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3024 Words
2 Mentre stava per toccar la maniglia Winston si accorse che aveva lasciato il diario aperto sul ta­ volino. ABBASSO IL GRAN FRATELLO era scritto in lettere così grandi che si poteva leggere fin dal corridoio. Era la più inconcepibile stupidità che si potesse commettere. Ma sentiva che, nono­ stante il panico che l'aveva colto, pure non avrebbe tollerato di insudiciare la carta color crema chiu­ dendo il quaderno quando l'inchiostro non era ancora asciutto. Trattenne il respiro e aprì la porta. Subito una calda onda di sollievo gli scese in cuore. Una don­ netta dall'aspetto incolore e dimesso e con certi capelli color paglia e una faccia piena di rughe stava dinanzi alla porta. «Camerata» cominciò con voce lamentosa «m'era parso di sentire che eri rientrato. Puoi venire un momento a dare un'occhiata all'acquaio della nostra cucina? S'è otturato e…» Era la signora Parsons, la moglie del vicino che abitava sullo stesso pianerottolo. (“Signora”, ve­ ramente, era una parola abolita dal Partito si sarebbe dovuto chiamar tutti “camerata”, ma con certe donne non si sapeva adoperare altro.) Aveva circa trent'anni, ma sembrava molto più vecchia. Si aveva l'impressione che nelle rughe della sua faccia si fosse fermata della polvere. Winston la seguì sul pianerottolo. Queste riparazioni provvisorie e dilettantesche erano una irritazione quotidiana. Gli Appartamenti della Vittoria erano vecchi, circa del 1930, e se ne cadevano a pezzi. Il cemento si sfaldava di continuo, su dai soffitti e lungo le pareti le tubature scoppiavano a ogni gelata, il tetto sgocciolava tutte le volte che c'era un pó di neve sopra, il riscaldamento funzionava, di solito, a metà, quando non era bloccato del tutto per ragioni d'economia. Le riparazioni, tranne quelle cui si poteva provvedere da se stessi, dovevano essere sanzionate da certi mitici comitati che erano capaci di starsene a deliberare, anche soltanto per aggiustare un vetro rotto, per due anni. «Naturalmente è solo perché Tom non è in casa» disse la signora Parsons. L'appartamento dei Parsons era più grande di quello di Winston, ma differiva da questo soprattut­ to per il genere di squallore. Ogni cosa aveva l'aria d'essere stata urtata e pestata come se il luogo fosse stato visitato poco prima da qualche animale violento e ingombrante. Arnesi sportivi (bastoni da hockey, guanti da pugilato, un pallone sgonfiato, un paio di mutandine sudaticce rivoltate) giace­ vano sparsi sul pavimento, e sul tavolo c'era una pila di piatti sporchi e quaderni sbertucciati. Sulle pareti erano malamente inchiodate le bandierine rosse della Lega Giovanile e delle Spie, e un gigan­ tesco cartellone con su il Gran Fratello. C'era il solito odore di cavoli bolliti, comune del resto a tut­ to l'edificio, ma che lì era, si potrebbe dire, convogliato da una robusta zaffata di sudore, il quale, e ciò si capiva fin dal primo annusarlo, sebbene fosse difficile specificare il perché, doveva essere il sudore di una persona che in quel momento non era presente. In un'altra stanza qualcuno stava ten­ tando, con un pettine e un pezzo di carta igienica, di far della musica che andasse a tempo con la marcia militare che stava uscendo dal teleschermo. «Sono i bambini» disse la signora Parsons, buttando uno sguardo un pó preoccupato alla porta. «Non sono usciti, oggi. E naturalmente…» Aveva l'abitudine di interrompere i discorsi a metà. L'acquaio era pieno fin quasi all'orlo d'uno schifoso liquido che puzzava tremendamente di cavolo. Winston s'inginocchiò e cominciò ad esami­ nare le giunture d'angolo della tubatura. Non sopportava di adoperare le mani in quella sorta di la­ vori, non sopportava di starsene chinato, una posizione che spesso