Capitolo IINella grotta nei pressi di Beit Lechem in Giudea
Il pastore Aaron avanzò lentamente, con il piccolo Daniel sulle spalle, guardandosi intorno incuriosito. La gente, accanto a lui, sembrava posseduta dagli shedim, i demoni maligni, presa da un insolito fervore. E, sotto le volte della grotta, il rumore del chiacchiericcio di coloro che erano riusciti a entrare rimbombava come un indistinto e sordo borbottio.
È la stessa forza misteriosa che ha spinto anche me a seguire la stella e a venire fino a qui…, realizzò dentro di sé, maledicendo il momento in cui aveva deciso di andare dietro alla luce nel cielo finendo per cacciarsi in quel guaio. E la storia dell’angelo Gavriel? Era un ebreo osservante, non lavorava nel giorno di Shabbat, frequentava la scuola di rabbi Sharon a Corazin. E cercava di vivere seguendo i comandamenti di HaShem. Ma credere addirittura che un malak, un messaggero del Signore si fosse scomodato per apparire a dei pastori di Beit Lechem…
«Abba, andiamo via, c’è troppa gente qui», la voce di Daniel, piagnucolosa e petulante, gli giunse direttamente all’orecchio, rompendo il flusso dei suoi pensieri.
L’uomo si scosse. Con una stretta della mano tranquillizzò il figlio. Incalzato da coloro che premevano dietro di lui per entrare, il pastore riuscì ad avanzare verso il centro della grotta.
Fu in quel momento che lo strillo di un neonato attirò l’attenzione generale.
«Ecco, vedete, l’avete svegliato di nuovo!»
Una profonda voce maschile proveniva dal fondo della caverna. E, sebbene il pastore non riuscisse ad abbinarla a un viso, aveva qualcosa di familiare: «Fuori, fuori, adesso basta. Mia moglie ha bisogno di quiete. Ha partorito da poco… è stanca!».
Un uomo dall’aspetto imponente, dalla lunga barba nera e dai capelli arruffati si fece spazio tra l’assembramento di curiosi. Indossava una tunica di lana grezza e impugnava nella mano destra un robusto bastone con cui provava ad arginare l’ingresso degli indesiderati visitatori, spingendoli verso l’uscita. Ma la sua sembrava una battaglia già persa in partenza.
«Per amor del cielo! Via, via, lasciateci in pace… Andatevene. Fuori!»
Aaron lo riconobbe non appena se lo trovò davanti, scarmigliato e furibondo.
«Yosef, Yosef ben Yaakov! Che tu sia benedetto…»
L’uomo lo guardò, per un attimo sconcertato. Poi sembrò mettere a fuoco la figura che si stagliava davanti a lui. Un volto noto, in mezzo a decine di sconosciuti.
«Aaron ben Amos! Sia lodato HaShem, sei qui anche tu?»
Yosef pareva stupito d’incontrare in modo tanto inatteso il vecchio amico. Si conoscevano da quando erano bambini e frequentavano insieme la scuola di Nazareth. Abitavano a pochi passi di distanza l’uno dall’altro, e, crescendo, la loro amicizia si era rafforzata. Almeno fino a quando le loro strade si erano divise: Aaron aveva seguito suo padre sui pascoli, mentre Yosef era entrato, come ragazzo di bottega, nel laboratorio di falegnameria dello zio Shelomoh a Seforis.
Così i due amici prima inseparabili avevano finito per frequentarsi sempre meno fino a quando, dieci anni prima, Aaron aveva conosciuto Yehudit e dopo averla sposata, si era trasferito a Corazin, sulle alture che circondano il lago di Genesaret. Da allora non si erano più visti. Il pastore aveva saputo quasi casualmente che Yosef aveva sposato Myriam, la bambina magra e timida che abitava nella casa vicino al pozzo. Poi, più nulla. E ora se lo ritrovava davanti, in una situazione davvero insolita.
«Ti prego, nel nome di HaShem, aiutami a mandarli via! Tutti. Ho bisogno di silenzio e di pace. Sono esausto… Mia moglie ha appena partorito!»
La stanchezza e la tensione delle ultime ore trasparivano dalla voce e dai gesti di Yosef: «Senti, mio figlio? Piange… Non ne posso più di tutta questa gente. Hanno cominciato ad arrivare subito dopo la nascita del bambino, a portare doni, a chiedere benedizioni. Da allora non ci hanno lasciati soli un attimo. Per favore, dammi una mano a farli uscire…».
