Van Brunt le tese la mano, ma la donna continuò a rimanere immobile e rigida. Non un lineamento del suo volto si contrasse o si addolcì. Lo esaminò attentamente coi suoi occhi acuti, inquisitori.
«Non capisce niente!», rise Fairfax. «È la prima volta che viene presentata a qualcuno. Dunque dicevate che la flotta spagnola a Santiago…»
Thom si accoccolò vicino al marito, immobile come una statuetta di bronzo; solo i suoi occhi inquieti si muovevano guardando ora l’uno ora l’altro dei due uomini. E Avery Van Brunt incominciò a provare una certa nervosità sotto quello sguardo muto. Nel bel mezzo di una descrizione di una battaglia, sentiva su di sé quegli occhi ardenti, e si ingarbugliava, balbettava, perdeva il filo del discorso; poi si riprendeva e continuava. Fairfax, con le mani incrociate intorno alle ginocchia, assorto, lo incitava ad andare avanti quando lo vedeva arrestarsi, e rivedeva a poco a poco quel mondo che credeva di aver dimenticato.
Passarono così due ore, poi Fairfax si alzò di malavoglia.
«E Croupe fu preso, allora? Aspettate un momento che vado da Tantlach. Vi aspetta e farò in modo che lo possiate vedere dopo colazione: va bene?»
Si allontanò tra i pini e Van Brunt si mise a fissare gli occhi ardenti di Thom. “Cinque anni”, pensò, “e adesso non può aver piu di vent’anni. Una bella ragazza! Come eschimese avrebbe dovuto avere il naso piccolo e piatto; invece ha un bel naso aquilino con le narici delicate come una donna di razza più bianca… sangue indiano senza dubbio”, esitò Van Brunt. “E poi, Avery Van Brunt, non essere così nervoso, non ti mangerà; non è che una donna e piuttosto bella per di più. Tipo orientale, non aborigeno. Occhi grandi e ben distanziati l’uno dall’altro, leggerissimamente obliqui come gli occhi mongoli. Thom, sei un’anomalia. Sei fuori di posto qui fra questi eschimesi, anche se tuo padre è uno di loro. Da dove veniva tua madre, o tuo nonno? Eh, Thom, mia cara, sei una vera bellezza, una fredda bellezza di ghiaccio con un po’ di lava dell’Alaska nel sangue, e, te ne prego, non guardarmi così”. Van Brunt rise e si alzò. Lo sguardo insistente della fanciulla lo sconcertava. Un cane gironzava tra i sacchi che contenevano il cibo. Pensò di scacciarlo e di mettere i sacchi al sicuro in attesa del ritorno di Fairfax. Ma Thom stese la mano per trattenerlo e si rizzò anche lei.
«Tu?», disse nella lingua antica che dalla Groenlandia alla Punta Barrow è quasi dappertutto identica. «Tu?», e l’espressione del volto indicava quel che quel “tu” significava… la sua presenza lì… i suoi rapporti col marito… tutto.
«Fratello», rispose Van Brunt nella stessa lingua, indicando con un gesto della mano il sud. «Fratelli, tuo marito e io!»
La fanciulla scosse il capo: «È male che tu sia qui!»
«Dopo un solo sonno me ne andrò».
«E il mio uomo?», chiese la giovane donna ansiosa.
Van Brunt si strinse nelle spalle. Provava un certo qual senso di vergogna e si sentiva irato contro Fairfax. Il sangue gli fluì al volto mentre guardava la giovane selvaggia. Era una donna… solamente una donna. La solita sordida storia, vecchia come Eva e giovane come l’ultima nuova luce d’amore!
«Il mio uomo! Il mio uomo! Il mio uomo!», ripeté la fanciulla, e l’infinita crudele tenerezza della Donna Eterna, della Donna-Compagna le splendeva negli occhi.
