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Megan Simmons, Stazione medica, Corazzata Karter, Settore 437
Qualcuno mi stava baciando. Mi trasportava. Mi aveva sollevata, la mia bocca era avvinghiata alla sua, infuocata e insistente. Ci stavamo muovendo, ma non sapevo dove stessimo andando. Non mi importava. Volevo solo essere baciata.
Un bacio appassionato. Profondo. Lussurioso. Il mio corpo rispose all’istante. Un ringhio rimbombò nel suo petto facendomi bagnare la fica e inturgidire i capezzoli. Un suono carnale che percepii fin dentro di me.
All’improvviso fui spinta contro un muro e sentii ogni centimetro del suo corpo premere contro di me. Era grosso. Così grosso che sentivo i contorni del suo cazzo premermi contro il ventre.
“Mia,” disse, la voce roca. Aprì le labbra giusto per pronunciare quell’unica parola, ma la sentii che mi attraversava tutto il corpo, da capo a piedi.
Sì. Ero d’accordo con lui. Non avevo idea di chi fosse quel tizio o del perché mi stesse baciando, ma non mi importava. Lo volevo, lo volevo con una disperazione che mi era sconosciuta.
Sentivo il calore del suo corpo attraverso i nostri vestiti. Era come se fosse febbricitante, come se il suo corpo fosse infiammato dalla voglia che aveva del mio corpo, come fosse consumato, trasformato in qualcosa di oscuro e primitivo.
“Sì, tua,” sussurrai.
Le sue mani mi scivolarono addosso, sul mio corpo nudo. Un momento. Ero nuda. Lui era vestito. Avrei dovuto fermarlo… ma perché? Era meraviglioso.
Non avevo bisogno dei miei vestiti. Volevo che lui si togliesse i suoi.
Fece un passo indietro e vidi che indossava l’uniforme dei combattenti della Coalizione: lo avvolgeva in un modo perfetto. Non riuscii però a vederlo in faccia. Perché? Perché non potevo vedere chi era che mi rendeva così bisognosa?
Si aprì i pantaloni e tirò fuori il cazzo. Wow, quello sì che era un cazzo mostruoso. Lungo e spesso, con la punta larga. Mi leccai le labbra. Volevo assaporarlo.
Che cavolo di problema avevo? Non ero il tipo da sbavare dietro ai cazzi degli sconosciuti.
Almeno fino a quel momento.
“Mia.” Ecco di nuovo quel discorso arguto formato da un’unica parola, ma il mio corpo rispose come se lui avesse appena sussurrato quello che mi stava per fare con un articolato racconto erotico lungo centinaia di parole. Mi afferrò i polsi, si portò le mani alle labbra e baciò il metallo che, come notavo solo ora, mi circondava i polsi.
Bracciali per l’accoppiamento Atlan.
Cazzo.
Affascinata, lo fissai mentre con la lingua tracciava i contorni dell’intricato disegno intarsiato nel metallo. Non riuscii a distogliere lo sguardo dal metallo che riluceva nel buio attorno ai miei polsi. Toni d’oro e d’argento combinati insieme abbellivano quel grosso bracciale. Avevo già visto quelle manette prima di allora, sapevo che, se solo avessi posato lo sguardo sui suoi polsi, avrei visto che ne indossava un paio identico. Erano ben più pesanti di quanto pensassi. Lui si comportava come se fossero importantissimi. Il suo corpo si piegò sopra il mio, così possessivo, come se davvero gli appartenessi. Mi baciò i palmi delle mani e sentii un sorprendente senso di potere attraversarmi il corpo mentre quella bestia gigante venerava la mia pelle, mi baciava con un tocco leggero come una piuma, come fossi fatta di porcellana.
Da donna, questa sua rivendicazione spudorata avrebbe dovuto offendermi. Ero una guerriera temprata dalla battaglia e sapevo prendermi cura di me stessa. Ma questo… questo… gigante gentile mi stava disfacendo.
Il mio corpo tremò come la corda di una chitarra e chiusi gli occhi mentre mi sollevava le mani sopra la testa. In qualche modo, sapevo cosa stava per accadere, sapevo che c’era un gancio attaccato al muro, sapevo che, se gli avessi permesso di sollevarmi le braccia, mi sarei ritrovata legata, intrappolata.
