CAPITOLO PRIMO
«Sol per metade trionfossi. - A terra
«Cadde il nemico, è ver; ma più feroce,
«Se di risorger dalla polve il destro
«Gli concediam, rinoverà l’assalto.»
Shakespeare.
In una gola delle montagne che fiancheggiano le fertili pianure del Lothian orientale, innalzavasi nell’età scorsa un ragguardevole castello, del quale oggidì non si scorgono che le rovine, ed è chiamato Ravenswood; nome che era pur quello della famiglia de’ proprietarj del luogo, antichissimi e bellicosi, e un dì possenti baroni, congiunti per parentela ai Douglas, agli Hume, agli Swinton, agli Hays, e alle famiglie più distinte di quelle vicinanze. La storia de’ ridetti baroni e delle illustri lor geste, commemorata negli Annali della Scozia, si confondea spesse volte colla storia medesima di questo reame. Il castello di Ravenswood tenea, e può dirsi quasi, signoreggiava una valle che disgiunge la contea di Berwick, o il paese di Merse, come chiamavasi un giorno la parte di Scozia situata a scilocco, ed il Lothian; onde essendo fra le piazze rilevanti in tempo così di guerre cogli stranieri, come di civili discordie, fu spesse volte soggetto a vigorosi assedj e ostinatamente difeso, per lo che assicurò una sede onorevole nella storia ai suoi possessori.
Ma non essendovi in questo sublunare globo cosa che sia immune da cambiamenti, le proprie vicende ancora avea sofferte la casa di Ravenswood, che scese in singolar modo dall’antico splendore verso la metà del secolo decimosettimo; epoca di quella politica vicissitudine, per cui Giacomo II perdè il trono della Gran Brettagna. Allora l’ultimo proprietario del castello di Ravenswood si vide costretto ad alienare l’antica signoria de’ suoi maggiori per ritirarsi in una solitaria torre, che, sorgendo sulla sterile costa situata fra Saint-Abs-Head e il villaggio di Eyemouth, dominava l’Oceano germanico, i cui flutti così sovente agitati dalle tempeste, andavano contro le mura di questa torre ad infrangersi. I dominj che ricigneano il nuovo soggiorno del Lord caduto in bassa fortuna, stavansi in alcuni pascoli di scadente qualità, ed era pur quanto di tutto l’avito patrimonio gli rimanea.
Il ridetto lord non seppe piegar lo spirito alla cambiata sua condizione, e nella guerra civile del 1689, avendo parteggiato per la fazione più debole, benchè non venissero pronunziate contr’esso nè sentenza capitale, nè confiscazione di beni, fu però privato delle prerogative e de’ titoli di nobiltà, onde, sol per un riguardo di cortesia, continuava a chiamarlo milord chi in colloquj col medesimo s’intertenea.
S’ei non era l’erede de’ possedimenti dei suoi maggiori, ne avea del certo mantenuto tutto l’orgoglio, e l’indole turbolenta; e nudriva mortale astio contra un certo tale da cui credea derivategli tutte le sventure di sua famiglia. Era questi l’uomo medesimo divenuto in quei giorni proprietario del castello di Ravenswood e delle sue pertenenze, che il vero rappresentante della famiglia Ravenswood dovè, costretto dal bisogno, cedere ad altri. Il novello possessore non contando aviti fasti, quanti i possessori antichi potean vantarne, dovea solamente alle ultime guerre civili la propria fortuna e la prevalenza di cui nelle cose dello Stato godea. Incamminatosi nella via forense sin dalla prima giovinezza, s’innalzò ad eminenti cariche nella magistratura, e avea fama d’uom tale che sapesse pescare assai bene in acqua torbida profittando delle fazioni che teneano il regno in trambusto; nella qual cosa potea meglio riuscire in un paese, come la Scozia, posto sotto il governo di una autorità delegata. Gli si attribuiva parimente tutta l’accortezza necessaria ad ammassare considerabili ricchezze in mezzo alle rovine degli altri, e ad aumentare per tutte le possibili vie il nuovo retaggio di cui sapeva apprezzar l’importanza, e valersene per dilatare l’acquistata preponderanza politica.
