Conversammo per alcuni minuti sulla veranda sotto il sole.
«Mi sono trovato davvero una bella sistemazione» disse con occhi fiammeggianti e senza pace.
Mi prese per un braccio e mi fece voltare allungando poi la mano sul panorama che avevamo di fronte, comprendendo in lontananza un giardino all’italiana, un ettaro di rose dal profumo intenso e un motoscafo dalla prua schiacciata che puntava, ancorato distante dalla riva, verso il mare.
«Apparteneva a Demaine, il petroliere». Poi mi fece voltare di nuovo, sempre con modi garbati ma bruschi, «Andiamo dentro».
Passammo per un atrio alto e ci immergemmo in un luminoso ambiente color rosa, unito alla casa soltanto attraverso delle portefinestre ai due lati. Le finestre erano accostate e risplendevano di bianco a contrasto con l’erba fresca del prato che sembrava giungere fin dentro casa. Una leggera brezza attraversò la stanza, gonfiò le tende, un’estremità verso l’interno e l’altra verso l’esterno, facendole somigliare a delle bandiere sbiadite ora su, verso la torta nuziale del soffitto, e poi giù a sfiorare il tappeto color vinaccia, disegnandoci sopra un’ombra come il vento è solito fare sul mare.
L’unico oggetto davvero immobile nella stanza era un enorme divano sul quale galleggiavano due giovani donne come se si trovassero su un pallone ancorato a terra. Entrambe vestivano di bianco e i loro abiti ondeggiavano e si muovevano leggeri come se fossero appena tornate da un breve volo attorno alla casa. Devo essere rimasto per qualche istante immobile ad ascoltare gli schioppi delle tende e lo scricchiolio di un quadro alla parete. Poi ci fu un rimbombo quando Tom Buchanan chiuse le finestre alle mie spalle e il vento catturato nella stanza si calmò e le tende e il tappeto e le due giovani donne atterrarono dolcemente.
Non avevo mai visto la più giovane delle due. Giaceva distesa sul suo lato del divano, immobile, col mento all’insù come se ci tenesse sopra qualcosa in equilibrio. Se anche si accorse della mia presenza con la coda dell’occhio, non lo fece intuire in alcun modo, anzi, quasi mi trovai a mormorare qualche scusa per averla disturbata col mio ingresso.
L’altra ragazza, Daisy, fece per alzarsi, si protese leggermente in avanti con un’espressione amorevole, dopodiché si mise a ridere, una risata assurda e raffinata, e alla fine risi anch’io e finalmente mossi qualche passo in avanti nella stanza.
«Sono p-paralizzata dalla felicità».
Rise di nuovo, come se avesse detto qualcosa di molto spiritoso, e mi tenne la mano per un istante, guardandomi in viso, quasi a volermi assicurare che nessun altro al mondo le fosse più gradito di me in quel momento. Era un suo modo di fare. Con un sussurro mi rivelò che il cognome dell’equilibrista era Baker. (Ho sentito dire che il bisbigliare di Daisy avesse lo scopo di far piegare la gente verso di lei; una critica inutile che nulla toglie all’eleganza dei suoi modi).
Ad ogni modo la signorina Baker mosse le labbra, un segnale impercettibile della sua attenzione e, rapidamente, ripiegò la testa all’indietro; l’oggetto che teneva in equilibrio si era evidentemente mosso creandole un po’ di timore. Mi ritrovai ancora una volta a bisbigliare qualcosa di simile a delle scuse. Ho sempre apprezzato molto le manifestazioni di completa autosufficienza.
Tornai a guardare mia cugina, che aveva cominciato a farmi domande con la sua voce bassa e inebriante. Era il tipo di voce che l’orecchio segue nei suoi alti e bassi come se ogni parola fosse una melodia che non verrà mai più ripetuta. Il suo volto era triste e delizioso e pieno di vita, quella luminosa degli occhi e quella di una bocca passionale; ma c’era qualcosa di eccitante in quella sua voce che difficilmente un uomo accanto a lei avrebbe potuto dimenticare: un melodioso invito, un “Ascolta” sussurrato, la promessa che lei avrebbe reso piacevoli le ore a seguire come lo erano state quelle appena trascorse.
Le raccontai di quando mi sono fermato a Chicago per un giorno giungendo nell’Est e della dozzina di persone che mi avevano affidato messaggi di affetto per lei.
«Dici che gli manco?» mi chiese euforica.
«L’intera città è addolorata. Tutte le auto hanno la ruota posteriore sinistra dipinta di nero in segno di lutto e un pianto continuo si sente tutte le notti nel North Shore».
«Che meraviglia! Torniamoci Tom. Domani!» Poi aggiunse come se niente fosse «Devi vedere la bambina».
«Con molto piacere».
«Sta dormendo. Ha due anni. Non l’hai mai vista?»
«Mai».
«Beh, devi proprio vederla. Lei è…»
Tom Buchanan, che fino a quel momento si era aggirato nella stanza irrequieto, si fermò appoggiandomi una mano sulla spalla.
«Che combini, Nick?»
«Lavoro in borsa».
«Per chi?»
