“ Io piango su tutti,” disse il vescovo.
“ Allo stesso modo!” esclamò G. “E se la bilancia deve pendere, sia dalla parte del popolo, che soffre da maggior tempo.”
Vi fu ancora un breve silenzio, che il convenzionale interruppe per primo. Egli si sollevò sopra un gomito, si prese la gota fra il pollice e l’indice, come si fa macchinalmente quando s’interroga o si giudica, poi interpellò il vescovo con uno sguardo pieno di tutte le energie dell’agonia. Fu quasi un’esplosione.
“ Sì, signore, da molto tempo il popolo soffre. E poi, vedete, non si tratta solo di ciò: perché venite ad interrogarmi ed a parlarmi di Luigi XVII? Io non vi conosco, da quando sono in questo paese, ho vissuto in questo eremo, solo, senza mettere un piede fuori, senza vedere altre persone, all’infuori di questo ragazzo che m’aiuta. Per dire il vero, il vostro nome è giunto confusamente fino a me e, debbo dirlo, non pronunciato male; ma questo non significa nulla. Le persone abili hanno mille modi di darla a bere a quel semplicione ch’è il popolo. A proposito: non ho sentito il rumore della vostra carrozza; senza dubbio, l’avete lasciata dietro il ceduo, laggiù, al bivio della strada. Non vi conosco, ripeto; m’avete detto che siete il vescovo, ma questo non mi dice nulla circa la vostra persona morale. Insomma, vi ripeto la mia domanda: chi siete? Siete un vescovo, vale a dire un principe della chiesa, uno di quegli uomini dorati, stemmati, ben forniti di rendite, dalle grasse prebende (il vescovo di Digne ha quindicimila franchi di fisso e diecimila di incerti cioè un totale di venticinquemila franchi), cucine e servi in livrea, che se la passano bene a tavola, mangiando le folaghe al venerdì, che si pavoneggiano, con un servo davanti e uno dietro, nelle berline di gala, che posseggono palazzi e vanno in carrozza in nome di Gesù Cristo, che andava a piedi nudi! Siete un prelato; rendite, palazzi, cavalli, servitori, buona tavola, anche voi avete, come gli altri, tutte le sensualità della vita; e come gli altri ne godete. Sta bene; ma questo dice troppo e non dice abbastanza; non colla probabile pretesa di recarmi la saggezza. A chi sto parlando? Chi siete?”
Il vescovo abbassò il capo e rispose: “Vermis sum.”
“ Un verme in carrozza!” brontolò il convenzionale. Toccava ora al convenzionale d’essere altero ed al vescovo umile.
Il vescovo ribatté con dolcezza: “E sia, signore; ma vogliatemi spiegare in che modo la mia carrozza, che è qui a due passi, dietro gli alberi e la mia buona tavola e le folaghe che mangio al venerdì e le mie venticinquemila lire di rendita e il mio palazzo e i miei lacché dimostrino che la pietà non è una virtù, che la clemenza non è un dovere e che il 93 non è stato inesorabile.”
Il convenzionale si passò una mano sulla fronte, come per allontanarne una nube.
“ Prima di rispondervi,” disse “vi prego di perdonarmi. Ho avuto torto, signore; siete in casa mia, siete mio ospite ed io vi sono in obbligo di cortesia. Voi discutete le mie idee ed io debbo limitarmi a combattere i vostri ragionamenti. Le ricchezze e gli agi vostri mi danno nella discussione un vantaggio su di voi; ma è di buon gusto, da parte mia, non servirmene. Vi prometto che non l’userò più.”
“ Vi ringrazio,” disse il vescovo.
G. rispose: “Torniamo alla spiegazione che mi chiedevate. Dove eravamo? Cosa dicevate? Che il 93 è stato inesorabile?”
“ Inesorabile sì,” disse il vescovo. “Che ne pensate di Marat, che batte le mani alla ghigliottina?”
“ E che ne pensate voi di Bossuet, che canta il Te Deum per gli sciabolatori di protestanti?”
La risposta era dura, ma andava a segno colla rigidità d’una punta d’acciaio. Il vescovo trasalì, nessuna risposta gli venne alle labbra, ma quel modo di nominare Bossuet lo toccò sul vivo. Anche le menti migliori hanno i loro feticci e si sentono talvolta vagamente colpite dalle mancanze di rispetto della logica.
