Capitolo V A tutto vapore
Per un lungo periodo il viaggio dell’“Abraham Lincoln” continuò senza particolari incidenti, tuttavia si presentò un’occasione che mise in rilievo la meravigliosa abilità di Ned Land, dimostrando quanto egli meritasse la nostra fiducia.
Al largo delle isole Malvine, incrociammo alcuni balenieri americani che ci comunicarono di non avere nessuna notizia sul narvalo.
Ma uno di loro, il comandante della “Monroe”, avendo saputo che Ned Land era imbarcato sull’“Abraham Lincoln”, richiese il suo aiuto per cacciare una balena appena avvistata.
Il comandante Farragut, ben felice di poter vedere all’opera il famoso ramponiere, lo autorizzò a trasbordare sulla “Monroe”.
E il destino fu talmente favorevole al nostro canadese che, anziché una balena, ne arpionò due, colpendo la seconda dritto al cuore, con un doppio lancio effettuato nel giro di pochissimi minuti.
Se il mostro si fosse trovato faccia a faccia con l’arpione di Ned Land, io sicuramente non avrei scommesso per il mostro.
La fregata seguì la costa sud-est dell’America a una velocità prodigiosa e presto raggiungemmo l’imboccatura dello Stretto di Magellano, ma il comandante Farragut non volle percorrere lo stretto e manovrò in maniera da doppiare Capo Horn.
L’equipaggio gli dette ragione all’unanimità, poiché non era probabile incontrare il narvalo in un passaggio angusto: una buona parte dei marinai sosteneva addirittura che il mostro fosse troppo grosso per potervi penetrare.
Doppiato Capo Horn, la parola d’ordine dei marinai fu: “Occhi bene aperti”.
E li aprirono a dismisura, occhi e binocoli, anche, e con la prospettiva dei duemila dollari non si risparmiarono certo: notte e giorno si scrutava attentamente la superficie delle acque.
Superato il Tropico del Capricorno e l’Equatore, la fregata virò risolutamente verso ovest, facendo rotta verso i mari centrali del Pacifico.
Il comandante Farragut pensava con ragione che fosse meglio dirigere la prua verso le acque profonde e allontanarsi dai continenti e dalle isole, ai quali sembrava che l’animale evitasse di avvicinarsi “probabilmente perché non vi era abbastanza acqua per lui”, come affermava il nostromo.
Finalmente arrivammo sul teatro delle prime apparizioni del mostro.
Per tre mesi - tre mesi in cui ogni giorno durava un secolo - l’“Abraham Lincoln” perlustrò tutti i mari settentrionali del Pacifico, rincorrendo segnalazioni di balene, facendo bruschi cambiamenti di rotta, virando improvvisamente, fermandosi di scatto, andando a tutto vapore.
E non tralasciò di esplorare ogni angolo delle coste del Giappone e di quelle americane.
Niente!
Nient’altro che l’immensità deserta dell’oceano!
Niente che potesse nemmeno lontanamente assomigliare a un narvalo colossale né a un’isola sottomarina né a un gigantesco relitto né a uno scoglio fluttuante né a qualsiasi altra cosa che avesse del sovrannaturale.
La conseguenza di ciò era prevedibile: lo scoraggiamento cominciò a impadronirsi degli animi e aperse la strada all’incredulità.
A bordo regnava un nuovo sentimento formato per tre decimi di vergogna e per gli altri sette di rabbia.
Ci si sentiva mortificati per essersi lasciati illudere da una fantasticheria ma anche furiosi.
Le montagne di ragionamenti ammassate per un anno crollavano di colpo e ognuno non sognava che di recuperare nel tempo dei pasti e del sonno quello così stupidamente perduto.
Con la naturale tendenza dello spirito umano a spostarsi da un estremo all’altro, da un eccesso d’entusiasmo si passò a un eccesso di pessimismo e quelli che erano stati i più caldi sostenitori dell’impresa ne divennero i più accaniti detrattori.