Glielo dissi.
«Mai sentiti nominare» osservò con decisione.
Questo mi irritò un po’.
«Li conoscerai…» tagliai corto. «Ne sentirai parlare se resterai nell’Est».
«Oh, ci resterò nell’Est, stai tranquillo» disse lanciando un’occhiata prima a Daisy e poi a me come se fosse preoccupato per qualcos’altro. «Sarei un idiota se andassi a vivere altrove».
A questo punto la signorina Baker disse «Assolutamente!» in modo così inaspettato che trasalii; era la prima parola che pronunciava da quando ero entrato nella stanza. Evidentemente lei stessa ne rimase sorpresa quanto me, perché sbadigliò e con una serie di movimenti rapidi e agili si alzò in piedi.
«Sono indolenzita», si lamentò, «non ricordo più quanto tempo sono rimasta distesa su quel divano».
«Non guardare me» ribatté Daisy. «È tutto il pomeriggio che sto cercando di portarti a New York».
«No, grazie» disse la signorina Baker rifiutando i quattro cocktail appena giunti dalla dispensa, «devo necessariamente mantenermi in allenamento».
Il suo ospite la guardò incredulo.
«Non mi dire!» Scolò il suo drink come se fosse una goccia sul fondo del bicchiere. «Come tu riesca a combinare qualcosa, va oltre la mia comprensione».
Fissai la signorina Baker chiedendomi cosa potesse mai “combinare”. Mi piaceva guardarla. Era una ragazza slanciata, dal seno minuto e con un portamento eretto che accentuava tirando indietro le spalle come farebbe un giovane cadetto. I suoi occhi grigi e allungati dal sole risposero al mio sguardo con educata e reciproca curiosità da un viso triste, attraente e scontento.
Fu in quel preciso momento che ricordai di averla già vista, oppure anche solo di aver visto una sua fotografia, da qualche parte.
«Lei abita a West Egg» osservò lei in modo altezzoso «conosco qualcuno da quelle parti».
«Ma io non conosco una…»
«Conoscerà di sicuro Gatsby».
«Gatsby?» domandò Daisy. «Quale Gatsby?»
Prima che potessi spiegarle che si trattava del mio vicino di casa, fu annunciata la cena; infilando con decisione il suo braccio sotto il mio, Tom Buchanan mi condusse fuori dalla stanza, quasi stesse muovendo una pedina in un’altra casella.
Esili, languide, con le mani poggiate delicatamente sui fianchi, le due giovani donne ci precedettero all’esterno, sulla veranda colorata dalla luce del tramonto dove quattro candele tremolavano sulla tavola al lieve soffio di una brezza ormai diminuita.
«Come mai le candele?» obiettò Daisy aggrottando le sopracciglia. Le spense subito con le dita. «Tra due settimane sarà il giorno più lungo dell’anno». Ci guardò tutti raggiante. «Vi è mai capitato di aspettare il giorno più lungo dell’anno per poi perderlo? Io aspetto tutto l’anno il giorno più lungo e poi me lo perdo».
«Dovremmo organizzare qualcosa» sbadigliò la signorina Baker accomodandosi a tavola come se si stesse mettendo a letto.
«Bene» disse Daisy. «Che cosa vogliamo fare?» Si voltò verso di me in cerca di aiuto: «che cosa organizza di solito la gente?»
Feci per rispondere quando i suoi occhi caddero, con un’espressione di allarme, sul suo dito mignolo.
«Guardate!» si lamentò. «Mi sono fatta male».
Tutti noi lo guardammo; la nocca era scura e bluastra.
«Sei stato tu, Tom» disse in tono accusatorio. «So bene che non l’hai fatto apposta, però sei stato tu. Questo è ciò che mi merito per aver sposato un bruto, un mastodontico esemplare di energumeno che...»
«Odio la parola energumeno» obiettò Tom contrariato «anche quando la si usa per scherzo...»
«Energumeno» insisté Daisy.
Alle volte lei e la signorina Baker parlavano all’improvviso, in modo discreto e con una leggerezza inconsistente che non diventava mai una chiacchierata ma qualcosa di fresco come i loro abiti bianchi e i loro sguardi distaccati, lontani da qualunque desiderio.
Erano lì e accettavano Tom e me sforzandosi soltanto un po’, con garbo e moderazione, di intrattenerci ed essere intrattenute. Sapevano che presto la cena sarebbe terminata e che, poco più tardi, anche la serata sarebbe finita e poi messa da parte con indifferenza.
All’Ovest questa cosa era completamente diversa; una serata scorreva, di fase in fase, verso la sua conclusione, con aspettative continuamente deluse oppure anche in una tensione assoluta del momento presente.
«Mi fai sentire un selvaggio, Daisy» confessai al mio secondo bicchiere di un buon chiaretto che, però, sapeva un po’ di tappo. «Non potresti parlare d’altro, qualcosa tipo il raccolto di quest’anno?»
Non alludevo a nulla in particolare, ma questa mia osservazione suscitò una reazione piuttosto inattesa.
