I. Il salone-2

2778 Words
In mezzo alla sala, proprio di fronte alla porta maggiore, era stata allestita una pedana ricoperta di broccato d’oro, al quale faceva da ingresso una finestra del corridoio della camera dorata, destinata agli invitati fiamminghi e agli altri personaggi di rilevo, invitati alla rappresentazione del Mistero. Questo doveva essere recitato, come usanza, sulla tavola di marmo appositamente predisposta fin dal mattino. Sulla superficie di questo marmo, tutta segnata dai tacchi dei membri della comunità degli scrivani di Palazzo, stava appoggiata un’armatura di legno a forma di gabbia, abbastanza alta, la cui superficie superiore, visibile dall’intera sala, doveva servire da teatro, mentre l’interno, tutto ricoperto di tappezzerie, fungeva da camerino per i personaggi della rappresentazione. Una scala, ingenuamente posta al di fuori, doveva collegare la scena con il camerino e offrire i suoi ripidi gradini sia alle entrate che alle uscite degli attori; tutti dovevano passare per quella scala. Innocente e venerabile infanzia dell’arte e delle macchine di scena! Quattro guardie del balì del Palazzo, sorveglianti indispensabili di tutti i divertimenti del popolo, tanto nei giorni di festa che nelle esecuzioni capitali, stazionavano in piedi ai quattro angoli della tavola di marmo. Lo spettacolo sarebbe cominciato solo quando il grande orologio del palazzo avrebbe suonato il dodicesimo tocco del mezzogiorno. In effetti era piuttosto tardi per una rappresentazione teatrale, ma era stato necessario attenersi all’orario degli ambasciatori. Ora tutta quella folla era là in attesa fin dal mattino. Buona parte di quella brava gente era rimasta lì, davanti alla grande scala del Palazzo, a tremare dal freddo fin dall’alba; alcuni affermavano persino di aver passato la notte addossati alla porta maggiore, per essere sicuri di entrare tra i primi. La folla si faceva più fitta di momento in momento e, come un’acqua che supera il livello, cominciava ad arrampicarsi lungo le pareti, a far ressa intorno ai pilastri, a straripare sugli architravi, sulle cornici, sui davanzali, sulle sporgenze architettoniche, su tutti i rilievi delle sculture. In tal modo, il fastidio, l’impazienza, la noia e la libertà di una giornata di follia, le risate che esplodevano anche per i pretesti più insignificanti, o per un gomito appuntito o per una scarpa ferrata, insieme alla stanchezza della lunga attesa, davano già, molto prima dell’arrivo degli ambasciatori, un tono aspro e amaro al rumore prodotto da quel popolo imbottigliato, incastrato, schiacciato, calpestato e soffocato. Non si sentivano che lamenti e imprecazioni contro i fiamminghi, il cardinale di Borbone, il prevosto dei mercanti, la principessa Margherita d’Austria, le guardie armate, il freddo, il caldo, il cattivo tempo, il vescovo di Parigi, il papa dei matti, i pilastri, le statue, questa porta chiusa, quella finestra aperta; il tutto con gran divertimento dei gruppi di studenti e di lacchè disseminati tra la folla, i quali univano a tutto quel malcontento i loro scherzi e i loro dispetti, ed eccitavano a colpi di spillo, per dir così, il cattivo umore generale. Fra gli altri c’era un gruppo di questi allegri demoni che, dopo aver sfondato i vetri di una finestra, avevano avuto il fegato di sedersi sull’architrave e da lassù gettavano di volta in volta i loro sguardi e le loro frecciate all’interno e all’esterno, sulla folla della sala e su quella della piazza. Dalle loro smorfie parodistiche, dalle loro risate sonore, dai richiami beffardi che si scambiavano da un’estremità all’altra della sala con i loro compagni, si capiva facilmente che quei giovani studenti non condividevano la noia e la stanchezza del resto del pubblico e che sapevano benissimo, per il loro piacere personale, trovare in quello che avevano sotto gli occhi, uno spettacolo che permetteva di attendere pazientemente l’altro. «Sull’anima mia, siete voi, Jean Frollo du Mulin!», gridava uno di loro ad una specie di diavoletto biondo, dal viso grazioso e maligno, appollaiato su un capitello. «Vi sta a pennello il nome di Jean del Mulino, visto che avete braccia e gambe che sembrano davvero quattro pale che vanno con il vento. Da quanto tempo siete qui?». «Per la misericordia del diavolo!», rispose Jean Frollo, «sono più di quattro ore e voglio sperare che mi saranno contate nel mio periodo di purgatorio. Ho sentito gli otto