La reazione salì dai mozzi e dalla ciurma raggiungendo il quadrato ufficiali e, senza una risoluta presa di posizione del comandante Farragut, la fregata avrebbe indubbiamente ripreso la rotta di ritorno.
Tuttavia non si poteva prolungare all’infinito quell’inutile ricerca.
La fregata non aveva nulla da rimproverarsi, avendo fatto tutto il proprio dovere: mai un equipaggio della marina degli Stati Uniti aveva dimostrato più zelo e più dedizione al dovere.
L’insuccesso non avrebbe potuto essergli imputato.
La logica voleva che si smettesse con le ricerche.
Un rapporto in questo senso fu presentato al comandante, ma egli tenne duro.
I marinai non nascosero il loro malcontento e di conseguenza il servizio ne soffrì: non che ci fosse un ammutinamento a bordo, ma il comportamento degli uomini era tale che a un certo punto il comandante Farragut giudicò opportuno imitare Cristoforo Colombo, chiedendo ancora tre soli giorni di pazienza.
Se alla fine del terzo giorno il mostro non fosse apparso, l’uomo al timone avrebbe cambiato direzione e l’“Abraham Lincoln” avrebbe fatto rotta verso l’Atlantico.
Il patto fu concluso il 2 novembre ed ebbe come risultato di ripristinare l’accuratezza del servizio di bordo.
L’oceano fu scrutato ancora una volta con attenzione e poiché ciascuno voleva dare quell’ultima occhiata con cui riassumere tutti i ricordi delle speranze perdute, i cannocchiali ripresero la loro attività febbrile: era l’ultima sfida al narvalo gigante, il quale, se esisteva, non avrebbe potuto esimersi dal rispondere a una simile “ingiunzione a comparire”.
Passarono due giorni.
L’“Abraham Lincoln” navigava a piccola velocità, impiegando mille trucchi per risvegliare l’attenzione e stimolare l’indifferenza della bestia, nel caso si trovasse da quelle parti.
Enormi pezzi di lardo furono lanciati in mare con vivissima soddisfazione dei pescecani.
Ogni tanto la fregata si fermava mentre le scialuppe si irradiavano da tutte le parti, non tralasciando di esplorare il più piccolo tratto di mare.
Ma la sera del 4 novembre arrivò senza che il mistero fosse svelato.
A mezzogiorno dell’indomani, 5 novembre, scadeva il tempo dell’impegno, dopo di che il comandante Farragut, fedele alla parola data, avrebbe dovuto ordinare di invertire la rotta e abbandonare definitivamente le acque settentrionali dell’Oceano Pacifico.
Quel giorno la fregata si trovava a 31 gradi e 15 primi di latitudine nord e a 136 gradi e 42 primi di longitudine est e le isole del Giappone erano a meno di duecento miglia sottovento.
La notte si avvicinava: la campana di bordo aveva appena battuto le otto.
Grosse nuvole creavano un velo intorno alla luna nel suo primo quarto.
Il mare si frangeva dolcemente contro la carena della nave.
Me ne stavo a prua, con accanto Conseil che guardava davanti a sé.
L’equipaggio, aggrappato ai cavi di sostegno degli alberi della nave, fissava l’orizzonte che si andava oscurando a poco a poco.
Gli ufficiali aggiustavano i loro binocoli, scrutando nelle tenebre crescenti.
A volte l’oscurità dell’oceano si accendeva sotto un raggio che la luna saettava attraverso le frange di due nuvole.
Poi ogni traccia luminosa fu inghiottita dalle tenebre.
Nel silenzio risuonò a un tratto la voce di Ned Land che gridava:
- Ehi! Sottovento, in quella direzione!
A quel grido tutto l’equipaggio si precipitò verso il fiociniere.
Comandante, ufficiali, marinai e mozzi e perfino gli ufficiali di macchina lasciarono il loro posto.
La fregata, avendo il comandante dato l’ordine di fermare le macchine, procedeva solo per il suo abbrivo.
L’oscurità era profonda e io mi domandavo come avesse potuto il canadese vedere qualcosa, per quanto buoni fossero i suoi occhi, e che cosa avesse visto.
