Capitolo IV

1350 Words
Capitolo IVQuando Daniel si svegliò, era giorno. I raggi del sole penetravano attraverso la stretta apertura nella montagna e illuminavano con la loro luce anche i punti più nascosti della grotta. Nell’aria si sentiva l’odore familiare delle focacce calde che suo padre era solito cuocere ogni mattina sulle pietre ancora arroventate del focolare dopo aver impastato una manciata di farina e dell’acqua. «Coraggio, dormiglione», la voce di Aaron lo strappò definitivamente al piacevole tepore del sonno. Il pastore aveva l’aria stanca di chi ha passato tutta la notte sveglio. Le rughe intorno agli occhi sembravano più profonde e, nonostante la pelle del suo volto fosse bruciata dal sole, il bambino poteva vedere le profonde occhiaie che gli segnavano il viso. «La colazione è pronta e il nuovo giorno è già sorto da un pezzo. Coraggio ometto! B’Ezrat HaShem, dobbiamo partire per la Galilea.» Daniel conosceva bene quel tono. Suo padre lo usava sempre quando aveva davvero fretta. E non ammetteva deroghe! Tendendo la mano, accettò le due piccole focacce, insaporite da un velo di miele. Erano ancora calde e il bambino si accorse di avere fame. In un attimo terminò la sua frugale colazione, poi, non senza un pizzico di riluttanza, si convinse ad abbandonare definitivamente il piacevole tepore della coperta di lana grezza che lo aveva riparato dal freddo della notte. Aaron, nel frattempo, si era allontanato portando con sé il fardello che conteneva le loro poche cose. Attraverso l’apertura della grotta Daniel ne intravide la figura: era intento ad assicurare il basto sul dorso dell’asino e stava parlando con Yosef, che gesticolava animatamente. Solo allora la memoria, ancora intorpidita dal sonno, gli rimandò il ricordo dei fatti accaduti la notte prima. Guardò verso il giaciglio dove si era addormentata Myriam con il piccolo Yeshua stretto in grembo. La paglia portava ancora impresso il segno dei corpi che aveva ospitato. Ma nella grotta non c’era più nessuno. Anche il fuoco era ormai spento. Sembrava proprio che quella mattina tutti avessero una gran fretta di andarsene. Come ogni giorno, raccolse le sue cose e le radunò al centro della coperta per farne un fardello. Poi si avviò verso l’uscita. Quando fu fuori, la luce del sole lo abbagliò per un attimo. A fatica, sbattendo le palpebre, si abituò al chiarore intenso del giorno. Aaron e Yosef erano accanto a una piccola pozza dove l’asino beveva lunghe sorsate di acqua stagnante. I due amici stavano ancora parlando. Osservò suo padre e di nuovo ebbe la sensazione che fosse preoccupato. E il tono concitato con cui rispose all’amico non fece che confermargli questa prima impressione. «Benedetto sia HaShem, ti credo Yosef. Te l’ho già detto… Se un altro fosse venuto a raccontarmi una storia come la tua, probabilmente lo avrei preso per matto. Ma mi fido di te, amico mio.» Il pastore scoppiò in una risata calda e fragorosa che spezzò in un attimo la tensione di quel momento. «HaKadosh Baruch Hu è grande e capace di fare tutto ciò che vuole…» La sua voce arrivò alle orecchie del piccolo Daniel trasportata sulle ali del vento di quella fresca mattina di Tishrei. «Sia lodato il Signore per avermi dato un amico come te. Grazie Aaron. Avevo proprio bisogno di raccontare a qualcuno tutte le cose che mi sono capitate negli ultimi mesi. Spesso ho l’impressione di vivere un sogno. O un incubo a seconda del punto di vista… Sono una persona semplice, tu lo sai. Ma quando non capisco qualcosa è come se un boccone mi s’incastrasse in gola senza voler più andare né su, né giù. A volte mi manca il respiro e spero che sia tutto frutto della mia immaginazione. Ma poi li guardo e…» Con un espressivo gesto del mento Yosef indicò all’amico sua moglie Myriam che, all’ombra di un grosso sicomoro poco distante, stava finendo di allattare il piccolo Yeshua. E sul volto barbuto del falegname di Nazareth si dipinse un’espressione di imprevedibile dolcezza che rese inutili le parole necessarie a finire la frase. «Vieni Daniel, voglio essere a casa prima possibile!» Poi tornò a