«La civiltà si sta sgretolando,» proruppe Tom in modo brusco. «Sono diventato decisamente pessimista a riguardo. Hai letto “L’ascesa degli Imperi di colore” di un certo Goddard?»
«In realtà, no» risposi un po’ sorpreso per il tono.
«Beh, si tratta di un bel libro e dovrebbero leggerlo tutti. L’idea di fondo è che se non stiamo attenti la razza bianca sarà... sarà completamente annientata. È tutta roba provata in modo scientifico».
«Tom sta diventando davvero profondo» disse Daisy con un’espressione triste e distratta. «Legge dei libri complessi con tanti paroloni. Com’era quella parola che...»
«Beh, sono tutti libri scientifici» riaffermò Tom squadrandola in modo impaziente. «Questo studioso ha approfondito tutta la faccenda. Spetta a noi, in quanto razza dominante, vigilare, altrimenti le altre razze prenderanno il controllo».
«Dobbiamo sterminarli» sussurrò Daisy strizzando gli occhi con ferocia verso il sole ardente.
«Dovreste vivere in California...» intervenne la signorina Baker, ma Tom la interruppe agitandosi sulla sedia.
«L’idea è che noi siamo nordici. Lo siamo io e te, lo è lui e...» Dopo un istante di esitazione incluse anche Daisy con un piccolo cenno del capo e lei mi fece di nuovo l’occhiolino. «E siamo stai noi ad aver posto le basi della civiltà... cioè, della scienza, dell’arte e tutto il resto. Mi seguite?»
C’era qualcosa di patetico nella sua concentrazione come se il suo paternalismo, più acuto che in passato, non gli fosse più sufficiente. Quando, quasi nello stesso momento, squillò il telefono dentro casa e il maggiordomo lasciò la veranda, Daisy approfittò della momentanea interruzione e si chinò verso di me.
«Ti svelerò un segreto di famiglia» bisbigliò con fervore. «Riguarda il naso del maggiordomo. Vuoi ascoltare la storia del naso del maggiordomo?»
«È esattamente per questo che sono venuto stasera».
«Beh, non è stato sempre un maggiordomo; prima si occupava di lucidare l’argenteria per certe persone di New York, che avevano un servizio d’argento per duecento persone. Doveva lucidarlo dalla mattina alla sera finché un giorno cominciò ad avere un problema al naso».
«Le cose andarono sempre peggio» continuò la signorina Baker.
«Sì, le cose andarono sempre peggio, ogni giorno di più, fino a quando fu costretto a lasciare il lavoro».
Per un istante gli ultimi raggi di sole sfiorarono, con romantica devozione, il viso luminoso di Daisy; la sua voce mi obbligò ad allungarmi verso di lei in attesa che proseguisse. Poi il bagliore diminuì, ogni luce lasciò il suo volto con il dispiacere prolungato dei bambini che lasciano una bella strada al tramonto.
Il maggiordomo fece ritorno e mormorò qualcosa all’orecchio di Tom che aggrottò le sopracciglia, spinse indietro la sedia e, senza proferire parola, entrò in casa. Quasi che la sua assenza avesse risvegliato qualcosa dentro di lei, Daisy si sporse in avanti nuovamente con la sua appassionata voce melodiosa.
«Sono molto contenta di vederti alla mia tavola, Nick. Mi ricordi una... una rosa, una rosa pura. Non credi?» Si voltò verso la signorina Baker per trovare una conferma alle sue parole. «Non trovi che sia una rosa?»
Era falso. Non sembro proprio a una rosa. Stava semplicemente improvvisando, ma da lei proveniva un calore così avvolgente che faceva pensare che il suo cuore stesse cercando di raggiungerti, nascosto in una di quelle parole sussurrate, eccitanti. Poi, all’improvviso, gettò il tovagliolo sul tavolo, si scusò ed entrò in casa.
La signorina Baker ed io ci scambiammo una veloce occhiata intenzionalmente priva di significato. Ero sul punto di dire qualcosa quando si drizzò sulla sedia e mi zittì con un “Shhh!” in tono di avvertimento.
Dalla stanza accanto proveniva un mormorio sommesso e infervorato e la signorina Baker si protese in avanti senza ritegno cercando di carpire qualche parola. Il mormorio tremò per qualche istante e divenne quasi incomprensibile, poi diminuì per riprendere con vigore, fino a cessare di colpo.
«Quel signor Gatsby di cui parlava è il mio vicino di casa...» dissi.
«Non parli. Voglio sentire cosa succede».
«Sta accadendo qualcosa?» chiesi con innocenza.
«Vuole dire che non sa nulla?» rispose la signorina Baker sinceramente sorpresa. «Credevo lo sapessero tutti».
«Io no».
«Beh...» disse esitando «Tom ha una donna a New York».
«Ha una donna?» ripetei con aria assente.
Lei annuì.
«Potrebbe avere almeno la decenza di non telefonargli ad ora di cena. Non crede?»
Quasi un attimo prima che cogliessi il significato di quello che mi aveva rivelato, ci fu lo svolazzo di un vestito e lo scricchiolio degli stivali di cuoio, seguiti da Tom e Daisy che tornarono a tavola.