Capitolo III

1464 Words
Capitolo III “ E così ormai sei laureato e torni a casa. - disse Nikolàj Petròvič, e ora accarezzava una spalla ora un ginocchio di Arkàdij - Finalmente!” “ E lo zio? Sta bene?” chiese Arkàdij che, nonostante provasse una gioia sincera e quasi puerile, avrebbe voluto che la conversazione fosse meno commossa e un po' più usuale. “ Sta bene. Voleva venirti incontro anche lui, poi, non so perché, ha cambiato idea.” “ Hai aspettato molto?” “ Eh sì, quasi cinque ore.” “ Povero papàša.” Arkàdij si voltò, con un gesto spontaneo e vivace, e baciò rumorosamente suo padre su una guancia. Nikolàj Petròvič sorrise. “Vedrai che bel cavallo ti ho preparato! E ho fatto anche mettere la tappezzeria in camera tua.” “ C'è una camera per Bazàrov?” “ La troveremo.” “ Ti prego, papà, trattalo con affetto, non so dirti quanto mi sia cara la sua amicizia.” “ È da poco che lo conosci, vero?” “ Sì, da poco.” “ Ecco perché non l'ho visto l'inverno scorso. Che cosa studia?” “ La sua materia sono le scienze naturali, ma sa tante altre cose. L'anno prossimo vuol dare gli esami per diventare medico.” “ Ah, frequenta la facoltà di medicina. - disse Nikolàj Petròvič, e poi tacque per un momento. - Pëtr, non sono i nostri contadini, quelli?” aggiunse indicando la campagna. Pëtr diede un'occhiata nella direzione indicata dal padrone. Alcuni carri, trainati da cavalli a briglia sciolta, correvano lungo una strada stretta. Su ogni carro c'erano uno o due contadini, col cappotto di montone sbottonato. “ Sì, signore.” rispose Pëtr. “ Dove vanno? In città?” “ Sì, sembra che vadano proprio in città. All'osteria.” disse Pëtr con disprezzo, e si chinò verso il cocchiere a cercare la sua approvazione, ma il cocchiere non si mosse, era un uomo all'antica, che non condivideva le idee nuove. “ Quest'anno i contadini mi danno molte noie. - proseguì Nikolàj Petròvič, rivolto al figlio - Non pagano il canone, ma che cosa ci posso fare?” “ E dei salariati sei contento?” “ Sì. - rispose Nikolàj Petròvič, a denti stretti - Ma si fanno montare la testa; questo è il guaio, sono svogliati e rovinano gli attrezzi. Però hanno arato abbastanza bene. Ci vuol pazienza, miglioreranno col tempo. Ma, adesso, Arkàdij, t'interessi della campagna?” “ Non c'è ombra, peccato!” osservò Arkàdij, senza rispondere all'ultima domanda. “ Sul lato della casa che dà verso nord ho fatto mettere una tenda sul balcone, così ora si può pranzare all'aperto.” disse Nikolàj Petròvič. “ Sembrerà troppo una villa... ma non è questo che importa. Che aria buona c'è! Che profumo! In nessun altro posto al mondo mi sembra che ci sia tanto profumo. Anche il cielo...” Arkàdij s'interruppe, si diede una rapida occhiata alle spalle e tacque. “ Sei nato qui, - disse Nikolàj Petròvič - ed è naturale che tutto ti sembri particolarmente bello.” “ No, papà, non importa dove si è nati.” “ Però...” “ Credimi, non importa dove si è nati.” Nikolàj Petròvič guardò il figlio con la coda dell'occhio e il calesse percorse mezza versta prima che riprendessero a parlare. “ Non mi ricordo se te l'ho scritto, - disse infine Nikolàj Petròvič - ma la tua cara njanja Egòrovna è morta.” “ Davvero? Poverina! E Prokòfjič è vivo?” “ Sì, ed è sempre lui. Brontola come prima. Non troverai molti cambiamenti a Mar'ìno [4] .” “ Hai sempre lo stesso fattore?” “ No, il fattore l'ho