Invece di correre via, di gridare, di scalciare, di pretendere di essere liberata, sollevai le braccia e spinsi il petto in fuori, ansiosa di sentire la sua lingua ruvida sui miei capezzoli. Questo corpo era suo. Poteva avermi, doveva solo penetrarmi con quel cazzo enorme.
Mi bloccò le mani, fece un passo indietro e si tolse i pantaloni. Nudo in tutta la sua gloria, era enorme, i suoi occhi mi scrutavano attraverso l’oscurità con uno strano desiderio animale. Si afferrò la base del cazzo e cominciò a muovere la mano lungo l’asta dura, facendo fuoriuscire una goccia perlacea di fluido dalla punta. Non potei non notare i bracciali identici che sbucavano dall’orlo dell’uniforme. “Mia. Compagna.”
Lo guardai mentre continuava a toccarsi. “Quel cazzo è mio, bestia. Dammelo.”
Wow! Da dove saltava fuori questa ragazzotta sfacciata? Sembrava che non avessi nessun controllo sul mio corpo, su questa lingua tagliente, ma alla bestia che avevo di fronte non importava. Ridacchiò e si mise in ginocchio. Prima ancora che potessi sbattere le palpebre, mi sollevò i fianchi poggiandoseli sulle spalle e in un attimo la sua lingua fu dentro di me.
“Sì!” Incrociai le caviglie dietro la sua testa e lo bloccai. Il fremito che gli attraversò il corpo massiccio mi fece gemere. La sua bocca era calda, così calda. Ma ne volevo di più. Lo volevo dentro di me, volevo farmi allargare, farmi riempire.
Lui era mio. Doveva essere mio.
La bestia si diede da fare con la sua lingua fino a quando non riuscii più a pensare: avevo la fica così gonfia e bagnata da farmi male, il mio battito si muoveva dentro di me come una fiamma ossidrica. Era grosso e potente, di certo un uomo autoritario, ma ero io ad avere il potere adesso. Solo io potevo domare la sua bestia. Sarebbe stato mio per sempre. Per sempre. E lui aveva bisogno di me, aveva bisogno che confortassi la sua bestia. Il mio corpo, la mia accettazione, erano cruciali per la sua stessa sopravvivenza.
Si alzò, mi afferrò i seni e ci giocò. Le sue mani callose mi toccavano facendomi andare in estasi. Non era gentile. No. Mi strizzò i capezzoli tra pollice e indice, facendomi gemere e inarcare la schiena.
Mi afferrò le gambe dietro le ginocchia e mi sollevò così da allineare i nostri corpi. Non sentivo più il pavimento sotto i piedi scalzi; ero bloccata tra il suo corpo accaldato e il muro freddo.
“Compagna,” disse ringhiando. Mi leccò il collo, mi assaporò. Mi marchiò.
“Sei mio. Tutto mio,” risposi.
Strofinò la punta del cazzo sulle mie pieghe bagnate, forse per vedere se ero pronta, e mi fece gemere. “Sì. Fallo.”
“Mia.”
Oh, sì. Avevo bisogno che mi riempisse. Dio, voleva uccidermi con tutta questa lussuria? “Mio. Mio. Mio. Tu sei mio.”
“Implora,” il suo ringhio non era niente di meno che un ordine.
Spalancai gli occhi e vidi che mi stava osservando con attenzione. Anche se era in preda a degli spasmi febbrili, la sua bestia voleva dominarmi, voleva costringermi ad arrendermi. E voleva scoparmi. Faticavo a respirare. Il cuore mi stava per esplodere come un fuoco d’artificio.
“Ti prego,” dissi sospirando quando il suo cazzo puntò contro la mia entrata.
“Mia, fino alla morte.”
Quelle erano parole importanti. Come le promesse nuziali, ma ancora più serie. Non si divorziava dal proprio compagno. Era un legame a un livello elementare. Sapevo che, se me lo scopavo, non stavo semplicemente placando i suoi bisogni. Come aveva detto lui, stavo confortando la sua bestia. Sarebbe stato legato a me per sempre, un maschio alfa possessivo, arrogante, autoritario. Mi vennero in mente decine di motivi per cui avrei dovuto rifiutarlo, rifiutare la sua rivendicazione, scegliere qualcun altro.