Il cuore mi batteva a un ritmo vertiginoso.
Ned Land non si era sbagliato e, un po’ alla volta, tutti scorgemmo l’oggetto che ci indicava con la mano.
Il mare appariva come illuminato da sotto la superficie dell’acqua, ma non era un semplice fenomeno di fosforescenza: su questo non ci si poteva sbagliare.
Era il mostro che, immerso per qualche metro, proiettava quel chiarore intenso e inspiegabile di cui parlavano i rapporti di tanti comandanti di navi e che solo un organo di eccezionale potenza poteva emettere.
La luminescenza disegnava sul mare un grande ovale al cui centro sembrava bruciare un falò che andava gradatamente attenuandosi verso le estremità.
- Può essere un agglomerato di piccoli animali marini fosforescenti - osservò un ufficiale.
- No, no - dissi io.
- Non potrebbero produrre una luce di tale intensità. E indubbiamente è di origine elettrica... Guardate! Si sta spostando, si muove in avanti... Attenzione! Ci viene addosso!
Un coro di grida si levò dal ponte.
- Silenzio! - ordinò il comandante Farragut.
- Barra al vento! Tutta! Macchine indietro a tutta forza!
I marinai si precipitarono al timone, gli ufficiali di macchina sparirono sottocoperta e di lì a un istante l’“Abraham Lincoln”, virando a babordo, descrisse un semicerchio.
- A dritta! Macchine avanti! - ordinò il comandante.
Gli ordini furono subito eseguiti e la fregata si allontanò rapidamente dalla sorgente luminosa.
O meglio, tentò di allontanarsi, perché quell’essere straordinario le si stava avvicinando a velocità molto superiore.
Avevamo il cuore in gola.
Lo stupore, più che la paura, ci rendeva muti.
L’animale guadagnava spazio senza sforzo.
Doppiò la fregata che in quel momento faceva i quattordici nodi e l’avviluppò nei suoi luminosi riflessi come in una ragnatela scintillante, poi si allontanò di due o tre miglia, lasciando una scia di luce.
All’improvviso, dall’oscuro limite dell’orizzonte dove si era portato per prendere lo slancio, il mostro si scagliò contro l’“Abraham Lincoln” a velocità spaventosa, fermandosi bruscamente ad alcuni metri dalla fiancata.
La luce sparì, non come se il mostro si fosse immerso nella profondità dell’oceano, poiché non vi fu alcun abbassamento della luminosità, ma di scatto, come se qualcuno avesse girato la chiavetta di un commutatore.
E subito riapparve all’altro bordo, senza che si potesse capire se doppiando la nave o scivolando sotto la chiglia.
A ogni istante poteva causare una collisione che sarebbe stata fatale.
Ma non pensavo al pericolo, sbalordito com’ero dalle manovre della fregata la quale, anziché attaccare, fuggiva: l’inseguitrice era ora l’inseguita.
Lo feci osservare al comandante Farragut il cui viso, di solito così impassibile, era improntato a un indefinibile sbigottimento.
- Signor Aronnax, non so quale essere formidabile ho di fronte e non voglio rischiare imprudentemente la mia fregata con questa oscurità - disse.
- Non sappiamo come attaccare l’ignoto e come difendercene. Aspettiamo il giorno e forse le parti s’invertiranno.
- Non avete dubbi, comandante, sulla natura dell’animale?
- No, professore: è un narvalo gigantesco e per di più dotato di energia elettrica.
- E se avesse anche il potere di folgorare a distanza, sarebbe il più terribile e pericoloso animale fra quelli creati. Bisogna agire con molta prudenza.
Durante la notte tutto l’equipaggio vegliò: nessuno pensò di andare a dormire.
L’“Abraham Lincoln”, non potendo competere in velocità col mostro, aveva ridotto l’andatura.
Da parte sua, il narvalo sembrava volerne seguire l’esempio e si lasciava cullare dalle onde, apparentemente risoluto a non abbandonare il campo.
