II. Il pozzo dell’orroreVon Horst, steso in quella tetra caverna della morte, contemplava la sua situazione e desiderava di essere morto quando aveva avuto l’opportunità e il potere di togliersi la vita. Ora era impotente. L’orrore della sua situazione cresceva in lui fino a fargli temere di impazzire. Cercò di muovere una mano, ma era come se non avesse mani. Non riusciva a sentirle, né qualsiasi altra parte del suo corpo al di sotto del collo. Sembrava solo una testa che giaceva nella terra, cosciente ma impotente. Ruotò il capo da un lato. Era stato posto all’estremità della fila di corpi a un lato dello spazio che era stato lasciato nel cerchio. Di fronte a lui giaceva il corpo di un uomo. Girò la testa nell’altra direzione e vide che giaceva vicino al corpo di un altro uomo; poi la sua attenzione fu attirata da uno scricchiolio e da un martellamento nella direzione opposta. Di nuovo girò la testa in modo da poter vedere cosa viveva in questa sala di morte. I suoi occhi furono attratti da una delle sfere color avorio che giaceva quasi direttamente dietro il corpo al lato estremo del varco. La sfera si muoveva avanti e indietro. Suoni sembravano provenire dal suo interno. Diventarono più forti, più insistenti. La sfera oscillava e si muoveva; poi apparve una crepa, un buco frastagliato sulla sua superficie, e una testa spuntò. Era una miniatura dell’orribile testa della creatura che lo aveva portato qui. Ora il mistero delle sfere era risolto: erano le uova del grande rettile marsupiale; ma i corpi?
Von Horst, affascinato, osservava la terribile creaturina che si faceva strada dal suo uovo. Alla fine, con successo, rotolò fuori sul pavimento del cratere, dove rimase inerte per qualche tempo, come se si riposasse dopo tutte quelle fatiche. Poi cominciò a muovere gli arti, provandoli a tentoni. Presto si alzò sulle quattro zampe; poi si mise a sedere dritto sulla coda e spiegò le ali. Le sbatté dapprima debolmente, poi vigorosamente per un momento. Fatto questo, piombò sul suo guscio aperto e lo divorò. Sparito il guscio, si girò senza esitazione verso il corpo dell’uomo al lato opposto del varco. Mentre vi si avvicinava, von Horst inorridì nel vedere la testa girarsi verso la creatura, gli occhi spalancati dal terrore. Con un ruggito sibilante la piccola creatura ripugnante balzò sul corpo, e contemporaneamente un urlo penetrante di terrore proruppe dalle labbra dell’uomo che von Horst aveva creduto morto. Gli occhi pieni di orrore, i muscoli contorti del viso riflettevano i folli sforzi del cervello per far muovere i centri nervosi paralizzati, per costringerli a reagire alla volontà di fuga. Era così evidente lo sforzo di rompere i legami invisibili che lo trattenevano che sembrava inevitabile che dovesse riuscirci, ma la paralisi era troppo completa per essere superata.
L’orribile pulcino cadde sul corpo e cominciò a divorarlo; e sebbene la vittima forse non sentiva alcun dolore, le sue grida e i suoi gemiti continuarono a riverberare d’orrore finché, di lì a poco, le altre creature che attendevano, senza dubbio, un destino simile alzarono le loro voci in una cacofonia di terrore. Ora, per la prima volta, von Horst si rese conto che tutte quelle creature erano vive, paralizzate come lui. Chiuse gli occhi per escludere quella vista raccapricciante, ma non riuscì a chiudere le orecchie al frastuono abominevole e straziante.
Poi girò la testa dal rettile che mangiava, verso l’uomo che giaceva alla sua destra, e aprì gli occhi. Vide che l’uomo non si era unito al coro spaventoso e che lo guardava con occhi fermi e attenti. Era un giovane uomo con capelli neri come il carbone, occhi sottili e lineamenti regolari. Aveva un’aria, un’aria di forza e di tranquilla dignità, che attraeva von Horst; ed era anche favorevolmente impressionato, perché l’uomo non aveva ceduto all’isteria del terrore che aveva colto gli altri detenuti della camera. Il giovane tenente gli sorrise. Per un istante una debole espressione di sorpresa tinse il volto dell’altro; poi anche lui sorrise. Parlò allora, rivolgendosi a von Horst in una lingua che non era comprensibile all’europeo.