Ma io volevo lui. Solo lui. Amavo questo amante autoritario, esigente. Volevo che mi scopasse così duramente da farmi scordare come mi chiamavo. Non volevo pensare, volevo sentire. Non volevo dovermi preoccupare di prendermi cura di me stessa. Per una volta nella mia vita, avrei ceduto il controllo a qualcun altro. Si sarebbe preso lui cura di me. Io mi sarei sottomessa.
Quel pensiero mi fece sciogliere. Sì. Avevo bisogno che lui prendesse il controllo, che costringesse la mia mente a smettere di ronzare e turbinare, che mi facesse provare mille sensazioni. Nient’altro.
“Riempimi. Ti prego.” Mossi i fianchi e lo feci entrare dentro di me, giusto un paio di centimetri. Mi aprì appena un po’, allargandomi. Sapevo che tutto quel cazzo dentro di me mi avrebbe spaccato a metà. Sarei dovuta scappare invece di sistemarmi meglio su di lui.
“Ora,” dissi, le mani strette a pugno. Avevo le gambe spalancate, ero come un banchetto e lui doveva soltanto prendermi. “Ora,” ripetei e gridai quando mi penetrò fino in fondo con un unico movimento.
“Mia,” ringhiò.
Gettai la testa all’indietro. Mi stava allargando. Quel piacere misto a dolore mi scatenò il primo orgasmo. Lui mi guardava negli occhi come un cacciatore, osservandomi, sostenendo il mio sguardo mentre la mia fica si contraeva attorno a lui come un pugno, pulsante e gocciolante, e tutto il mio corpo fremette.
Dio. Ancora. Ne avevo bisogno… si ritrasse e mi penetrò di nuovo con un unico colpo che mi fece sbattere contro il muro.
“Signorina Simmons.” Sentii la voce di una donna provenire da lontano, ma la ignorai mentre la mia bestia mi riempiva con un ringhio selvaggio.
Sì, era così bello. Amavo il suo cazzo. Ne avevo bisogno. Si ritrasse, mi riempì di nuovo… sì!
“Miss Simmons!” Di nuovo quella voce. Insistente. Esasperata. Chiunque fosse, non lo vedeva che ero impegnata in quel momento?
Scossi la testa, mi concentrai sul muro che mi toccava la schiena, sulle enormi mani Atlan che mi afferravano i fianchi, sul suo cazzo in mezzo alle cosce. La presa salda dei bracciali mi costringeva a prendere tutto quello che lui mi dava, a prendere il piacere, l’eccitazione del pericolo che provavo nel mettere il mio corpo nelle sue mani. Nell’essere sua. Totalmente. Completamente. Sua.
Il suo enorme cazzo si ritrasse. Mi penetrò a fondo. Dio. Così grosso. Così duro. Ero sull’orlo del dolore e lo adoravo.
“Megan?” Di nuovo quella voce di donna, e questa volta sembrava irritata. La ignorai. Io non volevo lei. Volevo lui. Il suo cazzo. Le sue mani enormi. Il suo calore.
“Megan! Soldato, torna in te!”
Oh, una voce da stronza adesso, ma non mi importava. Scossi la testa e mi morsi il labbro mentre il mio compagno continuava a scoparmi. Stavo per venire di nuovo. Dio, ero così vicina –
“Preparare lo stimolatore neurale. Non riesce a risvegliarsi dalla simulazione.”
Simulazione?
Quell’unica parola risvegliò un ricordo. Il dottore. La nave. Una volta che la mia mente imboccò quella via, il resto svanì. Lui svanì. Provai a trattenerlo, a trattenere il piacere, ma tutte quelle sensazioni volarono via dalla mia mente come sabbia trasportata dalla tempesta. Aprii gli occhi, sbattei le palpebre. Non c’era nessun maschio alfa che mi scopava contro il muro come fossi il suo dessert preferito. Anzi, di maschio non se ne vedeva in giro nemmeno uno.