Verso mezzanotte, però, scomparve o, più precisamente, si spense come un’enorme lampada.
Fuggito?
Era il nostro timore, non la speranza.
Ma circa un’ora dopo si sentì un fischio assordante, come prodotto da una colonna d’acqua lanciata con estrema violenza.
Il comandante Farragut, Ned Land e io eravamo sul cassero e frugavamo con lo sguardo ansioso la profondità delle tenebre.
- Sicuramente avrete sentito spesso il soffio delle balene disse il comandante a Land.
- Molto spesso, signore, ma mai di balene come questa che mi frutta duemila dollari solo per averla avvistata.
- Naturalmente avete diritto al premio.
Ma dite: questo non è il rumore che producono le balene quando sfiatano?
- Identico, signore, ma questo è molto più forte. Non c’è dubbio: si tratta di un cetaceo. Col vostro permesso, signore, domattina presto andrò a fare due chiacchiere con lui.
- Se vorrà ascoltarvi, caro Ned - disse il comandante con aria piuttosto scettica.
- Lasciate che gli arrivi alla distanza giusta e dovrà ascoltarmi per forza.
- Ma per questo - osservò il comandante - dovrei mettervi a disposizione una baleniera.
- Naturalmente.
- Mettendo a repentaglio la vita dei miei uomini.
- E la mia - rispose il ramponiere pacato.
L’ovale luminoso riapparve verso le due del mattino a circa cinque miglia dalla fregata.
Nonostante la distanza e il rumore del vento e delle onde, si sentivano distintamente i formidabili colpi di coda dell’animale e il suo respiro affannoso.
Sembrava che quando l’enorme narvalo veniva in superficie per respirare, l’aria si ingolfasse nei suoi polmoni come il vapore nei cilindri di una macchina da duemila cavalli.
Hum!, pensai. Una balena che ha la forza di una carica di cavalleria dovrebbe essere proprio un grazioso animaletto.
Restammo in stato d’allerta fino all’alba, preparandoci al combattimento.
Tutta l’attrezzatura per la pesca fu disposta sul ponte.
Il secondo fece caricare cannoncini che potevano lanciare gli arpioni a un miglio di distanza e alcune lunghe colubrine con proiettili esplosivi, micidiali anche per gli animali più resistenti.
Ned Land si era accontentato di affilare il suo arpione, un’arma che nelle sue mani diventava terribile.
Alle sei, l’alba cominciò ad annunciarsi e con le prime luci dell’aurora scomparve la luminescenza del narvalo.
Alle sette era giorno, ma una spessa coltre di nebbia velava l’orizzonte e nemmeno con i migliori binocoli si riusciva a trapassarla.
Alle otto, la nebbia cominciò a sfrangiarsi in pesanti nubi le cui volute si alzarono a poco a poco.
L’orizzonte si allargava, la visibilità diventava sempre migliore.
D’un tratto, proprio come il giorno precedente, si udì la voce di Ned Land.
- Il nostro amico a poppa! - gridò il fiociniere.
Tutti gli sguardi si diressero verso il punto indicato.
Là, a un miglio e mezzo dalla fregata, un lungo corpo nerastro emergeva di un metro dal pelo dell’acqua.
La coda, che si agitava violentemente, produceva un rumore assordante: mai muscoli caudali avevano battuto il mare con tanta violenza.
Un’immensa scia, bianca e turbinosa, segnava il passaggio dell’animale, descrivendo una curva allungata.
La fregata si avvicinò al cetaceo e così potei esaminarlo con tutta tranquillità.
I rapporti della “Shannon” e dell’“Helvetia” ne avevano un po’ esagerato le dimensioni, poiché a mio avviso la sua lunghezza non doveva superare i novanta metri; per quanto riguarda la larghezza, mi era difficile poterla definire, non essendo l’animale completamente emerso, però il corpo mi sembrava molto ben proporzionato.
Mentre lo osservavo, due enormi getti di vapore e di acqua scaturirono dai suoi sfiatatoi salendo fino a 40 metri di altezza, dandomi un’idea della sua grande potenza di respirazione.