— Mi dispiace — disse von Horst — ma non riesco a capirti. — Poi fu il turno dell’altro di scuotere la testa negando la comprensione.
Nessuno dei due poteva capire il discorso dell’altro; ma avevano sorriso l’uno all’altro, e avevano un legame comune nell’attesa di un destino comune. Von Horst sentì di non essere più solo, quasi di aver trovato un amico. Faceva una grande differenza quell’esile contatto umano, anche nella disperazione della sua situazione. In confronto a ciò che aveva provato in precedenza, era quasi soddisfatto.
La volta successiva che guardò nella direzione del rettile appena uscito dall’uovo, il corpo della vittima era stato interamente divorato; non era rimasto nemmeno un osso, e con lo stomaco gonfio la cosa strisciò nella macchia rotonda di luce solare brillante sotto l’apertura del cratere e si raggomitolò per dormire.
Le vittime erano ricadute nel silenzio e giacevano di nuovo come se fossero morte. Il tempo passava; ma quanto tempo, von Horst non poteva nemmeno indovinare. Non sentiva né fame né sete, un fatto che attribuiva alla sua paralisi; ma di tanto in tanto dormiva. Una volta fu svegliato da un battito d’ali, e alzò lo sguardo per vedere la bestia volare attraverso il cratere che si apriva dal nido d’orrore in cui era stato covato.
Dopo un po’ arrivò l’adulto con un’altra vittima, un’antilope; e allora von Horst vide come lui e le altre creature erano stati paralizzati. Tenendo l’antilope all’altezza della sua grande bocca, il rettile le trafisse il collo alla base del cervello con la punta aguzza della lingua; poi depositò la creatura inerme alla sinistra di von Horst.
In questo vuoto senza tempo di morte vivente non c’era modo di determinare se ci fosse una qualche regolarità di eventi ricorrenti. I pulcini uscivano dai loro gusci, li mangiavano, divoravano la loro preda (sempre sul bordo estremo del varco alla sinistra di von Horst), dormivano alla luce del sole e volavano via, apparentemente per non tornare mai più; l’adulto arrivava con nuove vittime, le paralizzava, le deponeva sul bordo del varco più vicino a von Horst e se ne andava. Lo spazio vuoto si spostava costantemente verso sinistra; e così facendo, von Horst si rese conto che il suo inevitabile destino si stava avvicinando sempre di più.
Lui e l’uomo alla sua destra si scambiavano occasionalmente dei sorrisi, e a volte ognuno parlava nella propria lingua. Il semplice suono delle loro voci che esprimevano pensieri che l’altro non poteva capire era amichevole e confortante. Von Horst desiderava che potessero conversare; quante eternità di solitudine avrebbe alleviato! Lo stesso pensiero doveva essere stato spesso nella mente dell’altro, e fu lui che per primo cercò di esprimerlo e di superare l’ostacolo che li separava dal pieno godimento della loro compagnia forzata. Una volta, quando von Horst girò gli occhi verso di lui, disse: — Dangar — e cercò di indicare sé stesso piegando gli occhi verso di sé e inclinando il mento verso il petto. Ripeté questo diverse volte.
Finalmente von Horst pensò di averne capito il senso. — Dangar?— chiese, e fece un cenno verso l’altro.
L’uomo sorrise e annuì, poi pronunciò una parola che evidentemente era un’affermazione nella sua lingua. Poi von Horst pronunciò più volte il proprio nome, indicandosi nello stesso modo in cui lo aveva fatto Dangar. Questo fu l’inizio. Dopo di che divenne un gioco di intenso e coinvolgente interesse. Non facevano altro, e nessuno dei due sembrava stancarsi. Di tanto in tanto dormivano; ma ora, invece di dormire quando ne avevano voglia, ognuno aspettava che l’altro desiderasse dormire; così potevano passare tutte le ore di veglia nella nuova e affascinante occupazione di imparare a scambiarsi i pensieri.