Il che riassumeva più o meno la mia vita. Almeno nel settore sesso. Sulle corazzate, ero circondata da uomini, ce n’erano a migliaia. Ma non facevo sesso da più di un anno e il mio corpo di certo non era stato appagato da questo piccolo assaggio. Ne volevo di più. Ma questa era la storia della mia vita, perché di certo non sarebbe successo molto altro. Almeno non nei prossimi giorni.
“Oh, bene.” La voce della donna apparteneva alla dottoressa Moor. Riconobbi i suoi capelli marrone scuro e la faccia gentile che mi scrutava. Era una donna Atlan e quindi sembrava umana, più o meno, tranne che era alta più di due metri e aveva le spalle più larghe di quelle di un giocatore di football. I Signori della guerra Atlan erano uomini grossi e non era dunque una sorpresa che le donne fossero della loro stazza. Portava la sua solita uniforme verde da dottore, i capelli tagliati corti le facevano risaltare gli occhi in modo incredibile. Era bellissima. E cosa ben più importante, era gentile. Ecco perché ero venuta da lei per eseguire i test per il Programma Spose Interstellari. Non avrei mai permesso a un dottore Prillon di starmi a guardare mentre facevo i miei sogni bagnati, in cui magari c’era uno dei loro parenti.
Per niente al mondo. No. La dottoressa Moor mi andava più che bene. E così anche quel sogno.
Mi guardai intorno e riconobbi le linee verde scuro sui muri, la sedia che assomigliava a quella del dentista da cui andavo quando ero bambina. Distesa qui, mi sentivo minuscola. Queste cose erano progettate per accogliere enormi guerrieri alieni – gli Atlan e i Prillon erano i più grandi, alti quasi due metri e venti. E quando andavano in modalità bestiale? Gli Atlan superavano i due metri e settanta, erano come l’Incredibile Hulk, ma senza la pelle verde. Erano enormi, degli assassini brutalmente efficienti, e sexy da morire. Almeno per me. Niente mi rendeva più felice che vedere una squadra di Atlan inondare il campo di battaglia attorno a me e fare letteralmente a pezzi i soldati dello Sciame usando solo le mani.
E quindi avevo una natura un tantinello violenta. Avevo fatto pace con quel lato del mio carattere un sacco di tempo prima, quando mi ero unita all’Esercito. Non tutti erano fatti per le ghirlande di fiori e le proteste pacifiche. Nessuno della mia famiglia, almeno. Ma io ero più che pronta a combattere e a morire per proteggere chi lo era. Mettetemi una pistola in mano – o un cannone a ioni – e fatemi dare la caccia ai cattivi. I terroristi sulla Terra. I droni dello Sciame nello spazio. Per me erano tutti la stessa cosa. Il male era il male. Combatterli mi faceva sentire potente. Mi faceva sentire parte della famiglia. Sia mio padre che i miei fratelli si erano arruolati. E quindi anche io avevo fatto la stessa cosa, anche se ero una ragazza. Una bastarda di Boston, mezza nera e mezza irlandese.
Riuscivo benissimo a premere il grilletto del mio fucile.
Ero anche l’unica che aveva lasciato la Terra per unirsi alla Flotta della Coalizione. Non che questo facesse una grande differenza per mia madre. Ormai erano quasi due anni che combattevo contro lo Sciame – stavo per essere congedata – e avevo visto un bel po’ di merda. Non ero una ragazza debole. Ero una donna potente che non solo affrontava i soldati dello Sciame, ma li adescava, li intrappolava e li uccideva. Uccideva i loro leader. Una donna che si intrufolava dietro le linee nemiche e faceva allontanare le Unità di Integrazione dai soldati dello Sciame e dalle unità di Ricognizione. Avevamo preso di mira per mesi le Unità di Integrazione, la parte dello Sciame responsabile di torturare e assimilare i prigionieri nella mente collettiva dello Sciame. Ma ora dovevo provare ad acciuffare un pesce più grosso. Un pesce top secret.