Stabilii definitivamente che doveva appartenere alla branca dei vertebrati, classe dei mammiferi, sottoclasse dei monodelfini, gruppo dei pisciformi, ordine dei cetacei, famiglia...
A questo punto non potevo ancora pronunciarmi.
L’ordine dei cetacei comprende infatti tre famiglie: balene, capodogli e delfini, ed è in quest’ultima che sono classificati i narvali.
Ognuna di queste famiglie si suddivide in generi, specie o varietà.
Tutte cose che non potevo ancora stabilire, ma forse, con l’aiuto del Cielo e del comandante Farragut, ci sarei arrivato.
L’equipaggio attendeva con impazienza gli ordini del comandante il quale, dopo aver osservato attentamente il mostro, fece chiamare il direttore di macchina.
- Siamo in pressione? - gli domandò quando l’ebbe di fronte.
- Sì, signore.
- Bene. Forzate, a tutto vapore.
Tre urrà accolsero quell’ordine: l’ora del combattimento era sonata.
Furono sufficienti alcuni secondi perché i comignoli della fregata vomitassero vortici di fumo nero e il ponte fremesse per le vibrazioni delle macchine.
L’“Abraham Lincoln”, spinta in avanti dalla forza della sua elica, puntava dritta sull’animale, il quale si lasciò accostare fino a una mezza gomena, poi, come disdegnando di tuffarsi, cominciò a muoversi, mantenendo la distanza.
L’inseguimento si prolungò per circa tre quarti d’ora, senza che la fregata riuscisse a guadagnare un metro sul cetaceo.
Era evidente che, a quell’andatura, non l’avremmo mai raggiunto.
Il comandante Farragut si torceva con rabbia la lunga barba.
- Ned Land! - chiamò.
Il canadese accorse.
- E allora, signor Land, siete ancora del parere di mettere le scialuppe in mare? - domandò il comandante.
- No, signore - rispose il ramponiere.
- Quella bestiaccia non si lascerà raggiungere che quando lo vorrà. Col vostro permesso, vado ad appostarmi e, se per caso arrivassimo a tiro, l’arpionerò.
- Andate pure, Ned.
Farragut si rivolse al direttore di macchina:
- Forzate la pressione - ordinò.
Ned Land andò ad appostarsi a prua mentre le caldaie venivano portate oltre il limite di sicurezza: avrebbero potuto scoppiare da un momento all’altro; l’elica faceva quarantatre giri al minuto e il vapore fondeva le valvole.
L’“Abraham Lincoln” navigava a una velocità di oltre diciotto miglia l’ora.
Ma quel maledetto animale aumentò a sua volta la propria andatura e dopo un’ora la distanza non era diminuita.
Era umiliante per una delle più veloci navi della marina militare degli Stati Uniti.
Una rabbia sorda serpeggiava tra l’equipaggio che agitava i pugni contro il mostro, lanciando insulti e imprecazioni, mentre il comandante non si limitava più a torcersi la barba: ora se la mordeva.
Quanto al narvalo, appariva del tutto indifferente.
- Abbiamo raggiunto il massimo della pressione? - domandò il comandante al direttore di macchina.
- Sì, signore.
- Le valvole?
- A sei atmosfere e mezzo.
- Portatele a dieci.
Mi rivolsi al mio buon domestico, che mi stava vicino.
- Sai che probabilmente salteremo in aria, Conseil?
- Come il signore desidera.
Confesso che non mi dispiaceva di correre quel rischio pur di effettuare un ultimo tentativo.
Il carbone veniva ingolfato nei forni, i ventilatori mandavano turbini d’aria sui bracieri.
La velocità dell’“Abraham Lincoln” aumentò ancora.
Gli alberi tremavano fin nelle scasse e i fiotti di fumo stentavano a farsi strada attraverso i comignoli diventati stretti.
Il solcometro fu gettato per la seconda volta.
- Diciannove miglia e tre decimi, comandante.