«Thom», disse gravemente Van Brunt in inglese «tu sei nata nelle foreste del nord, hai mangiato il pesce e la carne, hai lottato col ghiaccio e con la fame, e hai vissuto semplicemente i giorni della tua esistenza. E ci sono molte cose, non tanto semplici, che tu non sai né puoi sapere. Tu non sai che cosa sia desiderare ardentemente la casa lontana, tu non puoi sapere che cosa sia agognare il volto di una donna bianca. E la donna è bianca, Thom, superbamente bianca. Tu sei stata una moglie per quest’uomo, gli hai dato tutto, ma il tuo tutto è molto piccolo, molto semplice. Troppo piccolo e troppo semplice, ed egli è uno straniero. Non l’hai mai conosciuto, non lo potrai mai conoscere. È così. L’hai tenuto tra le tue braccia, ma non hai mai avuto il suo cuore; il cuore di quest’uomo con i suoi sogni di una morte da selvaggio. Sogni e null’altro che sogni, ecco quello che egli è stato per te. Ti sei attaccata a un corpo e non hai afferrato che l’ombra, ti sei data a un uomo e non ti sei coricata che con lo spettro di un uomo. Così si davano le figlie degli uomini che gli dei trovavano belle. Ma Thom, Thom, io non vorrei essere John Fairfax nelle veglie notturne future, quando i suoi occhi vedranno, non i capelli dorati della donna al suo fianco, ma le nere trecce di una compagna abbandonata nelle foreste del Nord!».
Benché non capisse nulla, la fanciulla l’aveva ascoltato con la massima attenzione, come se la sua vita dipendesse dalle sue parole. Ma, quando afferrò il nome del marito, esclamò in eschimese:
«Sì, sì! Fairfax. Il mio uomo!».
«Povera piccola pazza! come potrebbe essere il tuo uomo?»
Ma essa non capiva l’inglese e credette che Van Brunt si facesse beffe di lei. L’ira insensata della Donna-Compagna fiammeggiò sul suo volto e la donna si raccolse su se stessa come una pantera pronta a saltare. Van Brunt bestemmiò tra sé e sé, poi vide il lampo irato scomparire dal suo volto per far posto all’espressione supplichevole della donna che rinuncia alla forza e si fa scudo della sua debolezza.
«È il mio uomo», disse. «Non ne ho mai conosciuti altri. E non ne conoscerò mai. E non può essere che egli se ne vada da me».
«Chi ti ha detto che se ne andrà da te?», domandò Van Brunt esasperato e impotente al tempo stesso.
«Sta a te dire che non se ne vada da me», rispose Thom con un singhiozzo.
Van Brunt calpestò le ceneri del fuoco e si sedette.
«Sta a te il dirlo! È il mio uomo. Davanti a tutte le donne è il mio uomo. Tu sei grande, tu sei forte, e guarda, io sono molto debole. Guarda, io sono ai tuoi piedi. Sta a te il decidere. Sta a te!»
«Alzati!», urlò Van Brunt scuotendola e rizzandosi a sua volta. «Tu sei una donna. Quindi il tuo posto non è tra il fango ai piedi di un uomo!»
«È il mio uomo».
«E allora che Gesù perdoni tutti gli uomini».
«È il mio uomo!», ripetè Thom in tono monotono, supplichevole.
«È mio fratello!», replicò Van Brunt.
«Mio padre è il capo Tantlach. Comanda su cinque villaggi. Darò ordini di cercare tra i cinque villaggi la più bella ragazza affinché tu possa restar qui vicino a tuo fratello, comodo e felice!»
«Dopo un solo sonno me ne andrò».
«E il mio uomo?»
«Eccolo qui il tuo uomo! Guardalo!»
Tra gli abeti scuri si elevava la voce squillante di Fairfax che cantava.
Così come un mare di nebbia oscura la luce del giorno, quel canto oscurò il volto della fanciulla.
«È la lingua del suo popolo», disse, «la lingua del suo popolo».
Si volse e corse via, veloce come una giovane cerbiatta a rifugiarsi nei boschi.
«È tutto fissato!», disse Fairfax mentre si avvicinava. «Sua Altezza Reale vi riceverà dopo la colazione».
«Glielo avete detto?», chiese Van Brunt.
«No. Glielo dirò solo quando sarà tutto pronto per la partenza».
Van Brunt volse un’occhiata affettuosa verso i suoi uomini addormentati.
«Quando saremo a cento leghe da qui, sarò ben contento!», disse.
Thom sollevò la tenda fatta di pelli che chiudeva l’ingresso dell’abituro di suo padre. Due uomini si trovavano col vecchio capo, e tutt’e tre si volsero a guardarla con profondo interesse. Ma la fanciulla si sedette tranquillamente, senza dir nulla, impassibile in volto. Tantlach tamburellò con le dita su un manico di lancia che aveva sulle ginocchia e fissò distrattamente un raggio di sole che era penetrato attraverso un buco e disegnava una striscia luminosa nel tetro abituro. Alla sua destra vedeva Ctugungatte lo sciamano. Tutti e due erano molto vecchi, e i loro occhi riflettevano la stanchezza di tanti anni vissuti. Ma in faccia a loro se ne stava Keen, un giovane capo ben visto da tutta la tribù, agile e svelto, i cui occhi neri si fissavano penetranti e arditi ora su l’uno ora sull’altro volto.