Dangar stava insegnando a von Horst la sua lingua; e poiché quest’ultimo padroneggiava già quattro o cinque lingue della crosta esterna, la sua attitudine a impararne un’altra era molto notevole, anche se non c’era alcuna somiglianza tra questa e nessuna delle altre che aveva imparato.
In circostanze ordinarie la procedura sarebbe stata lenta o apparentemente senza speranza; ma con l’incentivo irresistibile della compagnia e l’assenza di elementi di disturbo, a parte quando un pulcino si schiudeva e si nutriva, progredivano con sorprendente rapidità; o così sembrava a von Horst finché non si rese conto che in questo mondo senza tempo potevano essere trascorse settimane, mesi o persino anni di tempo terrestre dalla sua cattura.
Finalmente arrivò il momento in cui lui e Dangar poterono continuare una conversazione con relativa facilità e scioltezza, ma mentre progredivano, il fatidico varco del destino si era insinuato nel cerchio dei morti viventi sempre più vicino a loro. A Dangar sarebbe toccato per primo; poi a von Horst.
Quest’ultimo temeva il primo evento ancor più del secondo, perché con Dangar divorato sarebbe stato di nuovo solo con niente a occupare il tempo o la mente se non l’inevitabile destino che lo aspettava mentre ascoltava lo scoppio del guscio che avrebbe liberato la morte nella sua forma più orribile su di lui.
Alla fine erano rimaste solo tre vittime tra Dangar e lo spazio vuoto. Non ci sarebbe ormai voluto molto tempo.
— Mi dispiacerà lasciarti — disse il pellucidariano.
— Non sarò solo a lungo — gli ricordò von Horst.
— Beh, è meglio morire che rimanere qui, lontano dal proprio paese. Vorrei che fossimo vissuti; allora avrei potuto portarti nella terra di Sari. È una bella terra di colline e alberi e valli fertili; c’è molta selvaggina, e non lontano c’è il grande Lural Az. Sono stato lì nell’isola di Anoroc, dove Ja è il re.
“Ti piacerebbe Sari. Le ragazze sono molto belle. Ce n’è una che mi aspetta ora, ma non tornerò più da lei. Lei sarà addolorata; ma — sospirò — lo supererà, e un altro la prenderà per compagna.
— Vorrei andare a Sari — disse von Horst. Improvvisamente i suoi occhi si allargarono per la sorpresa. — Dangar! Dangar! — esclamò.
— Cosa c’è? — chiese il Pellucidariano. — Cosa succede?
— Posso sentire le mie dita! Posso muoverle! — gridò von Horst. — E anche quelle dei piedi.
— Mi sembra impossibile, Von — esclamò Dangar incredulo.
— Ma è vero! Solo un po’, ma posso muoverli.
— Come lo spieghi? Non sento niente sotto il collo.
— Gli effetti del veleno stanno svanendo. Forse la paralisi passerà del tutto.
Dangar scosse la testa. — Da quando sono qui non ho mai visto passare a una vittima che il Trodon ha punto con la sua lingua velenosa. E se lo facesse? Starai meglio?
— Penso di sì — rispose lentamente von Horst. — Ho avuto molto tempo libero per sognare e pianificare e immaginare cose da quando sono stato imprigionato qui. Ho sognato spesso di essere liberato da questa paralisi e cosa dovrei fare nel caso in cui accadesse. Ho pianificato tutto.
— Ce ne sono solo tre tra te e la morte — gli ricordò Dangar.
— Sì, lo so. Tutto dipende da quanto velocemente arriva la liberazione.
— Ti auguro buona fortuna, Von, anche se non sarò qui a saperlo – ce ne sono solo due tra me e la fine. Si sta avvicinando.
Da quel momento von Horst concentrò tutte le sue facoltà per superare la paralisi. Sentì il bagliore della vita risalire gradualmente le sue membra, ma ancora poteva muovere solo le estremità, e queste solo leggermente.