cantori del re di Sicilia intonare il primo versetto della messa cantata delle sette nella Sainte-Chapelle». «Bei cantori!», riprese l’altro, «hanno la voce più acuta del loro berretto! Prima di istituire una messa al signor Saint Jean, il re avrebbe fatto bene ad informarsi se al signor Saint Jean piaccia il latino salmodiato con accento provenzale». «L’ha fatto per utilizzare questi maledetti cantori del re di Sicilia!», gridò con acredine una vecchia tra la folla sotto la finestra. «No, dico: mille lire parigine per una messa! E garantite sui proventi del mercato del pesce, per di più!». «Zitta, vecchia!», si intromise un grosso e serio personaggio che si tappava il naso vicino alla pescivendola. «Bisognava pure far dire una messa. Volevate forse che il re si ammalasse di nuovo?». «Ben detto davvero, messer Gilles Lecornu, mastro pellicciaio del guardaroba del re!», gridò uno studente aggrappato al capitello. Uno scroscio di risa di tutti gli scolari accolse il nome disgraziato. «Ben detto, ser Gilles Lecornu, mastro pellicciaio del guardaroba del re!», gridò uno studente aggrappato al capitello. Il malaugurato nome del povero pellicciaio del guardaroba del re fu accolto da una grande risata di tutti gli studenti. «Lecornu! Gilles Lecornu!», dicevano alcuni. «Cornutus et hirsutus», rispondeva un altro. «Già! Ma certo!», seguitava il demonietto del capitello. «Che cos’hanno da ridere? Gilles Lecornu, fratello di mastro Jean Lecornu, prevosto del palazzo del re, figlio di mastro Mahiet Lecornu, primo custode del bosco di Vincennes, tutti i borghesi di Parigi, tutti sposati di padre in figlio!». L’allegria crebbe. Il grosso pellicciaio, senza dir nulla, si sforzava di sottrarsi agli sguardi puntati su di lui da ogni parte; ma sudava ed ansimava invano: come un cuneo che penetra nel legno, gli sforzi che faceva servivano solo a incastrare più saldamente nelle spalle dei suoi vicini quella sua rubiconda faccia apoplettica, rossa per il dispetto e la collera. Alla fine, un suo vicino, grosso, tarchiato e venerabile come lui, venne in suo aiuto «Orrore! Degli studenti che parlano così ad un borghese! Ai miei tempi li avrebbero fustigati con una fascina con la quale poi li avrebbero bruciati». Tutto il gruppo sbottò: «Ohilà! Chi è quel barbagianni del malaugurio che ha intonato questa solfa?». «Tò, lo riconosco», disse uno. «È mastro Andry Musnier». «Dice così perché è uno dei quattro librai giurati dell’Università!», disse un altro. «Tutto va per quattro a quattro in quella bottega!», gridò un terzo, «le quattro nazioni, le quattro facoltà, le quattro feste, i quattro procuratori, i quattro elettori, i quattro librai». «Ebbene», riprese Jean Frollo, «bisogna far loro il diavolo a quattro». «Musnier, bruceremo i tuoi libri». «Musnier, picchieremo i tuoi servi». «Musnier, faremo la festa alla tua donna». «La buona e grossa madonna Ondarde». «Che è fresca e allegra come se fosse già vedova». «Che il diavolo vi porti!», brontolò mastro Andry Musnier. «Mastro Andry», riprese Jean aggrappato al capitello, «stai un po’ zitto o ti casco sulla testa!». Mastro Andry alzò gli occhi, sembrò misurare per un istante l’altezza del pilastro e il peso di quel burlone, moltiplicò mentalmente il peso per il quadrato della velocità e tacque. Jean, padrone del campo di battaglia, proseguì trionfante: «Lo farei sul serio, sebbene sia fratello di un arcidiacono!». «Che brava gente, questi signori dell’Università! Non hanno fatto rispettare i nostri privilegi nemmeno in un giorno come questo! Insomma, c’è fuoco di gioia e maggio in città, papa dei matti e ambasciatori fiamminghi al Centro; e all’Università, niente!». «Eppure place Maubert è abbastanza grande!», riprese uno degli studenti accampati sul davanzale della finestra. «Abbasso il rettore, gli elettori e i procuratori!», gridò Jean. L’altro continuò: «Stasera bisognerà fare un bel fuoco con i libri di mastro Andry al Champ-Gaillard». «E anche con i leggii degli scrivani!», disse il suo vicino. «E con le mazze dei bidelli!». «E con le sputacchiere dei decani!». «E con gli armadi dei procuratori!». «E con i cassoni degli elettori!». «E con gli sgabelli del rettore!». «Abbasso!», riprese il piccolo Jean come cantando in falsobordone, «abbasso mastro Andry, i bidelli e gli scrivani; i teologi, i medici e gli scrivani; i procuratori, gli elettori e il rettore!». «Ma è proprio la fine del mondo!», mormorò mastro