Capitolo IIIFuori dalle mura di Gerico in Galilea. Piazzale delle esecuzioni
Sedicesimo giorno del mese di Tishrei dell’anno 3758 dalla Creazione del Mondo
Il ragazzo teneva gli occhi serrati, come se non volesse vedere quello che gli stava succedendo. Sentì le mani dei legionari che gli allargavano a forza le braccia sul patibulum. Provò a flettere i muscoli per impedirgli di stenderle. Cercò di fare resistenza mentre il cuore gli esplodeva nel petto per la paura. Ma loro erano più forti. Uno dei carnificēs gli afferrò le dita della mano destra tirandole a sé. Il terrore gli annebbiò la mente in attesa del dolore che – lo sapeva – sarebbe arrivato di lì a poco. Aveva solo sedici anni, era troppo giovane per morire! E la croce era la peggiore delle morti. Voltò il capo cercando disperatamente lo sguardo di suo fratello per cercare di trarre da lui la forza per sopportare quella prova inumana. Seruch era il maggiore, per tutta la vita lo aveva considerato un modello e un punto di riferimento. Aveva nei suoi confronti una vera ammirazione e lo avrebbe seguito fino nel Gehinnom… E alla fine all’inferno sarebbero finiti insieme, inchiodati a un patibolo romano.
Anche l’altro condannato stava lottando contro i suoi aguzzini. Era un uomo di poco più di vent’anni dalla lunga barba nera, grande e forte, con un fisico da lottatore, ma, come lui, stava soccombendo a un gruppo di legionari che lo tenevano fermo, sdraiato a terra, con le braccia allargate sul legno. Uno di loro, il carnifex probabilmente, afferrò un grande martello da fabbro e un lungo chiodo acuminato che per un attimo brillò sinistro colpito dai primi raggi del sole. Era l’alba del giorno in cui lui e suo fratello sarebbero morti. La consapevolezza gli regalò nuova paura.
Anche Seruch gridò per il terrore. Senza che l’espressione del romano cambiasse, come se quello che stava facendo fosse un normale lavoro che non gli provocava alcuna emozione, il soldato colpì con forza il punteruolo di ferro che, con uno spruzzo di sangue penetrò nel polso del fratello, lacerando pelle, tendini e carne. L’uomo urlò, il suo viso trasformato in una maschera di sofferenza, mentre anche la seconda mano veniva inchiodata sul legno.
Poi fu il suo turno. Il ragazzo strinse i denti fino a farsi male. Il tormento del metallo che penetrava il suo corpo arrivò con la potenza di un fulmine. Violento, implacabile, insopportabile. Prima a destra, poi a sinistra. Fino al suo arrivo sulla piazza delle esecuzioni di Gerico, era riuscito a mantenere un atteggiamento apparentemente calmo e sprezzante.
Durante il processo non aveva degnato di una parola il legatus Augusti Publio Sulpicio Quirino. Si era ripromesso di non dare a quei cani la soddisfazione di vederlo implorare pietà. Voleva che Seruch fosse fiero del suo fratellino. Al momento della lettura della sentenza di morte, nella sala del Sanhedrin, aveva sputato con disprezzo verso il comandante romano e non aveva emesso neppure un lamento quando uno dei legionari di guardia lo aveva colpito allo stomaco con l’asta del suo pilum.
Era fiero di essere uno zelota, un ribelle, di lottare contro i porci invasori e contro i loro schiavi, i soldati di re Herodes l’Idumeo. Nel nome di HaShem l’Onnipotente lui e Saruch avevano ucciso un fornaio che vendeva il pane al nemico. Un maledetto traditore della loro gente che si era riempito la borsa con gli aurei dei furieri della legione. Lo avevano sorpreso da solo nel suo negozio. Quando aveva capito chi aveva di fronte, quel verme immondo si era pisciato addosso dalla paura. Poi li aveva implorati di avere pietà. Ma suo fratello gli aveva tagliato la gola da un orecchio all’altro come a un capretto al macello, mentre lui lo teneva fermo impedendogli di scappare. Erano colpevoli, certo! E ne erano fieri. Quando i romani li avevano arrestati dopo una breve fuga, avevano ancora le mani e le tuniche sporche del sangue della loro vittima.
