INTRODUZIONE
INTRODUZIONEDi G. K. Chesterton, artista e uomo, abbiamo parlato con ampiezza e, speriamo, in modo esauriente, nel presentare «Il Napoleone di Notting Hill». E, per non ripetere cose già dette rimandiamo a quella prefazione i lettori curiosi di notizie bio-bibliografiche che avessero iniziato la loro lettura con questo volume.
Qui, invece, vorremmo aggiungere, quasi più per noi stessi che per i lettori, le ragioni che ci fanno prediligere questo lavoro rispetto ad altri del genere. Certo, il fatto è questo che, anche dopo la minuziosa e ardua fatica del tradurre, è rimasto intatto in noi il godimento di questo libro, godimento che non è facile giustificare con la ragione: ci piace, ecco tutto! E così il lettore non si domandi – come si fa tutte le volte che si chiude un libro – che cosa l’autore abbia voluto fare e che cosa abbia voluto dire, per non trovarsi nell’imbarazzo e per non sciupare le sue sensazioni, senza dire che sarebbe irriverente verso un artista come il Chesterton, che ha sempre messo la maggior precisione nell’essere impreciso, e la maggiore finitezza nel dare ai suoi felici epigrammi la seduzione dell’infinito. Il lettore deve, dunque, accingersi a leggere questo libro con la stessa disposizione d’animo con la quale, evidentemente, il Chesterton lo ha scritto: col senso della giocondità, pura e semplice, e col gusto primitivo del burlesco. Che si tratti poi di un romanzo, di un racconto, di una fantasia, di un grottesco, poco importa; certo è un’opera d’arte originalissima e questo basta. Chi volesse poi precisare e definire questa «Osteria volante» credo che non troverebbe parola più appropriata di quella inglese «romance». Gli inglesi annettono alla parola «romance» un’idea d’irreale, d’avventuroso e di fantastico che noi non riconosciamo necessariamente alla parola «romanzo». (Il romanzo vero e proprio è detto dagli inglesi «novel» e la «novella» è detta «short story», racconto breve).
Si potrebbe dunque affermare che si tratta qui – come negli altri dello stesso ciclo: «Il Napoleone di Notting Hill», «Il Ritorno di Don Chisciotte», «L’uomo che fu giovedì», «La sfera e la Croce», ecc. – di un «romance» in cui l’irreale, il fantastico, l’avventuroso si incontrano e si scontrano a ogni pagina in un brillante e grottesco arruffio.
Il suo contenuto può parere anche una beffa, se questa definizione non ci richiamasse le storie molto realistiche dei nostri novellieri trecenteschi e quattrocenteschi. Qui, invece, di realistico, non c’è nulla: tutto è genialmente sproporzionato e inverosimile. L’eroe stesso – l’ineffabile Capitano irlandese Dalroy, che riempie il volume delle sue rodomontate, delle sue canzoni e delle sue risate – è un’amena caricatura di alcuni tratti più singolari del popolo e della razza da cui viene, e, nello stesso tempo, rende assai bene, sullo schermo artistico, lo spirito paradossale e rumoroso, fresco ed allegro, sagace e umoristico dell’artista che l’ha creato.
Al Capitano Dalroy – che sembra talora appena uscito dalla taverna del Cignale o della Sirena, dove i sudditi più scapigliati della buona regina Bess facevano a gara nel bere, cantare e sparlare – al Capitano Dalroy – simbolo dell’eterna giovinezza sfrenata e spregiudicata, burlone come Falstaff, cavalleresco come Don Chisciotte, ridanciano ed arguto come una creatura di Rabelais – si contrappone Lord Ivywood, formalista convenzionale, prezioso, insensibile e freddamente fanatico. In questo contrasto sta, forse, il maggior pregio del «romance», per i cui viali l’autore scorrazza liberamente e disordinatamente, ora facendo improvvise digressioni, ora sostando un po’ come in contemplazione, ora perseguendo le sue eccentricità epigrammatiche che balzano su, davanti ai suoi passi, come tante farfalle d’ogni colore.
Ci sono nel popolo inglese alcune eminenti virtù le quali hanno solo la disgrazia di essere troppo spesso oscurate dalla loro stessa caricatura. La fede è una virtù, e guai agli individui e ai popoli nei quali manca: ma la fede può essere oscurata dal fanatismo, cioè dalla sua caricatura. In Inghilterra ci sono uomini di fede ed un gran numero di fanatici. È, per eccellenza, il paese degli «ismi» e degli «isti»: un paese di cause e di paladini. Lord Ivywood, che non ha mai voluto bene in vita sua ad un cane, ma che ha sempre avuto molto a cuore la causa dei cani, personifica assai bene tutto quel mondo inglese artificioso e insincero che ha sempre una causa da propugnare e una missione cui consacrarsi.
Puritanismo, vegetarianismo, proibizionismo e non so quale altro «ismo» offrono al Chesterton altrettanti elementi per la sua fantastica scorribanda nella quale l’ironia si alterna alla satira, il quadro di costume al quadretto di genere, il personaggio alla macchietta, l’aria viziata del mondo convenzionale alle sane ventate del mondo libero e giocondo, che ha per sfondo, da una parte il mare, e dall’altra il bruno profilo delle profonde foreste d’Inghilterra.
GIAN DÀULI