L'osteria volante

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Umorismo "d"annata", ma molto contemporaneo

Pubblicandolo per la prima volta nel 1914, il celebre scrittore britannico G.K. Chesterton ha consegnato ai suoi lettori un romanzo curioso intitolato L"osteria volante, immaginando, alla vigilia della Prima guerra mondiale, che l"Impero ottomano conquistasse la Gran Bretagna e imponesse la Shari"a, la legge islamica.

Anche in questo lavoro, Chesterton non rinuncia ad esprimere il suo pensiero, ironizzando con il suo stile epigrammatico su movimenti e teorie artistici, sociali e politici, utilizzando lo scenario inverosimile del romanzo come un mezzo per ridicolizzare il progressismo.

Chesterton racconta di una guerra in cui "il più grande dei guerrieri turchi, il terribile Oman Pasha, egualmente famoso per il suo coraggio in guerra come per la sua crudeltà in pace", consegue una famosa vittoria sulle forze britanniche, che porta all"occupazione dell"Inghilterra, al controllo della polizia da parte dei turchi e a una crescente influenza di "un eminente mistico turco", Misysra Ammon, che si fa paladino dei costumi islamici come l"astensione dal consumo di carne di maiale, la proibizione di immagini rappresentative, e altro ancora.

Ma il costume islamico più importante, e quello attorno a cui ruota L"osteria volante, è l"ordine emanato da Oman Pascià di distruggere i vigneti e di mettere al bando le bevande alcoliche. Lord Philip Ivywood, un intellettuale aristocratico, sostenitore di Ammon, approva un divieto di consumo delle bevande alcoliche con qualche rara eccezione.

Un intrepido marinaio irlandese e un locandiere inglese se ne vanno in giro per il paese portando con loro l"insegna del pub “Old Ship” e le loro gesta danno il via ad una serie di eventi rocamboleschi e drammatici.

Lo smascheramento dell"ipocrisia degli aristocratici, che negano il consumo di alcolici al volgo ma ne assumono tramite i contatti con il direttore corrotto di una catena di farmacie, infatti, dà il via a un"insurrezione popolare che si conclude con una battaglia tra i rivoltosi inglesi e un contingente di soldati turchi, guidati tra gli altri dallo stesso Ivywood.

Non sveleremo il finale della loro eroica insurrezione, lasciando ai lettori il gusto di leggere fino in fondo un romanzo, premonitore(?), di grande interesse e godibilità.

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INTRODUZIONE
INTRODUZIONEDi G. K. Chesterton, artista e uomo, abbiamo parlato con ampiezza e, speriamo, in modo esauriente, nel presentare «Il Napoleone di Notting Hill». E, per non ripetere cose già dette rimandiamo a quella prefazione i lettori curiosi di notizie bio-bibliografiche che avessero iniziato la loro lettura con questo volume. Qui, invece, vorremmo aggiungere, quasi più per noi stessi che per i lettori, le ragioni che ci fanno prediligere questo lavoro rispetto ad altri del genere. Certo, il fatto è questo che, anche dopo la minuziosa e ardua fatica del tradurre, è rimasto intatto in noi il godimento di questo libro, godimento che non è facile giustificare con la ragione: ci piace, ecco tutto! E così il lettore non si domandi – come si fa tutte le volte che si chiude un libro – che cosa l’autore abbia voluto fare e che cosa abbia voluto dire, per non trovarsi nell’imbarazzo e per non sciupare le sue sensazioni, senza dire che sarebbe irriverente verso un artista come il Chesterton, che ha sempre messo la maggior precisione nell’essere impreciso, e la maggiore finitezza nel dare ai suoi felici epigrammi la seduzione dell’infinito. Il lettore deve, dunque, accingersi a leggere questo libro con la stessa disposizione d’animo con la quale, evidentemente, il Chesterton lo ha scritto: col senso della giocondità, pura e semplice, e col gusto primitivo del burlesco. Che si tratti poi di un romanzo, di un racconto, di una fantasia, di un grottesco, poco importa; certo è un’opera d’arte originalissima e questo basta. Chi volesse poi precisare e definire questa «Osteria volante» credo che non troverebbe parola più appropriata di quella inglese «romance». Gli inglesi annettono alla parola «romance» un’idea d’irreale, d’avventuroso e di fantastico che noi non riconosciamo necessariamente alla parola «romanzo». (Il romanzo vero e proprio è detto dagli inglesi «novel» e la «novella» è detta «short story», racconto breve). Si potrebbe dunque affermare che si tratta qui – come negli altri dello stesso ciclo: «Il Napoleone di Notting Hill», «Il Ritorno di Don Chisciotte», «L’uomo che fu giovedì», «La sfera e la Croce», ecc. – di un «romance» in cui l’irreale, il fantastico, l’avventuroso si incontrano e si scontrano a ogni pagina in un brillante e grottesco arruffio. Il suo contenuto può parere anche una beffa, se questa definizione non ci richiamasse le storie molto realistiche dei nostri novellieri trecenteschi e quattrocenteschi. Qui, invece, di realistico, non c’è nulla: tutto è genialmente sproporzionato e inverosimile. L’eroe stesso – l’ineffabile Capitano irlandese Dalroy, che riempie il volume delle sue rodomontate, delle sue canzoni e delle sue risate – è un’amena caricatura di alcuni tratti più singolari del popolo e della razza da cui viene, e, nello stesso tempo, rende assai bene, sullo schermo artistico, lo spirito paradossale e rumoroso, fresco ed allegro, sagace e umoristico dell’artista che l’ha creato. Al Capitano Dalroy – che sembra talora appena uscito dalla taverna del Cignale o della Sirena, dove i sudditi più scapigliati della buona regina Bess facevano a gara nel bere, cantare e sparlare – al Capitano Dalroy – simbolo dell’eterna giovinezza sfrenata e spregiudicata, burlone come Falstaff, cavalleresco come Don Chisciotte, ridanciano ed arguto come una creatura di Rabelais – si contrappone Lord Ivywood, formalista convenzionale, prezioso, insensibile e freddamente fanatico. In questo contrasto sta, forse, il maggior pregio del «romance», per i cui viali l’autore scorrazza liberamente e disordinatamente, ora facendo improvvise digressioni, ora sostando un po’ come in contemplazione, ora perseguendo le sue eccentricità epigrammatiche che balzano su, davanti ai suoi passi, come tante farfalle d’ogni colore. Ci sono nel popolo inglese alcune eminenti virtù le quali hanno solo la disgrazia di essere troppo spesso oscurate dalla loro stessa caricatura. La fede è una virtù, e guai agli individui e ai popoli nei quali manca: ma la fede può essere oscurata dal fanatismo, cioè dalla sua caricatura. In Inghilterra ci sono uomini di fede ed un gran numero di fanatici. È, per eccellenza, il paese degli «ismi» e degli «isti»: un paese di cause e di paladini. Lord Ivywood, che non ha mai voluto bene in vita sua ad un cane, ma che ha sempre avuto molto a cuore la causa dei cani, personifica assai bene tutto quel mondo inglese artificioso e insincero che ha sempre una causa da propugnare e una missione cui consacrarsi. Puritanismo, vegetarianismo, proibizionismo e non so quale altro «ismo» offrono al Chesterton altrettanti elementi per la sua fantastica scorribanda nella quale l’ironia si alterna alla satira, il quadro di costume al quadretto di genere, il personaggio alla macchietta, l’aria viziata del mondo convenzionale alle sane ventate del mondo libero e giocondo, che ha per sfondo, da una parte il mare, e dall’altra il bruno profilo delle profonde foreste d’Inghilterra. GIAN DÀULI

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