Un altro Trodon si schiuse, lasciandone solo uno tra Dangar e la morte; e dopo Dangar, sarebbe stato il suo turno. Mentre l’orribile creatura si svegliava dal suo sonno alla luce del sole e si allontanava in volo attraverso l’apertura sulla cima del cono, von Horst riuscì a muovere le mani e a flettere i polsi; anche i suoi piedi erano ora liberi; ma oh, quanto lento, quanto orribilmente lento era il ritorno delle sue facoltà. Poteva il Fato essere così crudele da tenere in serbo questa grande speranza e poi strappargliela al momento della fruizione? Il sudore freddo gli scorreva addosso mentre valutava il da farsi: le probabilità erano così terribilmente contro di lui.
Se solo avesse potuto misurare il tempo, avrebbe conosciuto gli intervalli della schiusa delle uova e farsi così un’idea approssimativa del tempo che gli rimaneva. Era abbastanza sicuro che le uova dovessero schiudersi a intervalli ragionevolmente regolari, anche se non poteva saperlo. Portava un orologio da polso; ma da tempo si era fermato, né avrebbe potuto consultarlo in ogni caso, dato che non poteva sollevare il braccio.
Lentamente la paralisi scomparve fino alle ginocchia e ai gomiti. Poteva piegarli ora, e al di sotto di essi i suoi arti si sentivano perfettamente normali. Sapeva che se gli fosse stato concesso tempo sufficiente, alla fine avrebbe avuto di nuovo il pieno controllo di tutti i suoi muscoli.
Mentre si sforzava di rompere i legami invisibili che lo trattenevano, un altro uovo si ruppe, e poco dopo Dangar giacque senza una creatura alla sua destra: sarebbe stato il prossimo.
— E dopo di te, Dangar, vengo io. Credo che sarò libero prima, ma volevo salvarti.
— Grazie, amico mio — rispose il pellucidariano, — ma sono rassegnato alla morte. La preferisco a vivere come sono ora: una testa attaccata a un corpo morto.
— Non dovresti restare così a lungo, ne sono certo — disse von Horst. — La mia esperienza personale mi convince che alla fine gli effetti del veleno devono esaurirsi. Di solito ce n’è abbastanza per mantenere la vittima paralizzata molto più a lungo del tempo in cui dovrebbe servire da cibo per i piccoli. Se solo potessi liberarmi, potrei salvarti, ne sono sicuro.
— Parliamo di altre cose — disse Dangar. — Non vorrei essere un morto vivente, e nutrire altre speranze può servire solo a rendere più amara la fine inevitabile.
— Come vuoi — disse von Horst, con un’alzata di spalle, — ma non puoi impedirmi di pensare e sentire.
E così parlarono di Sari e della terra di Amoz, da cui era venuta Dian la Bella, e della Terra dell’Ombra Terribile, e delle isole ostili nel Sojar Az; perché von Horst vide che a Dangar faceva piacere ricordare questi luoghi, per lui piacevoli; anche se quando il sariano descrisse le bestie selvagge e gli uomini selvaggi che vi vagavano, von Horst sentì che come luoghi di residenza lasciavano molto a desiderare.
Mentre parlavano, von Horst scoprì che poteva muovere le spalle e i fianchi. Un piacevole bagliore di vita soffuse tutto il suo corpo. Stava per dare la notizia a Dangar quando il fatidico suono della rottura del guscio arrivò contemporaneamente alle orecchie di entrambi.
— Addio, amico mio — disse Dangar. — Noi di Pellucidar raramente abbiamo amici al di fuori delle nostre tribù. Tutti gli altri uomini sono nemici da uccidere o essere uccisi. Sono felice di chiamarti amico. Vedi, la fine arriva!
Il Trodon appena nato aveva già ingoiato il suo guscio e stava guardando Dangar. In un attimo si sarebbe avventato su di lui. Von Horst si sforzò di alzarsi, ma qualcosa sembrava trattenerlo ancora. Poi, con le fauci spalancate, il rettile si avviò verso la sua preda.