Uno strattone al patibulum, il palo a cui gli avevano inchiodato entrambi i polsi, lo riportò alla realtà, nello spiazzo davanti alle porte della città dove i romani erano soliti eseguire le condanne a morte per mezzo della croce. Il carnifex aveva gettato un capo della fune al suo aiutante, un ragazzo agile e scattante che si era arrampicato lungo lo stipes, il legno verticale piantato nel terreno su cui sarebbe stato issato il suo corpo. Poi aveva passato la corda in una carrucola e lui era stato trascinato all’indietro, mentre veniva sollevato in alto.
Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, dimenandosi per cercare di scappare. Il dolore alle mani era lancinante e insopportabile ora che si trovava a dover reggere sui due polsi feriti l’intero peso del suo corpo.
Quasi non si accorse che anche i piedi venivano penetrati dai chiodi all’altezza delle caviglie. Era squassato dagli spasmi. Si afflosciò su se stesso, ma si accorse che la sofferenza era ancora più intensa. Così si fece forza e strinse i denti. Le lacrime scendevano copiose sulla corta barba da adolescente che si era fatto crescere per aderire ai precetti della Torah.
Provò a pregare recitando un salmo: «Il Signore ama la giustizia e non abbandona i suoi fedeli; gli empi saranno distrutti per sempre e la loro stirpe sarà sterminata». Ma la sofferenza gli ottenebrava la mente. Sapeva che sarebbe stata una lunga agonia che avrebbe potuto durare giorni interi.
Sotto di lui due legionari armati di pilum e scutum facevano la guardia alla croce pronti a sventare qualsiasi accenno di protesta. Ma la gente passava veloce, senza soffermarsi a guardare, senza degnarlo di un cenno di pietà. Ormai per tutti era già morto. Un corpo appeso a un patibolo romano da dimenticare in fretta facendo gli scongiuri.
«Ho sete…», gemette. Sperando che uno dei soldati avesse per lui un gesto di pietà. Si sentiva la gola secca e arsa, non aveva neppure più un goccio di saliva da mandare giù.
Ma i due fecero finta di non averlo udito.
«Ho sete!»
«Taci, zelota. Il legato ha ordinato di non darvi nulla da bere. E di non aiutarvi a morire. Vi godrete a lungo la croce romana prima di andare a trovare il vostro Dio…», uno dei romani gli rispose in malo modo, sghignazzando senza ritegno.
Per un attimo il ragazzo perse i sensi. Ma si riscosse subito. Si accorse che il peso del suo corpo, se rilassava i muscoli per dare requie al dolore dei polsi e delle caviglie, gli rendeva difficile respirare. Così tornò a fare forza sui chiodi.
Una voce ansimante, alla sua sinistra, lo richiamò alla realtà: «Fratello mio…».
Girò il collo e vide Saruch: sembrava un demone uscito da uno dei racconti di paura che rabbi Shalom raccontava ai ragazzi della casa delle parole. Appeso al patibulum, coperto di sangue, con il corpo segnato dai colpi del flagellum, la corta frusta romana, l’espressione del viso contorta in una smorfia d’indicibile sofferenza, respirava a fatica cercando di trovare un punto di equilibrio che gli permettesse di alleviare la pena inumana a cui erano sottoposti.
«Vedrai, HaShem non dimentica i suoi figli. Fatti coraggio, fratellino. Facciamo vedere a questi porci romani come muoiono due veri zeloti.»
«Ho paura…»
«Non aver paura. Sono qui con te… Saremo insieme fino all’ultimo respiro, fatti forza!»
Non riuscì neppure a sentire il resto della frase. Il ragazzo, spossato dal dolore, dalla copiosa perdita di sangue e dalla fatica, perse nuovamente i sensi. Lentamente la sua mente scivolò in un limbo nero, dove la sofferenza era solo un eco ovattato. Se quella era la morte, ebbe ancora il tempo di pensare, sperava che arrivasse presto una volta per tutte. Per portarlo via con sé lontano da lì e da tutto quell’orrore…