Stavamo dando la caccia alle loro unità di comunicazione principali, le Unità Nexus. Qualche giorno prima, eravamo quasi riusciti a prenderne una. Ma le nostre informazioni erano errate. Erano protetti da una dozzina di Soldati dello Sciame di prima classe, dei bastardi grossi e potenti che era difficilissimo ammazzare. Ero quasi morta durante l’ultima operazione e l’unità dello Sciame era riuscita a far fuori il resto dei guerrieri insieme a me prima che potessi fare qualcosa. Eravamo tornati con una delle creature Nexus più piccole. L’avevamo uccisa. Ma la sua unità di comunicazione era bruciata. Tutto inutile. Tre guerrieri della Coalizione morti… e per niente.
Non potevo sopportarlo. Ecco perché volevo riprovarci. Proprio il giorno successivo. Lo Spionaggio, le menti d’élite della Coalizione che gestivano le informazioni di questa guerra, mi aveva assegnato una squadra di cinque assassini altamente addestrati per entrare in quel canyon il giorno dopo. Questa volta, non avrei fallito. La mia ultima missione non sarebbe stato un fallimento. Se me ne fossi andata via in quel momento, avrei sentito per sempre la voce di mia madre nelle orecchie, che mi disapprovava e mi diceva: “Perché non puoi essere coraggiosa, come i tuoi fratelli?” o “Smettila di piangere, stronzetta. Sembri una ragazzina.” E la mia preferita: “Gesù, Giuseppe e Maria, non dovevi proprio nascerci tu, in questa famiglia.”
La dottoressa mi girava intorno mentre i ricordi mi inondavano la mente. Non erano i ricordi di mani o desideri, ma di schiaffi in faccia quando mia madre si ubriacava e di parole che mi ferivano così profondamente che pensavo che il mio cuore non avrebbe mai smesso di sanguinare.
Mio padre era un uomo di colore grande e grosso, feroce e protettivo. Ci amava tutti, quando era a casa, e io lo amavo con una ferocia che ancora mi faceva ribollire il sangue. A quel tempo mia madre stava meglio, era felice. Ma poi mio padre morì quando avevo nove anni e lei non si riprese mai più, cominciò a bere whiskey come fosse acqua e più era ubriaca, più cattiva diventava.
Mio padre era morto. Era morto da un sacco di tempo. I miei fratelli erano degli stronzi cazzuti; erano sulla Terra e servivano ancora il loro paese. Non avevo idea di dove fossero ora. Afghanistan? Siria? Africa? Diamine, per quanto ne sapevano potevano anche essere in Antartide a congelarsi il culo. Due volte l’anno ricevevo un messaggio da mio fratello più piccolo. Mi informava che erano ancora tutti vivi. Persino Shirley. Shirley Simmons. “Madre” non era una parola che mi piaceva usare, e lui lo sapeva.
Negli anni mi circondai con la forza. Con uomini tosti. Con armature spesse. Con armi potenti. Mi allenai per rafforzare il corpo e la mente. Ero alta quasi un metro e ottanta. Non ero abituata a sentirmi piccola o vulnerabile, ma stare seduta su questa dannata sedia mi faceva sentire come un bambolotto di pezza. Sulla Terra ero più alta di parecchie donne, ma qui? Qui ero come un bambino che si vuole sedere al tavolo dei grandi, con le gambe che gli penzolano dalla sedia.
Per fortuna, i comandanti della Flotta sapevano come sfruttare al meglio la mia stazza, la mia furtività. E la missione della mia squadra per il giorno successivo ne era la prova. Qualche volta era meglio essere lo scorpione che il leone. Piccola ma letale. Era questo il mio motto. Diamine, quello era il motto di quasi tutti gli umani qui nello spazio. Noi non eravamo grossi come queste razze aliene, ma quando serviva eravamo spietati come la morte. Era motivo d’orgoglio. Per me, era la mia missione personale.
“Sei con me, Megan?” La dottoressa si sporse in avanti, puntandomi dritta nelle pupille una di quelle stupide luci abbaglianti che mi fece strizzare gli occhi . Troppo luminosa.