- Forzare ancora.
In sala macchine si obbedì e il manometro superò le dieci atmosfere.
Ma evidentemente anche il mostro “forzò” e prese a filare alla medesima andatura.
Di tanto in tanto si lasciava avvicinare e Ned Land, che era appostato con l’arpione in mano, gridava:
- Eccolo! Ci siamo!
Poi, quando era pronto per il lancio, il narvalo si allontanava a una velocità che non doveva essere inferiore ai trenta nodi.
Una volta, come se volesse deriderci, giunse a girare attorno alla nave, strappando a tutti un grido di rabbia.
A mezzogiorno, dato che la situazione non era cambiata, il comandante Farragut decise di usare mezzi più drastici.
- Così quella bestia è più veloce dell’“Abraham Lincoln”, eh? - disse.
- Vediamo allora se riesce a distanziare anche i proiettili corazzati.
Il cannone fu immediatamente caricato.
Il colpo partì, ma il proiettile passò a circa un metro sopra il narvalo, che si trovava a mezzo miglio da noi.
- Un puntatore più abile! - comandò Farragut.
Cinquecento dollari a chi riuscirà a forare quel bestione d’inferno!
Un vecchio cannoniere dalla barba grigia, con l’occhio tranquillo e l’espressione flemmatica, si avvicinò al pezzo, lo brandeggiò e mirò a lungo.
Risonò una forte detonazione cui si confusero gli evviva dell’equipaggio.
La palla raggiunse il bersaglio, scivolò sul dorso curvo della bestia e andò a perdersi in mare a due miglia di distanza.
- Maledizione! - imprecò il vecchio cannoniere. Quell’accidente lì deve essere blindato con piastre da dieci centimetri!
La caccia ricominciò e il signor Farragut, piegandosi verso di me, mi disse:
- Lo inseguirò fino a far scoppiare le caldaie!
L’unica speranza era che l’animale si stancasse e che non avesse la resistenza di una macchina a vapore. Ma era un pio desiderio. Le ore trascorrevano senza che desse segno di stanchezza.
L’“Abraham Lincoln” lottava con un’infaticabile tenacia: sono sicuro che in quello sciagurato 6 novembre non percorse meno di cinquecento chilometri.
Ma arrivò la notte e avvolse con le sue ombre l’oceano.
A quel punto, ero convinto che la nostra spedizione fosse finita e che non avremmo mai più rivisto il fantastico animale.
Mi sbagliavo: verso le undici, la luce riapparve a tre miglia sopravvento alla fregata, limpida e intensa come la notte precedente.
Il narvalo sembrava immobile.
Forse, stanco della giornata, dormiva, lasciandosi cullare dal movimento delle onde?
Era un’occasione che il comandante Farragut decise di prendere al volo.
Brevi e secchi ordini.
La fregata proseguì a piccola velocità, avanzando con prudenza per non svegliare la preda.
Ned Land riprese il suo appostamento presso l’albero di bompresso.
La fregata procedette silenziosa, fermò le macchine a due gomene di distanza dal mostro e proseguì col solo abbrivo.
Sul ponte il silenzio era assoluto.
Ora eravamo a meno di trenta metri dalla fonte di luce, il cui chiarore aumentava progressivamente davanti ai nostri occhi.
In quel momento mi trovavo sul cassero e vedevo davanti a me Ned Land, che si reggeva con una mano ad una corda, mentre con l’altra brandiva il suo terribile arpione: appena sette metri lo separavano dall’animale immobile.
Improvvisamente il suo braccio scattò e il rampone fu lanciato: udii il colpo sonoro che fece urtando contro un corpo solido.
Il chiarore elettrico si spense di botto e due enormi colonne d’acqua si abbatterono sul ponte della fregata, scorrendo come torrenti da una parte all’altra, travolgendo uomini, schiantando le manovre fisse e quelle correnti.
Il sussulto spaventoso della nave mi sbalzò dal cassero e, senza neppure avere il tempo di tentare di reggermi, mi ritrovai in mare.