Il silenzio più assoluto regnava sotto la tenda. Di tanto in tanto, giungevano fino a loro i rumori dell’accampamento e, lontano, deboli e indistinti echeggiavano le grida e gli schiamazzi dei fanciulli. Un cane ficcò il muso entro la capanna e li guardò attentamente, mentre la bava colava tra i denti di un bianco avorio. Poi emise un piccolo brontolio; ma spaventato dall’immobilità di quelle figure umane chinò il muso e strisciò via. Tantlach guardò sua figlia.
«E il tuo uomo? Come ve la passate te e lui?»
«Canta strane canzoni», rispose Thom, «e sul suo volto c’è una nuova espressione!».
«Davvero? E ti ha parlato?»
«No, ma c’è una nuova espressione sul suo volto, una nuova luce nei suoi occhi, e siede col nuovo venuto vicino al fuoco, e parlano, parlano, parlano, e il loro discorso non ha mai fine».
Ctugungatte mormorò qualche cosa all’orecchio al suo padrone, e Keen si chinò in avanti.
«C’è qualche cosa che lo chiama da lontano!», continuò la giovane donna «e pare che egli ascolti e risponda cantando nella lingua del suo popolo!».
Di nuovo Ctugungatte mormorò qualche cosa e di nuovo Keen si chinò in avanti; Thom tacque fino a che suo padre le fece cenno di continuare.
«Tu sai, Tantlach, che le oche selvatiche e i cigni e i piccoli anatroccoli nascono qui nelle regioni basse. Tu sai che essi se ne vanno in terre sconosciute quando viene il gelo. Ma tu sai anche che ritornano sempre qui quando il sole illumina la terra e i canali sono liberi dai ghiacci. Sempre ritornano al paese dove son nati a generare nuove vite. La terra li chiama ed essi vengono. E ora c’è un’altra terra che chiama… e questa terra chiama il mio uomo… la terra dove egli nacque, e il mio uomo ha intenzione di rispondere alla chiamata. E pure egli è il mio uomo. Davanti a tutte le donne egli è il mio uomo!»
«Ed è giusto, Tantlach? È giusto? domandò Ctugungatte con voce minacciosa.
«Sì che è giusto!», gridò Keen arditamente. «La terra chiama i suoi figli e ogni terra chiama a casa i suoi propri figli. E come le oche selvatiche e i cigni e i piccoli anatroccoli vengono chiamati, così ora è chiamato questo straniero che si attardò fra di noi ma che adesso deve andare. E c’è anche il richiamo della razza. L’oca si accompagna all’oca, il cigno non va col piccolo anatroccolo. Non è giusto che il cigno si accompagni al piccolo anatroccolo. E non è giusto che quello Straniero si accompagni con le donne dei nostri villaggi. Quindi io dico che questo uomo deve andarsene dai suoi, nella sua patria!»
«Ma è il mio uomo!», rispose Thom «ed è un grande uomo!».
«Sì, è un grande uomo!», Ctugungatte sollevò la testa con un rapido movimento, che ricordava un po’ il suo antico vigore giovanile. «È un grande uomo e ha dato forza al tuo braccio, Tantlach, e ti ha dato il potere e ha reso temuto e rispettato il tuo nome in tutta la regione. È molto saggio e la sua saggezza ci ha reso molti servigi. A lui siamo debitori di tante cose: ci ha insegnato l’arte della guerra; ci ha insegnato a difendere il villaggio e a tendere imboscate nelle foreste; ci ha aiutato nelle discussioni coi nostri nemici a soggiogarli con la parola e con la promessa; ci ha fatto vedere come si caccia la selvaggina con le trappole, come se ne conservano le carni; e infine ci ha insegnato a curare le malattie e a medicare le ferite. Tu oggi, Tantlach, non saresti che un vecchio zoppo se lo Straniero non fosse arrivato tra noi e non ti avesse assistito. E sempre, quando eravamo incerti e dubbiosi, ci siamo rivolti a lui perché ci aiutasse con la sua saggezza, e ci ha sempre aiutati. E altre questioni possono sorgere e possiamo aver ancora bisogno della sua saggezza, e quindi non dobbiamo lasciarlo partire. Non dobbiamo né possiamo lasciarlo partire!»