Un personaggio fornito di tali abilità, a cui non mancavano vie per porle in opera, era un formidabil nemico per un uomo impetuoso e imprudente qual mostravasi Ravenswood. Se avesse, o no, prestati legittimi motivi ad una tal nimistà, era un punto tuttavia contestato. Chi sostenea che la mala intelligenza tra esso e l’antico padrone del feudo avesse per sola cagione l’animo vendicativo e astioso dello stesso Ravenswood, il quale non sapesse comportare che i dominj e il castello de’ suoi maggiori fossero passati fra le mani d’un altro, benchè, i fautori di tale opinione aggiugneano, una vendita giusta e legittima avesse dato luogo a tal cambiamento di possessori. Ma la maggior parte del pubblico, composta di gente altrettanto proclive a denigrar la fama del ricco lontano, quanto ad adularlo presente, portava un giudizio assai più favorevole al vecchio Ravenswood. Dicevano che il lord Cancelliere (ser Guglielmo Asthon a questa distintissima dignità era pervenuto) diceano che il lord Cancelliere, prima di divenire assoluto padrone del dominio di Ravenswood, aveva avuto vistosi negozj d’interesse coll’antico feudatario; poi metteano in problema (ma all’orecchio un dell’altro, e non attentandosi a scioglierlo) a qual delle due parti, trattandosi di affari d’interesse tanto implicati, dovessero aver fruttato meglio i negozj, se all’abile politico e giureconsulto, cui inoltre la natura aveva fatto dono di un imperturbabile sangue freddo, o se all’uomo impetuoso e imprudente che parea nato fatto per correre a chius’occhi in quanti trabocchelli la malizia avesse stimato bene di preparargli.
Lo stato de’ pubblici affari rendeva anche meno inverisimili tali sospetti. In illo tempore non erat rex super Israel. Dopo che Giacomo VI per aggiugnere al suo capo la più ricca e potente corona dell’Inghilterra, avea in questo regno trasferita la sua dimora, si erano manifestate diverse opposte fazioni fra i primarj Nobili della Scozia, che a vicenda dominavano da sovrani il lor paese; e questa vicenda di sovranità dipendea dal buon esito delle sorde pratiche, or dall’uno, or dall’altro di loro adoperate presso la corte di S. James per farsi delegare l’autorità del monarca. I mali derivanti da un tale sistema di governo poteano assomigliarsi a quelli che affliggono i contadini d’Irlanda, coltivatori di fondi, ove non soggiornano i proprietarj, e soggetti quindi all’arbitrio d’interessati fattori. Laonde fra le persone a mano a mano depositarie dell’autorità generale, non se ne vedea mai una, i cui interessi colla popolazione le fossero comuni, o alla quale l’uomo oppresso da una tirannide subalterna potesse appellarsi per ottenere grazia, o giustizia. Comunque indolente e parziale a se stesso, comunque proclive ad atti arbitrarj possa dimostrarsi il principe in una temperata monarchia, i vantaggi di lui sono sì evidentemente collegati con quelli dei sudditi, e le sinistre conseguenze che deriverebbero da un abuso di autorità, sì chiare ed inevitabili, che non abbisogna di trascendente politica, o di straordinario ingegno per avvedersi, come un’eguale distribuzione della giustizia sia ad un tempo il più saldo sostegno del trono. Per tal motivo, quegli stessi principi che tirannicamente si comportarono e tutti i diritti arrogaronsi, generalmente parlando, furono rigidissimi nell’amministrar la giustizia, tutte le volte che o le private passioni, o la necessità di mantenersi in quella possanza, dal cammin retto non li distolsero.
Ma altrimenti è la cosa là dove i poteri della sovranità vengono delegati al capo di una fazione aristocratica, che vede, nel capo della fazione opposta alla sua, un rivale sollecito ad ogn’istante d’impacciarlo e superarlo nell’arringo dell’ambizione. Quasi per necessità, questi adopera il tempo dei suoi labili e pericolosi godimenti a farsi partigiani, a dilatare la sua preponderanza, ad opprimere e mettere fuor di battaglia i nemici. Persino Aboul-Hassan il più disinteressato di tutti i vicerè, non dimenticò, nel suo califfato di un giorno, d’inviare alla propria famiglia un donativo di mille piastre d’oro. Delle stesse vie per ricompensare i lor partigiani si valsero, nei tempi di cui favelliamo, i governanti della Scozia, debitori della propria possanza a quella della fazione alla quale servivano.
Soprattutto l’amministrazione della giustizia da questa schifosa parzialità vedeasi viziata. Eravi appena un affare di qualche entità, nel definire il quale i giudici non sentissero il predominio di personali riguardi; e sapean sì poco resistere alla tentazione di far servire a questi riguardi i proprj impieghi, che a que’ giorni correa, generalmente, quanto scandalosamente in proverbio Dimmi chi move la lite, e io ti dirò chi ha ragione. Questo genere di prevaricazione ne conduceva un altro d’indole ancora più odievole. Quel giudice, che in più circostanze, avea date prove di valersi della carica o per favorire un amico, o per nuocere ad un avversario, e che le sentenze fondava unicamente sulla base delle sue massime politiche e de’ suoi vincoli di amicizia, o di parentela, potea, senza commettersi un giudizio troppo temerario, essere creduto non inaccessibile a motivi di un interesse più sordido; laonde si pensò che la borsa dell’uomo facoltoso, cadendo più d’una volta sulla bilancia della giustizia, facesse pesar meno le ragioni del povero, dalla nuda equità invigorite soltanto: e a questa opinione aggiugnevano fondamento i cherci del tempio di Temi, che al certo non mostravano faccia tosta a chi cercava corromperli. E sacchetti di danaro, e vasellami d’argento venivano spediti agl’impiegati regj a fine di ottenere le conclusioni che si desideravano, nè si avea tampoco il pudore, osserva uno scrittore contemporaneo, di coprire col velo del mistero pratiche così indegne.