sostituito. Ho deciso di non tenere più i servi affrancati che erano già con noi, o almeno di non affidargli lavori di responsabilità.” (Arkàdij indicò con gli occhi Pëtr.) “Il est libre en effet - osservò a bassa voce Nikolàj Petròvič - ma è un cameriere. Ora ho un fattore che appartiene alla piccola borghesia, sembra abbastanza bravo. Gli ho assegnato uno stipendio di duecentocinquanta rubli all'anno.” concluse Nikolàj Petròvič passandosi una mano sulla fronte e sulle sopracciglia, come faceva quando era turbato da qualche preoccupazione. “ Ti ho detto che non troverai niente di cambiato a Mar'ìno... ma, forse, non è del tutto esatto... credo che sia mio dovere avvertirti, anche se... - s'interruppe e proseguì in francese: - Credo che un rigido moralista giudicherebbe inopportuna la mia sincerità, ma prima di tutto non è una cosa che si possa tener nascosta, e poi tu sai che ho sempre avuto i miei principi per quanto riguarda i rapporti tra padre e figlio. Tu hai, in ogni caso, il diritto di giudicarmi. Alla mia età... Insomma, quella ragazza della quale avrai forse già sentito parlare...” “ Fenečka?” disse Arkàdij con disinvoltura. Nikolàj Petròvič arrossì. “Non nominarla ad alta voce, per favore. Beh, sì... ora vive con me... l'ho sistemata in casa... c'erano due stanzette libere. Si può ancora cambiare...” “ Ma no, perché?” “ Avremo ospite il tuo amico... è imbarazzante...” “ Non devi preoccuparti per Bazàrov, è al di sopra di queste cose.” “ Ma anche per te... purtroppo il padiglione è in cattive condizioni...” “ Ti prego, papà, - lo interruppe Arkàdij - mi sembra che tu ti voglia giustificare, non ti vergogni?” “ È vero, mi devo vergognare.” rispose Nikolàj Petròvič, arrossendo ancora di più. “ Basta, per carità, basta.” Arkàdij sorrise affettuosamente. Di che cosa si vuol giustificare, pensò e provò una tenerezza indulgente per quel padre così mite e buono e, insieme, un oscuro senso di superiorità. “ Basta, per piacere.” ripeté, deliziandosi involontariamente del proprio spirito libero e spregiudicato. Nikolàj Petròvič lo guardò attraverso le dita della mano, che seguitava a passarsi sulla fronte, e sentì una fitta al cuore, ma ne attribuì la responsabilità solo a se stesso. “ Ecco, si vedono già i nostri campi.” disse, dopo un lungo silenzio. “ E quello davanti a noi non è il nostro bosco?” “ Sì, è il nostro, ma l'ho venduto. Quest'anno lo abbatteranno.” “ Perché l'hai venduto?” “ Avevo bisogno di denaro, e poi questa terra tocca ai contadini.” “ Che non ti pagano il canone.” “ È un altro discorso. Prima o poi pagheranno.” “ Peccato per il bosco.” osservò Arkàdij, guardandosi intorno. I luoghi che attraversavano non si sarebbero potuti definire ameni. Una distesa sconfinata di campi si perdeva fino all'orizzonte, ora leggermente in salita ora in discesa, a tratti apparivano piccoli boschi o si aprivano burroni coperti di cespugli radi, bassi, così tipici che, guardandoli, si pensava subito alle antiche carte di Caterina II. S'incontravano anche brevi fiumi dalle sponde erbose, piccoli stagni con le chiuse malandate, villaggi di casupole basse con i tetti scuri, spesso semidistrutti dal vento; capannoni per la trebbiatura sbilenchi, con le pareti di rami secchi intrecciati e la porta come una bocca spalancata sulle aie deserte; chiesette di mattoni con l'intonaco scrostato, o di