Andry tappandosi le orecchie. «A proposito, ecco il rettore che passa nella piazza!», gridò uno di quelli della finestra. Fu una gara a voltarsi verso la piazza. «È proprio il nostro venerabile rettore mastro Tibaldo?», domandò Jean Frollo du Mulin, che, aggrappato al suo pilastro interno, non poteva vedere quello che accadeva di fuori. «Sì, sì», risposero tutti gli altri, «è lui, è proprio lui, mastro Tibaldo il rettore». E, infatti, era proprio il rettore che si recava in processione con tutti i dignitari dell’Università, incontro all’ambasceria e in quel momento stava attraversando la piazza del Palazzo. Gli studenti, pigiati alle finestre, accolsero il suo passaggio con lazzi e applausi ironici; il rettore, che camminava in testa alla fila, assaggiò la prima scarica; che fu violenta. «Buongiorno, signor rettore! Ohilà! buongiorno dunque!». «Come fa ad esser qui quel vecchio giocatore? ha per caso lasciato i suoi dadi?». «Come trotta sulla sua mula! Ha le orecchie meno lunghe di lui!». «Ohilà, buongiorno, signor rettore Tibaldo! Tybaldo il giocatore di dadi! Hei, vecchio imbecille!». «Che Dio ve la mandi buona! avete fatto spesso un doppio sei stanotte?». «Oh! che faccia cadente, plumbea, creata e stampata apposta per l’amore del gioco e dei dadi!». «Dove andate così, Tybalde dei dadi, voltando le spalle all’Università e trottando verso il Centro?». «Va sicuramente a cercare un alloggio in rue Thibautodé», gridò Jean du Mulin. Tutta la compagnia ripeté il gioco di parole con voci tonanti e con furiosi battimani. «Andate a cercare alloggio in rue Thibautodé, non è vero signor rettore, per giocare una partita col diavolo?». Poi fu il turno degli altri dignitari. «Abbasso i bidelli! abbasso i mazzieri!». «Di’ un po’, Robin Poussepain, chi è quello laggiù?». «È Gilbert de Suilly, Gilbertus de Soliaco, il cancelliere del collegio di Autun». «Tieni, ecco la mia scarpa. Tu che sei più avanti, tiragliela in faccia». «Saturnalitias mittimus ecce nuces». «Abbasso i sei teologi con le loro cotte bianche!». «Quelli sono i teologi? Li avevo presi per le sei oche bianche date da Sante Genevieve alla città, per il feudo di Roogny». «Abbasso i medici!». «Abbasso le dispute cardinali e le cavillerie!». «Prenditi sul muso il mio berretto, cancelliere di Sainte-Geneviève! Mi hai fatto una prepotenza! È vero! Ha dato il mio posto nella nazione di Normandia al giovane Ascanio Falsaspada, che è della provincia di Bourges, dal momento che è italiano». «È un’ingiustizia», dissero tutti gli studenti. «Abbasso il cancelliere di Sainte-Geneviève!». «Ohé! mastro Joachim de Ladehors! Ohé! Louis Dahuille! Ohé! Lambert Hoctement!». «Che il diavolo si porti il procuratore della nazione di Germania!». «E i cappellani della Sainte-Chapelle, con le loro stole grigie; c*m tunicis grisis!». «Seu de pellibus grisis fourratis!». «Ohilà! Dottori in filosofia! Quante belle cappe nere! Quante belle cappe rosse!». «Ha proprio un bel seguito il rettore!» «Sembra un doge di Venezia che va a sposare il mare». «Guarda un po’, Jean! i canonici di Saintae Genevieve!». «Al diavolo la canonicheria!». «Abate Claude Choart! dottor Claude Choart! Cercate forse Maria la Sfrontata?». «È in via de Glatigny». «Sta preparando il letto al re delle sgualdrine». «E paga la sua tassa di quattro denari; quatuor denarios». «Aut unum bombum». «Volete che vi paghi in contanti?». «Compagni! Ecco là mastro Simone Sanguin, l’elettore di Piccardia, con la moglie in groppa». «Post equitem sedet atra cura». «Forza, mastro Simone!». «Buongiorno, signor elettore!». «Buonanotte, signora elettrice!». «Come sono felici di vedere tutto questo!», diceva sospirando Jean du Mulin, sempre appollaiato fra le foglie del suo capitello. Intanto il libraio giurato dell’Università, mastro Andry Musnier, si chinava all’orecchio di mastro Gilles Lecornu, il pellicciaio del guardaroba del re. «Vi dico, signore, che è la fine del mondo. Non si sono mai viste simili sfrontatezze da parte degli studenti, queste sono le maledette invenzioni del secolo che rovinano tutto. Le artiglierie, le colubrine, le bombarde, e soprattutto la stampa, quest’altra peste che viene dalla Germania. Non ci sono più manoscritti, niente più libri da copiare: la stampa uccide l’amanuense. È la fine del mondo che si avvicina». «Io me ne accorgo bene dal successo delle stoffe di velluto», disse il pellicciaio. In quel momento suonò mezzogiorno. «Oh!...», esclamò