Con un gesto del braccio, Yosef gli indicò una piccola nicchia in fondo alla grotta. Lì, su un mucchio di paglia, era sdraiata una giovane donna. Aveva il viso pallido e tirato, le occhiaie segnate da profondi aloni scuri, e stringeva al petto un fagotto, da cui spuntava un ciuffo di capelli neri.
«Sia ringraziato il Signore d’Israel. Quello è mio figlio… E lei è Myriam bat Hannah, mia moglie. Ti ricordi, vero?»
L’amico annuì, sorrise alla donna e le fece un piccolo cenno di saluto. Poi mise a terra Daniel.
«Figliolo, guarda quanto è piccolo! È appena nato… Aspettami là, arrivo subito!»
Il bambino, curioso, si avvicinò alla donna. E Aaron finalmente fu libero di aiutare l’amico a spingere indietro la folla.
«Coraggio, andate tutti fuori! Non c’è nulla da vedere! Tornatevene a casa!»
Incuranti delle proteste della gente, i due uomini cominciarono ad allungare qualche spintone, e presto la grotta fu sgombra.
«B’Ezrat HaShem! Presto, dobbiamo sbarrare le ante con quella trave laggiù! Passala in quelle staffe di metallo. La porta è robusta, reggerà!»
Il pastore lo aiutò a bloccare i pesanti battenti di legno: «Siamo soli, finalmente. Sia ringraziato il Signore! Possiamo respirare!».
Il falegname avanzò verso sua moglie e suo figlio, poi si accasciò, stremato, sulla paglia accanto a loro.
Il pastore si diede subito da fare per preparare qualcosa per la cena.
«Figliolo, aiutami! Passami quel fascio di legna laggiù.»
Il piccolo obbedì. E presto il tepore di un bel fuoco, che scoppiettava in un cerchio di pietre, riscaldò la stanza scavata nella roccia regalando un po’ di tepore ai presenti. Quindi Aaron trasse fuori dalla sua bisaccia un grosso pezzo di pane raffermo che affettò e abbrustolì sulle braci e una mezza forma di cacio. Mentre Yosef contribuiva con un paio di focacce, dei fichi e alcuni datteri.
Dopo essersi ripreso per qualche istante, il falegname si alzò con un profondo sospiro, stirandosi i muscoli della schiena e scuotendo il capo come se volesse schiarirsi la mente confusa dalla stanchezza e dalle tante emozioni di quella lunga giornata. Poi prese per mano il bambino: «Vieni, Daniel. Vediamo se la mia asina, laggiù in fondo alla grotta, può regalarci un po’ del suo latte buono e nutriente per riprenderci dalle fatiche di questa notte!».
Munse la bestia, riempiendo una capiente scodella. E infine sistemò tutto su una coperta stesa ai piedi di sua moglie. Finalmente tutti poterono sedersi di fronte a quella tavola improvvisata.
«Grazie… Che il Signore ti protegga, Aaron ben Amos! Sei arrivato giusto in tempo…»
La voce di Myriam, così come il suo viso stanco, rifletteva tutta la tensione e la fatica accumulate in quella che sicuramente era stata una lunga e difficile giornata. Aiutata dal marito, la puerpera, a malapena portò alla bocca la scodella del latte, bevendone pochi sorsi. Ma ci pensò Daniel a fare onore a quel semplice cibo. Il bambino, affamato dopo la nottata insonne, divorò gran parte della cena, lasciandone solo le briciole ai due uomini. Nel frattempo anche il neonato si era svegliato e aveva iniziato a manifestare, piangendo a pieni polmoni, tutto il suo appetito. Non si placò finché Myriam non gli porse il seno. Poi, schioccando le labbra, il piccolo si calmò. Il silenzio scese finalmente sulla grotta di Beit Lechem.
«Come si chiama?», Daniel finì di mangiare e, curioso, si mise a osservare il neonato che sembrava essersi finalmente addormentato.
«Yeshua… Significa Adonai è salvezza, è un bel nome, non ti pare?»
Myriam gli sorrise. Accoccolato vicino alla donna, scaldato dal tepore del fuoco e sazio di buon cibo, anche il bambino ben presto si assopì, sfinito da mille emozioni.
«Vieni Aaron, parliamo un po’… Approfittiamo del fatto che finalmente tutti riposano per ricordare i vecchi tempi. Sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo incontrati. E ho bisogno di fare due chiacchiere con un vero amico…»