lo faceva tossire. La signora Par­ sons riguardava sfiduciata. «Naturalmente, se Tom fosse stato a casa l'avrebbe aggiustato in un momento» disse. «Va pazzo per questo tipo di riparazioni. È sempre così svelto, lui, con le mani.» Parsons era impiegato, come Winston, al Ministero della Verità. Era piuttosto grasso, ma molto attivo e caratterizzato da una stu­ pefacente scemenza, una enorme massa di stupidissimo entusiasmo. Uno di quei devoti sgobboni che non si domandano mai la ragione di nulla, sui quali, assai più che non sulla Psicopolizia, era fondata la stabilità del Partito. A trentacinque anni era stato defenestrato, suo malgrado, dalla Lega della Gioventù, e ancor prima di prendere il grado nella Lega aveva cercato di restare tra le Spie per un anno, oltre i limiti stabiliti. Al Ministero l'adoperavano in un qualche posto secondario nel quale non era richiesto l'impiego dell'intelligenza; d'altro canto, era una delle figure principali nel Comita­ to Sportivo e in tutti quegli altri comitati preposti all'organizzazione di gite in comitiva, dimostra­ zioni spontanee, campagne per l'incremento del risparmio e in generale per tutte le attività volonta­ rie. Faceva sapere alla gente, tra una pipata e l'altra, che aveva marcato la presenza al Centro Socia­ le tutte le sere dei precedenti quattro anni. Una spossante puzza di sudore, quasi una inconscia testi­ monianza delle infaticabili attività della sua esistenza, lo seguiva dovunque andasse e restava sospe­ sa, dietro di lui, anche quando se n'era già andato. «Hai una chiave inglese?» chiese Winston, armeggiando con la madrevite della conduttura. «Una chiave inglese» disse la signora Parsons, diventando immediatamente docile. «Non so, cre­ do… forse i bambini…» Ci fu un pestar di scarpe e un'altra soffiata sul pettine come i bambini passarono nella stanza di soggiorno. La signora Parsons comparve con la chiave inglese. Winston lasciò scolare l'acqua e ri­ mosse, preso da un profondo disgusto, il coagulo di capelli che aveva otturato la tubatura. Si pulì le dita alla meglio, nel getto d'acqua fredda del rubinetto, e se ne andò nell'altra stanza. «Mani in alto!» strillò una voce selvaggia. Un bel ragazzino di nove anni, dall'aspetto robusto, era apparso da sotto la tavola e lo stava mi­ nacciando con una pistola automatica da gioco, mentre la sorellina, minore di due anni, ripeteva lo stesso gesto con un pezzo di legno. Tutt'e due erano vestiti coi calzoncini blu, le camicie grigie e i fazzoletti rossi attorno al collo, che costituivano l'uniforme delle Spie. Winston alzò le mani al di sopra della testa, con una sorta di disagio, tant'era ambiguo il comportamento del bambino, come se non si sentisse del tutto sicuro che si trattava solo d'un giuoco. «Sei un traditore!» strillò il bambino. «Sei uno psicocriminale! Sei una spia eurasiana! Ti fucilo, ti vaporizzo, ti spedisco alle miniere di sale!» Un istante dopo erano tutt'e due che, saltando attorno a lui, gridavano: «Traditore» e «psicocrimi­ nale!» e la bambina badava a imitare ogni mossa del fratello. C'era, ad ogni modo, da esserne lieve­ mente impauriti, come dallo scherzare dei tigrotti destinati a crescere presto e a diventare divoratori di uomini. Si poteva cogliere il calcolo della ferocia nello sguardo del bambino, il preciso desiderio di colpire Winston, assieme alla precisa coscienza di essere ormai già quasi abbastanza grande da poterlo fare. Era davvero una provvidenza che non avesse in mano una pistola vera, pensò Winston. Gli occhi della signora Parsons andavano nervosamente da Winston ai bambini e viceversa. Per la luce più forte che c'era nella stanza di soggiorno, egli vide con interesse che la polvere nel­ le rughe della faccia di lei c'era davvero. «Fanno tanto di quel