rivolgersi al falegname: «Andrò direttamente a Corazin. Al mio gregge può badare il vecchio David, ti ricordi il pastore che accompagnava mio padre Amos e ci regalava sempre una manciata di datteri? Ora lavora con me!». Il falegname rispose con un sorriso, poi l’amico continuò: «Ho promesso a Yehudit di tornare entro il primo Shabbat di Cheshvan… E tu non t’immagini per quanto tempo è in grado di tenermi il broncio quella donna se non mantenessi il mio impegno!». I due uomini scoppiarono in una lunga risata. La strada tra Beit Lechem e Corazin era lunga e faticosa. Una carovana riusciva a percorrerla in una settimana, ma Aaron, che poteva contare sull’aiuto dell’asino che avrebbe trasportato il bambino, contava di risparmiarne almeno un giorno, camminando di buona lena. Attirò l’attenzione del figlio con ampi gesti della mano. E il bambino si avvicinò di corsa. Nel frattempo Yosef abbassò il tono della voce, come se avesse paura di farsi sentire. «Amico mio, mi raccomando, non fare parola con nessuno di ciò che ti ho detto stanotte. Yeshua è piccolo e, se si spargesse la voce, qualcuno potrebbe pensare che mio figlio rappresenti davvero un pericolo. Decidendo di toglierlo di mezzo. Ti prego, nel nome di HaShem, quanto ti ho confidato deve restare segreto!» Poi, senza neppure attendere la risposta dell’amico, si voltò verso Daniel: «Coraggio ragazzo, ho preparato questa carruba apposta per te. È bella matura e dev’essere dolce come il miele…». Infilò la mano nella lunga tunica color amaranto e trasse fuori da una tasca nascosta un lungo baccello scuro. «Prendi!» Daniel afferrò al volo il frutto nerastro e cominciò a succhiarne la polpa dolce e pastosa. Lasciò che Yosef lo sollevasse per le braccia per metterlo a sedere sul dorso dell’asino, che attendeva paziente di partire brucando i germogli del piccolo canneto che circondava il pozzo. «Lehitraot Aaron, che la grazia del Signore sia su di te e su tuo figlio. Fate buon viaggio. Mazel Tov!» «Arrivederci, Yosef. Verrò a trovarti presto a Nazareth se HaShem vorrà.» I due amici si salutarono con un lungo abbraccio fraterno. Poi il pastore afferrò con una mano la cavezza legata al collo dell’asino e si diresse verso il sicomoro, dove Myriam e il suo bambino riposavano protetti dall’ombra del grande albero. La donna si alzò in piedi e, stringendo sempre il suo fardello al petto, andò loro incontro. Il bambino dormiva e ora, alla luce del sole, Aaron poté finalmente osservarla bene. La bimbetta tutta pelle e ossa, che cercava sempre di partecipare ai giochi della banda dei ragazzi più grandi del villaggio – quella di cui erano membri benemeriti lui e Yosef – si era trasformata con gli anni in una bella ragazza dagli occhi scuri e dai lineamenti delicati. E le fatiche del parto non avevano lasciato segni troppo evidenti sul suo viso. Ormai, pensò Aaron, Myriam aveva già compiuto sedici anni. L’età giusta per diventare madre… Secondo quanto gli aveva raccontato quella notte l’amico, lei e Yosef si amavano profondamente. Se non fosse stato per il terribile segreto che portavano racchiuso nel cuore, avrebbero potuto davvero essere una coppia felice. Anche la ragazza si avvicinò per salutarlo con un sorriso: «Aaron, sono lieta di averti rivisto. Sia ringraziato il Signore. Mi dispiace solo di non aver potuto riceverti con gli onori che spettano a un amico come te. E di non aver potuto godere più a lungo della tua presenza insieme a mio marito. Promettimi che verrai presto a trovarci a Nazareth…». La sua voce era dolce e gentile come le sue parole, ma, nell’abbracciarla, Aaron ebbe un attimo di esitazione. Quello che Yosef gli aveva confidato gli tornò alla mente. E per un attimo il pastore ebbe paura di quella donna e del neonato che portava tra le braccia. A disagio, senza riuscire a liberarsi del tutto da quella spiacevole sensazione, la salutò frettolosamente. Poi, senza dire una parola, si avviò verso la strada, mentre, in groppa all’asino, il piccolo Daniel agitava la mano, sgranocchiando tranquillo la sua dolce carruba.
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