pazza» ansimò, ficcandoglielo in gola. Quelle labbra dischiuse... i suoi gemiti... la saliva che le gocciolava sul mento... stava per sborrarle in bocca e forse era meglio così. Era fuori di testa, quella Skye. Ma mentre lo pensava, la tirò su per le ascelle e la voltò. La piegò nel lavandino. Il culo nudo che gli strusciava sull’uccello... i suoi gemiti soffocati... la sua carne soda da palpare, a sua disposizione... Quando gli sarebbe ricapitato? Le allargò le chiappe con una mano e cercò la sua apertura, più in basso. Trovò l’ingresso rovente della sua passera... spinse. Era tutto scivoloso, là sotto, ma all’inizio non lo fece entrare. Fu lei stessa a guidarsi il suo cazzo dentro, spostandolo con una mano. Il piacere era come fuoco, nella pancia e nelle palle di Peter. Il suo cervello era del tutto disconnesso. Spinse dentro di lei. Forte, senza risparmiarsi, ma anche in modo da non farle male. La scopò palpandola dappertutto, con Skye che gemeva e ansimava come in un porno, il cazzo strizzato da quella figa stretta e fradicia di umori, calda e odorosa. Le pizzicò i capezzoli forte e la sentì contrarsi. E Skye non si limitava a farsi fottere, no. Muoveva il bacino e cercava di prenderlo tutto. «Come sei... grosso... Pete... fammi... il culo...» Non era una delle cose preferite di Peter, ma doveva ammettere che in quella posizione sarebbe stato più comodo. Sperava che fosse pulita. Un attimo dopo decise che, se anche non lo era, per lui andava bene lo stesso. Scivolò fuori dalla sua fessura e lo spostò più in alto. Diede un colpetto per capire se entrava facile. Aveva il buchino stretto e duro... aprirlo, violarlo così... sembrava la fine del mondo. «Sì... oh, sì...» Vide che si sgrillettava e glielo spinse dentro con calma. Skye iniziò ad ansimare forte e a gemere di dolore, ma mosse anche il sedere come a incoraggiarlo. «Cristo» ripeté Peter. Glielo mise dentro per un bel pezzo. Era come una morsa. Non scivolava benissimo. Le strinse forte la fica, da dietro. Si trovò la mano tutta bagnata, viscida dei suoi umori. Li usò per lubrificarsi meglio, prima di iniziare a pompare. Alla terza spinta l’orgasmo gli esplose nella pancia. La tenne ferma per i fianchi, iniziando a sborrarle dentro. La sentiva gemere. La vedeva inarcarsi e smaniare. Vedeva la smorfia decisa della sua bocca. Poi Skye tremò. Si contrasse. Venne facendo un gran casino, piantandosi da sola sul suo uccello ormai scarico. Gli fece male, ma andava bene lo stesso. Quando si sfilò Peter si rese conto di essere fradicio di sudore. Si guardò il cazzo. Era morbido e bruno, lucido degli umori di lei. «Porca vacca, bellezza... che razza di trip ti sei fatta? Perché sei scoppiata di qualcosa, giusto?». Lei si tirò indietro i capelli. Ancora ansimava. «No, sono perfettamente sobria. Dammi le tue mutande». «Eh?». «Dammele, forza!». Peter, allucinato, si appoggiò con la schiena al muro. Si scalzò le scarpe da ginnastica, si abbassò i pantaloni della felpa. «Mi spieghi chi cavolo sei? Che cosa ti è saltato in testa?». «No. Dammele, avanti». Peter le passò i suoi boxer. Lei se li infilò velocemente. Poi il vestito ancora bagnato, sulla pelle sudata e il reggiseno un po’ malconcio. Poi recuperò il giubbotto, lo strizzò sbrigativamente e se lo rimise addosso. «Senti, per favore...» «Vedila così: oggi era il tuo giorno fortunato». Raccolse velocemente i suoi sacchetti, sempre più di fretta, come se non volesse restare lì mezzo secondo di più. «E una delle giornate più brutte della mia vita, quindi non rompere e accontentati, okay?». Peter avrebbe anche ribattuto che sì, poteva tranquillamente accontentarsi, ma lei era già uscita dal bagno, sbattendosi la porta dietro. Allucinato, Peter si lavò l’uccello nel lavandino e si rimise i pantaloni sulla pelle nuda. Quando uscì dal bagno, mezzo minuto dopo, trovò Bob che lo guardava a braccia incrociate. «Non crederai mai a che cosa mi è successo» gli disse. Lui grugnì. «Un’idea me la sono fatta. È la tua ganza?». «Eh? No. Mai vista in vita mia. Mi è saltata addosso». Bob inarcò un sopracciglio. «Ti giuro». Un altro grugnito. «Basta che non ti denuncia». Peter si passò una mano tra i capelli, cercando di aggiustarseli. «Lo spero anch’io» ammise. +++ Skye riprese a correre sotto la pioggia, la cui furia si era ormai esaurita. Il cuore le faceva ancora male, in compenso ora le faceva male anche l’entrata di servizio. Era stata proprio una grande idea, non c’era che dire. Correva con le orecchie rosse, e il senso di vergogna stemperava leggermente il dolore per essere stata lasciata – brutalmente, definitivamente, impietosamente lasciata – dall’uomo della sua vita. Corse fino ad Allen Street, dove finalmente trovò un taxi. Saltò a bordo, gocciolante, e si guadagnò un’occhiataccia dal guidatore. «Park Avenue» disse, ignorandolo. Come diavolo le era venuto in mente di farsi sbattere da quell’esemplare così rustico della specie, non lo sapeva. Era come se il dolore per l’abbandono da parte di Steve l’avesse fatta impazzire, l’avesse resa frenetica e folle. Persino quel tizio... Peter, Petre... l’aveva presa per una svitata, o forse per una ninfomane. Ma aveva fatto il suo dovere – era questo il bello, con le persone come lui. L’aveva attaccata al lavandino e ci aveva dato sotto, in quel cubicolo squallido, sporco, dal vago odore di lubrificante per motori e grasso per auto. Skye si coprì la faccia con una mano e ricominciò a singhiozzare. L’ammirazione che aveva letto negli occhi di Peter il Meccanico per qualche minuto aveva stemperato il dolore. Le sue mani addosso, ruvide e pesanti, il suo membro dentro. Chissà dove l’aveva messo prima. A Skye non importava. Della sua vita non le importava più quasi niente, ormai. Se qualcuno le avesse detto, solo il giorno prima, che un essere umano poteva soffrire quanto stava soffrendo ora, non ci avrebbe creduto. E invece. Invece era come venire dilaniata all’interno e non sapeva come avrebbe potuto sopravvivere. Se avrebbe voluto sopravvivere. Aveva bisogno di bere. Aveva bisogno di qualcos’altro per anestetizzarsi. Aveva bisogno di spegnere il cervello del tutto, se non voleva impazzire davvero.
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