chiasso!» disse la donna. «Sono inquieti perché non sono potuti andare a ve­ dere l'impiccagione, ecco che cos'è. Io ho troppo da fare per portarceli, e Tom non può tornare in tempo dall'ufficio.» «Perché non possiamo andare a vedere l'impiccagione?» disse il bambino con un vocione. «Voglio vedere l'impiccagione!» insisteva la bambina sempre girando intorno. Certi prigionieri eurasiani, sì ricordò Winston, avrebbero dovuto essere impiccati nei Giardini, quella sera, per delitti di guerra. Succedeva circa una volta al mese e costituiva uno spettacolo popo­ lare. I bambini facevano sempre un sacco di storie per farcisi condurre. Winston salutò la signora Parsons e si diresse verso la porta. Ma non era andato avanti sei passi nel pianerottolo che qualcosa lo colpì dietro il collo con un dolore acuto: era come se gli avessero lanciato un cavo arroventato. Si voltò su se stesso in tempo per vedere la signora Parsons che tirava dentro casa il bambino, mentre questi si stava velocemente mettendo in tasca una fionda. «Goldstein!» strillò il bambino mentre la porta gli si richiudeva in faccia. Ma quel che impressio­ nò soprattutto Winston fu lo sguardo di indifeso terrore sulla faccia grigia della donna. Una volta nel suo appartamento, dopo esser passato velocemente dinanzi al teleschermo, si rimise al tavolino, mentre non smetteva di grattarsi il collo. La musica dal teleschermo s'era acquetata; al suo luogo una voce nervosetta, di timbro militare, stava leggendo con una sorta di gusto perverso la descrizione dell'armamento della nuova Fortezza Galleggiante, che era stata allora ancorata tra l'I­ slanda e le isole Far öer. Con bambini come quelli, pensò Winston, la poverina doveva condurre una vita di spaventi. Un anno ancora, due anni ancora, e le avrebbero fatto la guardia notte e giorno per sorprendere in lei i primi sintomi di eterodossia. Quasi tutti i bambini, allora, erano terribili. E quel che era peggio, con organizzazioni simili a quella delle Spie erano sistematicamente trasformati in piccoli, indomabili esseri brutali, senza che ciò producesse però in loro alcuna tendenza a ribellarsi contro la disciplina del Partito. Al contrario, adoravano il Partito e ogni cosa che lo riguardava. I canti, le processioni, le bandiere, le gite, il maneggio dei finti fucili da esercitazione, l'urlio degli slogans, l'adorazione del Gran Fratello, eccetera, costituiva per tutti una sorta di grandioso diverten­ tissimo trastullo. Tutta la loro carica di ferocia era diretta contro i nemici dello Stato, contro gli stra­ nieri, i traditori, i sabotatori, gli psicocriminali. Era un fatto del tutto comune, per le persone al diso­ pra dei trent'anni, d'esser spaventate e tenute in soggezione dai loro stessi figliuoli. E con ragione, perché non passava settimana senza che il Times pubblicasse una notizia su uno di cotesti piccoli fa­ rabutti di delatori (“fanciullo eroe” era tuttavia la parola generalmente usata) che, avendo udito pro­ nunciare una qualche frase compromettente dai suoi stessi genitori, li avevano denunciati alla Psico­ polizia. La puntura del proietto della fionda era ormai passata. Winston afferrò la penna un pó timoroso, chiedendosi se potesse trovare qualche altra cosa da scrivere sul diario. Tutt'a un tratto, cominciò a pensare a O'Brien. Anni prima (quanto tempo prima? sette anni dovevano essere) aveva sognato che stava cammi­ nando dentro una stanza buia come la pece. E qualcuno, seduto lì vicino, mentre lui stava passando, aveva detto: «Ci incontreremo nel luogo dove non c'è tenebra». La frase era stata detta con gran tranquillità, come per caso: una dichiarazione, insomma, non un ordine. Egli aveva proseguito il suo cammino, senza fermarsi. Il buffo era che allora, all'epoca del sogno, quelle