tutta la folla ad una sola voce. Gli studenti rimasero in silenzio. Poi ci fu un grande ondeggiamento, un gran movimento di piedi e di teste, un’esplosione generale di colpi di tosse e di soffiate di naso: tutti si ricomposero, si sistemarono, si alzarono sulla punta dei piedi; poi si fece un gran silenzio e tutti rimasero a bocca aperta, col collo teso, lo sguardo rivolto verso la tavola di marmo. Ma non apparve niente. Le quattro guardie del balì erano sempre lì, rigide e immobili come quattro statue dipinte. Allora tutti gli sguardi si girarono verso il palco riservato agli invitati fiamminghi. La porta rimaneva chiusa e il palco vuoto. Quella folla aspettava fin dal mattino tre cose: mezzogiorno, l’ambasciata di Fiandra, il mistero. Soltanto mezzogiorno era arrivato in orario. Questo era davvero troppo! Aspettarono uno, due, tre, cinque minuti: niente. Il palco era sempre deserto e il teatro muto. Intanto, l’impazienza aveva ceduto il posto alla collera; circolavano parole irritate, anche se a bassa voce. «Il mistero! il mistero!», si mormorava in sordina. Le teste si accaldavano. C’era una gran tempesta che ondeggiava minacciosa sopra quelle teste, una tempesta che, per ora, si limitava a brontolare come in lontananza. La prima scintilla fu provocata da Jean du Mulin. «Il mistero, e al diavolo i Fiamminghi!», esclamò con tutta la forza dei polmoni, attorcigliandosi come un serpente intorno al suo capitello. La folla batté le mani, ripetendo: «Il mistero e vada all’inferno la Fiandra!». «Vogliamo subito il mistero», riprese lo studente, «altrimenti finirà che come commedia morale impiccheremo il balì del Palazzo». «Ben detto», gridò il popolo, «cominciamo con l’impiccare le guardie!». Scoppiò un grande applauso. Quei quattro poveri diavoli di soldati cominciavano ad impallidire e a guardarsi tra loro. La folla cominciava a muoversi verso di loro e quelli vedevano che la debole barriera di legno che li proteggeva stava già cominciando ad incurvarsi sotto la pressione della calca. La situazione era grave. «Addosso! Addosso!», gridavano tutti. In quella, la tappezzeria del camerino che abbiamo descritto precedentemente si sollevò e lasciò passare un personaggio la cui sola vista fermò improvvisamente la folla, e riuscì a trasformare la collera in curiosità. Silenzio! silenzio! Il personaggio, poco rassicurato e, facendo molte riverenze, avanzò tutto tremante fino all’orlo della tavola di marmo, e, man mano che si avvicinava, quelle riverenze somigliavano sempre più a genuflessioni. Intanto la calma si era gradualmente ristabilita. Si udiva solo quel lieve brusio che si può udire sempre in una folla silenziosa. «Signori borghesi», disse, «e signore borghesi, avremo l’onore di declamare e rappresentare di fronte a sua eminenza il cardinale una bellissima commedia morale, intitolata: Il buon giudizio di Nostra Signora la Vergine Maria. Io interpreto la parte di Giove. Sua eminenza in questo momento accompagna l’ambasceria onorevolissima di monsignore il duca d’Austria, la quale, in questo momento, si è trattenuta ad ascoltare l’arringa del signor rettore dell’Università, alla Porta Baudets. Cominceremo non appena sarà arrivato l’eminentissimo cardinale». Sicuramente l’intervento di Giove era il minimo che ci voleva per salvare le quattro malcapitate guardie del balì del Palazzo. Se avessimo la fortuna di aver inventato questa veridica storia, e quindi di esserne responsabili dinanzi a Nostra Signora la Critica, non è contro di noi che ora si potrebbe invocare il classico precetto: Nec deus intersit. (Neanche Dio interviene). Del resto, il costume del signor Giove era bellissimo ed era stato decisivo per calmare la folla, attirando tutta la sua attenzione. Giove era vestito con un giaccone coperto di velluto nero e con bottoni dorati; in testa aveva un cimiero guarnito di borchie scintillanti; e se non fosse stato per il belletto e la grande barba che gli coprivano quasi tutto il viso, se non fosse stato per il rotolo di cartone dorato che aveva in mano, pieno di guarnizioni e filettato di strisce metalliche e nel quale un occhio esercitato poteva facilmente riconoscere la folgore, se non fosse stato, infine, per i suoi piedi color carne con legacci alla greca, per la solennità del costume avrebbe potuto sostenere il confronto con un arciere bretone del corpo del signore di Berry.
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