legno, con le croci storte e, accanto, il cimitero lasciato nell'abbandono. Arkàdij si sentiva, a poco a poco, stringere il cuore. I contadini che incontravano, quasi a confermare il suo stato d'animo, avevano abiti stracciati, i loro cavalli erano macilenti e i salici ai lati della strada, con i rami spezzati e la corteccia lacera, sembravano mendicanti cenciosi; mucche magre, denutrite, col pelo ispido, brucavano avidamente l'erba lungo i fossi e sembrava che fossero sfuggite in quel momento a micidiali, misteriosi artigli. Lo spettacolo miserando di quegli animali stremati richiamava alla mente, in quella bella giornata di primavera, il fantasma bianco, sconsolato, senza fine, dell'inverno, con le tormente, il gelo, la neve... No, pensava Arkàdij, non è ricca questa regione, non c'è abbondanza né operosità, non si deve lasciarla così, sono necessarie delle riforme... ma come fare, da dove cominciare? Intorno ad Arkàdij, assorto in queste meditazioni, la primavera rivendicava i suoi diritti. Tutto, intorno, brillava di un verde dorato, ondeggiava mollemente a perdita d'occhio, riluceva sotto l'alitare tranquillo di un vento tiepido: gli alberi, i cespugli, l'erba. Le allodole diffondevano il loro interminabile trillo vibrante, i passeri ora gridavano, volando bassi sui prati, ora saltavano silenziosi da una zolla all'altra; le cornacchie grigie spiccavano, scure, nel verde tenero del grano ancora basso, sparivano nella segala che cominciava a diventare bianca e solo a tratti le loro testoline sbucavano tra i vapori di quelle onde. Arkàdij guardava, guardava, e a poco a poco i suoi pensieri si disperdevano e lo abbandonavano. Si tolse il cappotto e si rivolse a suo padre con un'espressione così allegra e infantile che Nikolàj Petròvič lo abbracciò di nuovo. “ Siamo quasi arrivati. - disse - Dalla cima di quella collinetta si vedrà già la nostra casa. Staremo bene insieme tu ed io, Arkàdij. Se vorrai, potrai aiutarmi a dirigere i lavori della campagna. Dovremo imparare a conoscerci, a capirci, vero?” “ Certo! - esclamò Arkàdij - Ma che bella giornata!” “ È per il tuo arrivo, anima mia, che la primavera si mostra in tutto il suo splendore. Io penso come Puškin. Ti ricordi dell'Evgènij Onègin? Com'è triste per me la tua comparsa Primavera, stagione dell'amore!” “ Arkàdij!” dalla carrozza arrivò la voce di Bazàrov. “ Mandami un fiammifero, devo accendere la pipa.” Nikolàj Petròvič tacque e Arkàdij, che l'aveva ascoltato stupito, ma compiaciuto, si affrettò a togliersi di tasca una scatoletta d'argento con i fiammiferi e la diede a Pëtr perché la portasse a Bazàrov. “ Vuoi un sigaro?” gridò di nuovo Bazàrov. “ Sì, dammelo.” rispose Arkàdij. Pëtr tornò e gli diede, insieme alla scatoletta, un grosso sigaro nero che Arkàdij accese subito, diffondendo attorno a sé un odore acre di tabacco forte e stagionato. Nikolàj Petròvič, che non aveva mai fumato in vita sua, fu costretto, con discrezione per non mortificare il figlio, a voltare la testa dall'altra parte. Un quarto d'ora più tardi le due vetture si fermavano davanti alla scala di una casa di legno, nuova, dipinta di grigio, con il tetto in ferro rosso. Era Mar'ìno, detta anche Nòvaja Slobòdka, villaggio nuovo, oppure, come dicevano i contadini, Pobìlij Chùtor, La Masseria dei Diseredati.
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