parole non gli avevano fatto troppa impressione. Era stato solo più tardi, e a poco a poco, che avevano finito con l'assumere un qualche significato. Non si ricordava, ora, se era stato innanzi o dopo il sogno che aveva veduto O'Brien per la prima volta; né si poteva ricordare quando aveva identificato quella voce per quella di O'Brien. Ma ad ogni modo quell'identificazione c'era stata. Era stato O'Brien che gli aveva parla­ to, nel buio. Winston non era mai riuscito a stabilire con certezza (anche dopo quello scambio di rapide oc­ chiate nella mattinata non c'era da essere troppo sicuri) se O'Brien fosse un amico o un nemico. Né gli sembrava che ciò potesse importare gran che. C'era, tra loro, una sorta di tacita connivenza, che era più importante dell'affetto o del trovarsi alleati negli stessi ideali. «Ci incontreremo nel luogo dove non c'è tenebra», aveva detto. Winston non sapeva bene ciò che quella frase voleva dire, ma solo che in un modo o nell'altro si sarebbe avverata. La voce dal teleschermo si fermò un attimo. Uno squillo di tromba, limpido e sonoro, riempì l'a­ ria stagnante. La voce continuò col solito raschio: «Attenzione! Fare attenzione, prego! Notizie sono arrivate dal fronte di Malabar in questo mo­ mento. Le nostre forze nell'India meridionale hanno conseguito una splendida vittoria. Sono auto­ rizzato a comunicare che l'azione, di cui riferirò i particolari, può ben considerarsi come quella che ci porterà, in breve, a una ragionevole distanza dalla fine della guerra stessa. Ecco la notizia…» Mala nuova in vista, pensò Winston. Ed infatti, dopo una strepitosa descrizione dell'annientamento dell'esercito eurasiano, corredata da superbe cifre dei totali dei morti e dei prigionieri, seguì l'annuncio che, dalla settimana ventura, la razione di cioccolato sarebbe stata ridotta da trenta a venti grammi. Winston ruttò di nuovo. Il gin andava smaltendosi, lasciando come un senso di vuoto. Il tele­ schermo, forse per celebrare la vittoria, forse per cancellare il ricordo del cioccolato perduto, scop­ piò a trasmettere Oceania, è per te. Si sarebbe dovuti stare sull'attenti. Nella sua presente posizione egli era tuttavia invisibile. Oceania, è per te fu seguita da musica leggera. Winston si diresse verso la finestra, sempre vol­ gendo le spalle al teleschermo. La giornata era ancora fresca e limpida. In qualche luogo lontano s'udì l'esplosione d'una bomba-razzo: una detonazione opaca, eppur rimbombante. Allora ne cade­ vano, su Londra, venti o trenta alla settimana. Giù, nella strada, il vento agitava il manifesto strappato e la scritta SOCING appariva e spariva. Socing. I sacri principi del Socing. Neolingua, bispensiero, la mutevolezza del passato. Gli parve come se stesse vagando per le foreste nel fondo del mare, perduto in un mondo mostruoso nel quale lui stesso era il mostro. Era solo. Il passato era morto, il futuro era inimmaginabile. Quale certezza poteva avere che anche una sola delle creature allora viventi era dalla parte sua? E che modo aveva di sapere se la dominazione del Partito non fosse durata per sempre? Simili a una risposta, i tre slo­ gans sulla facciata del Ministero della Verità gli ritornarono dinanzi agli occhi: LA GUERRA È PACE LA LIBERTÀ È SCHIAVITÚ L IGNORANZA È FORZA Trasse una moneta da venticinque centesimi dalla tasca. Anche lì, in certe lettere piccole ma ben chiare, stavano scritti gli slogans, e dall'altra parte della moneta c'era la faccia del Gran Fratello. Gli occhi lo continuavano a guardare, anche da quella moneta. Sui soldi, sui francobolli, sulle copertine dei libri, sulle bandiere, sui cartelloni e sui pacchetti di sigarette… da per tutto. Gli occhi avrebbero guardato sempre e la voce avrebbe risuonato sempre. Da svegli o mentre si