In simili tempi, non potea dirsi un mancare affatto alla carità il supporre che un uomo di Stato, vissuto sempre fra i tribunali, membro possente di una fazione vittoriosa, avesse immaginati e posti in uso diversi stratagemmi opportuni a sopraffare un avversario men abile e caduto in disgrazia. E que’ medesimi ancora, i quali, giudicando più indulgentemente ser Guglielmo Asthon, ne avessero supposta la coscienza così timorata da sentire avversione a vantaggi venutigli per tal via, non si mostravano ritrosi a credere che l’ambizione del medesimo e la sete, in esso continua, di aumentare il suo credito e il suo patrimonio, trovassero fortissimi stimoli nelle giornaliere esortazioni di una moglie, indubitatamente meno scrupolosa di lui.
Lady Asthon discendeva da una famiglia più distinta di quella del nostro lord Cancelliere, circostanza che ella non mai trascurò, all’uopo di mantenere e di accrescere il predominio del marito sugli altri, e il proprio sopra il marito; tal era almeno l’opinione generale, e, a quanto credesi, ben fondata. Cotesta donna, già stata bella, conservava tuttavia un portamento nobile e dignitoso. Avendo sortito e ingegno, e violente passioni dalla natura, imparò dall’esperienza a giovarsi di quello per nascondere queste, poichè moderare non le sapea. Scrupolosa e severa nell’osservare le forme, almeno esterne, della religione; splendida, ed anche ostentatamente, nell’adempire gli atti di ospitalità; con un tuono e modi gravi, nobilmente imponenti, e sottomessi alle più strette regole dell’etichetta, si conformava ai modelli più usitati in quei dì nella Scozia; e quanto alla fama del suo pudor matronale, nemmeno un alito di calunnia avea tentato appannarla. Pure, a malgrado di tante belle prerogative atte a conciliarle rispetto, rare volte parlavasi con sentimento d’affezione di lady Asthon. L’interesse per la sua famiglia, se non era per lei medesima, si manifestava con troppa evidenza qual motivo impellente delle sue azioni, perchè il pubblico, inclinato anzichè no a malignare, non se ne accorgesse, o si lasciasse abbagliare da esterne apparenze. Ognun vedeva, ognun capiva, che in tutti i complimenti, in mezzo agli atti della più gentile urbanità, la nostra matrona non si distogliea dal suo scopo più di quanto se ne distolga il falco che, adocchiata la preda, le va girando intorno pel vano dell’aere; d’onde avveniva che le persone eguali a lei ne riceveano le cortesie con un sentimento di esitazione confinante assai col sospetto, e gl’inferiori, non meno incerti de’ primi, sentivano inoltre una tal quale impressione di timore; impressione utilissima per vero dire ai fini della Milady, siccome un mallevadore della compiacenza servile con cui queste persone sarebbero state pronte a secondarla nelle sue brame, o, a dir meglio, della implicita obbedienza che ad ogni suo comando avrebbero prestata. Ma questa impressione medesima ch’ella destava, le era sott’altro aspetto pregiudicevole, perchè inconciliabile co’ sentimenti della stima e dell’amicizia.
Lo stesso marito, sull’animo del quale per ingegno e accortezza ella si era acquistato tanto potere, la vedea un po’ più, dicesi, coll’occhio di chi rispetta e paventa che di marito affezionato per tenerezza. Evvi pur taluno che pretende esservi stati certi momenti in cui gli sembrò che l’onore di un tal parentado, acquistato a prezzo di domestica schiavitù, fosse troppo caramente pagato. Questo però era meramente un sospetto, anche difficile da verificarsi, perchè lady Asthon, gelosa delle convenienze del marito, quanto delle proprie, non ignorava ch’egli avrebbe fatto cattiva comparsa agli occhi del pubblico col farsi vedere lo schiavo della moglie. Quindi in tutte le circostanze, citava l’opinione del consorte, siccome infallibile, e portava al giudizio di lui ogni appellazione, e lo ascoltava con quell’aria di deferenza addicevole ad una sommessa moglie verso un marito insigne per grado e carattere, qual si era il lord Cancelliere. Ma in mezzo a tutta questa armonia, eravi qualche cantino che sonava falso e scordato; onde a coloro che esaminavano la felice coppia con occhi più attenti, e fors’anche maligni, parea cosa chiara, che la moglie, altera per indole, superba della sua nascita, e nonostante divorata da una sete insaziabile di maggiore ingrandimento, guardasse il marito alquanto dall’alto al basso; e che nel marito maggiori dell’amore e dell’ammirazione fossero il timore e il rispetto verso la moglie.