“Per sfortuna.” Io volevo quell’omone, il suo cazzo enorme. Volevo sentirmi bellissima, femminile, desiderata. Invece, avevo un’ultima missione, dovevo indossare per l’ultima volta quell’armatura pesante, l’elmetto, infangarmi dalla testa ai piedi, uccidere cose. Un’ultima volta.
Fattelo andare giù.
Questo era praticamente il motto di famiglia e l’avevo imparato anche io. Più di una volta nei due anni passati, quelle tre parole mi avevano fatto superare gli estenuanti allenamenti, il dolore, l’essere scaraventata in territori ostili. Ero stata al freddo, ero stata accaldata, affamata, zuppa di sudore, di sangue e di ogni altro fluido corporeo che mi venisse in mente, e di alcuni che non avrei mai osato immaginare prima di venire nello spazio. Nel cazzo di spazio profondo. Quando mi fermavo per pensare al fatto che stessi fluttuando in un barattolo di latta in una galassia lontana, lontana, andavo ancora nel panico. E quindi provavo a non pensarci per niente.
La dottoressa spense la torcia con un click e io riuscii di nuovo a vedere. La guardai in faccia e vidi che annuiva. “Bene. Non volevo iniettarti gli stimolatori neurali.”
Sollevò un piccolo cilindro verde che già sapevo per esperienza personale quanto facesse male quando ti infilzava. Non aveva un ago. Usavano qualcos’altro per costringerti ad assumere quella sostanza. Non sapevo come funzionasse di preciso. E non lo volevo nemmeno sapere. “No, grazie. Tieni quella cosa lontana da me.”
La dottoressa ridacchiò e consegnò il cilindro ad un assistente che prese il dosatore e si allontanò in tutta fretta, come se avesse interrotto una conversazione estremamente personale. Il che era vero. Quel pensiero mi riportò alla realtà più in fretta di qualunque altra cosa. In quel momento ero più che sveglia. Nessun tizio del sogno. Nessun cazzo del sogno. Niente preliminari o giochetti. Nessun incredibile orgasmo.
Mi trovavo nella stanza per i test per le spose, nell’ala medica della Corazzata Karter. Diamine. Avrei preferito ritornare nel paese delle meraviglie, assieme a un maschio autoritario che sapeva come usare le mani e come usare il cazzo. Era passato così tanto tempo da quando qualcosa oltre alle mie dita mi si era piazzato in mezzo alle gambe.
“Ho urlato?” Riuscii a sentire le guance che arrossivano. “Per favore, dimmi che non ho urlato.” Mi sarei sparata col mio stesso fucile se gli uomini nella stazione medica mi avessero sentita urlare per un orgasmo procuratomi da un sogno.
“Non hai urlato.” Sorrise e mi fece l’occhiolino in modo complice. “Io non mi sono mai sottoposta a questi test, ma tutte le spose che l’hanno fatto hanno avuto un’esperienza più che eccitante.”
Era di qualche anno più grande di me. Forse non si era fatta testare come me, ma a giudicare dai bracciali dorati che aveva attorno ai polsi era ovviamente la compagna di un Atlan, e quindi di uomini Atlan prepotenti ne sapeva più che abbastanza. E di cazzi enormi. E, in base al mio sogno, ai bracciali che avevo indosso e al gigante che mi stava scopando fino in fondo, stavano per abbinarmi a entrambe le cose.
Il solo pensiero di avere un maschio Atlan mi fece fremere, la mia fica si contrasse e il calore mi inondò il corpo. Avrei dovuto essere sorpresa. Nel profondo, volevo uno di quei guerrieri enormi e brutali. Ma non lo ero. Avendo passato due anni a combattere lo Sciame insieme alle forze della Coalizione, avevo incontrato parecchi Atlan ed erano tutti troppo. Dominanti. A cui piaceva il controllo. Fastidiosi. Non avevano niente contro le donne, non mancavano di rispetto, non erano dei fanatici. Anzi, erano l’opposto. Ma esasperavano il concetto di maschio Alpha. Protettivi. Esigenti. Spietati.
Fremetti, quella parola mi fece correre un formicolio lungo la pelle. Spietati. Non mostravano alcuna pietà per il nemico. E io rimasi scioccata nello scoprire che non volevo nessuna pietà tra le lenzuola.