dormiva, mentre si man­ giava o beveva, dentro casa o fuori nel bagno, a letto… non c'era modo di sfuggirle. Nulla si posse­ deva di proprio se non pochi centimetri cubi dentro il cranio. Il sole aveva girato, e le finestre del Ministero della Verità, che non ne ricevevano più la luce in pieno, apparivano buie e sinistre, come le feritoie d'una fortezza. Il cuore di Winston accusò un sen­ so di paura di fronte a quell'enorme struttura piramidale. Era troppo forte, non avrebbe potuto esse­ re sradicata. Mille bombe-razzo non sarebbero riuscite ad abbatterla. Si chiese ancora per chi stava scrivendo il diario. Per il futuro, per il passato… per un'epoca che avrebbe potuto essere del tutto immaginaria. E dinanzi a lui non c'era la morte, ma solo l'annullamento. Il diario sarebbe stato ridot­ to in cenere e lui stesso in vapore. Solo la Psicopolizia vi avrebbe potuto leggere, innanzi di cancel­ larlo dall'esistenza e dalla memoria. In che modo si sarebbe potuto fare appello al futuro, quando nessuna traccia di se stessi, nemmeno una parola anonima scarabocchiata su un pezzo di carta, avrebbe più avuto la possibilità materiale di sopravvivere? Il teleschermo batté le quattordici. Sarebbe dovuto uscire dopo dieci minuti. Avrebbe dovuto es­ sere di nuovo al lavoro per le quattordici e trenta. Per quanto fosse strano, quel battere dell'ora aveva infuso in lui una sorta di pallida fiducia Era un solitario fantasma che proclamava una verità che nessuno avrebbe mai udita. Ma per tutto il tem­ po in cui avrebbe durato a proclamarla, in un qualche misterioso modo la continuità non sarebbe stata interrotta. Non era col farsi udire, ma col resistere alla stupidità che si sarebbe potuto portare innanzi la propria eredità d'uomo. Se ne tornò al tavolo, intinse la penna, e scrisse: Al futuro o al passato, a un tempo in cui il pensiero è libero, quando gli uomini sono differenti l'uno dall'altro e non vivono soli… a un tempo in cui esiste la verità e quel che è fatto non può esse­ re disfatto: Dall'età del livellamento, dall'età della solitudine, dall'età del Gran Fratello, dall'età del bispensiero… tanti saluti! Era già morto, se faceva tanto di pensarci. Gli sembrava che era solo allora, quando aveva comin­ ciato a essere capace di formulare i propri pensieri, ch'egli aveva fatto il passo decisivo. Le conse­ guenze di ogni atto sono comprese nell'atto stesso. Egli scrisse: Lo psicoreato non comporta la morte: lo psicoreato È la morte. Ora che si era identificato con un uomo morto, l'importante era di restare in vita più a lungo pos­ sibile. Due dita della mano destra erano macchiate d'inchiostro. Era proprio un particolare di quel genere che avrebbe potuto tradire. Qualche zelante ficcanaso (una donna, probabilmente: qualcuna come la donnetta dai capelli color sabbia o la brunetta del Reparto Amena) avrebbe potuto comin­ ciare col chiedersi perché s'era messo a scrivere durante l'ora di colazione, perché aveva usato una penna di modello sorpassato, che cosa aveva scritto… e quindi avrebbe messo una parolina là dove era opportuno. Se ne andò al bagno e cancellò ben bene le macchie dalle dita con la scura saponetta di polvere di marmo, che raschiava la pelle come la cartavetrata e che perciò era singolarmente adatta al caso. Rimise il diario nel cassetto. Era proprio inutile pensare a nasconderlo, ma poteva trovare almeno un mezzo per sapere se la sua esistenza era stata scoperta o meno. Un capello messo a cavallo delle pagine era un espediente troppo ovvio. Con la punta d'un dito prese su un invisibile granello di pol­ vere bianchiccia e lo mise in un angolo della copertina, donde sarebbe certamente caduto, se il qua­ derno fosse stato rimosso dal suo posto.
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