Il convenzionale incominciava ad ansimare. L’asma dell’agonia che accompagna gli ultimi respiri, gli mozzava la voce; pure aveva negli occhi il riflesso d’una perfetta lucidità. Egli continuò: “Diciamo ancora qualche parola qua e là; io ci sto. A prescindere dalla rivoluzione, che, presa nel suo insieme, è una immensa affermazione umana, il 93, ahimè! è una risposta. Voi lo trovate inesorabile; ma tutta la monarchia signore? Carrier è un bandito; ma che nome date a Montrevel? Fouquier-Tinville è un pezzente; ma qual è la vostra opinione su Lamoignon-Bâville? Maillard è spaventoso; ma Saulx-Tavannes, di grazia? Il padre Duchêne è feroce; ma quale epiteto mi concedete per il padre Letellier? Jourdan Tagliateste è un mostro, minore però del signor Marchese di Louvois. O signore, signore! Io compiango Maria Antonietta arciduchessa e regina; ma compiango pure quella povera donna ugonotta che, nel 1685, sotto Luigi il Grande, signore, con un bimbo lattante, fu legata ad un palo, nuda fino alla cintola, col bimbo ad una certa distanza; il seno si gonfiava di latte ed il cuore d’angoscia: il piccino, affamato e pallido vedeva quel seno, agonizzava e strillava; ed il boia diceva a quella donna, madre e nutrice: ‘Abiura!’ dandole da scegliere fra la morte del figlio e la morte della coscienza. Che ne dite di codesto supplizio di Tantalo applicato ad una madre? Ricordatevi, signore: la rivoluzione francese ha avuto le sue ragioni. La sua collera sarà assolta dall’avvenire, perché il suo risultato sarà il mondo migliore; dai suoi più terribili colpi, esce una carezza per il genere umano. Ma basta così; finisco, perché ho troppo buon gioco. Eppoi, muoio.”
E cessando di guardare il vescovo, il convenzionale completò il suo pensiero con queste parole tranquille: “Sì, le brutalità del progresso si chiamano rivoluzioni. Quando sono finite, si riconosce questo: che il genere umano è stato maltrattato, ma ha camminato.”
Il convenzionale non sospettava neppure d’aver conquistato successivamente, una dopo l’altra, le più intime resistenze del vescovo; ma ne rimaneva ancor una e da quella suprema difesa di monsignor Bienvenu, uscì questa frase, in cui riapparve tutta l’asprezza dell’inizio: “Il progresso deve credere in Dio. Il bene non può avere servitori empî; l’ateo è un cattivo condottiero del genere umano.”
Il vecchio rappresentante del popolo non rispose; ebbe un fremito, guardò il cielo e nel suo sguardo spuntò lenta una lacrima. Quando la palpebra fu piena, la lacrima scorse lungo la gota livida, mentr’egli diceva a bassa voce, balbettando e come se parlasse a se stesso: “O ideale, tu solo, tu solo esisti!”
Il vescovo ebbe una specie d’inesprimibile commozione. Dopo una pausa, il vegliardo levò un dito verso il cielo e disse: “L’infinito esiste ed è là. Se l’infinito non avesse un io, l’io sarebbe il suo limite; perciò non sarebbe infinito o, in altre parole, non esisterebbe. Ora, dal momento ch’esso è, ha un io ; quest’io dell’infinito è Dio.”
Il morente aveva pronunciato queste ultime parole a voce alta e col fremito dell’estasi, come se vedesse qualcuno. Quand’ebbe finito di parlare, gli si chiusero gli occhi; lo sforzo l’aveva spossato. Era evidente che in quell’attimo aveva vissuto le poche ore che gli rimanevano e che quanto aveva detto l’aveva avvicinato a colui che è nella morte. L’istante supremo stava per giungere.
Il vescovo lo capì. Il momento urgeva ed egli era venuto come prete; ma, dall’estrema freddezza, era passato alla profonda commozione. Guardò quegli occhi chiusi, prese quella vecchia mano rugosa e gelida e si chinò verso il moribondo: “Quest’è l’ora di Dio. Non credete che sarebbe triste che ci fossimo incontrati invano?”
Il convenzionale riaperse gli occhi e sul suo viso si dipinse una gravità in cui v’era già l’ombra.
“ Signor vescovo,” disse, con una lentezza che, forse, proveniva più dalla dignità dell’animo che dall’affievolirsi delle forze “ho trascorso la vita nella meditazione, nello studio e nella contemplazione. Avevo sessant’anni, quando il paese mi chiamò e m’ordinò d’occuparmi dei suoi affari. Ubbidii; c’erano degli abusi e li combattei, c’erano tirannie e le distrussi, c’erano diritti e principî ed io li proclamai e sostenni. Il territorio era invaso e lo difesi; la Francia era minacciata ed io offersi il mio petto. Non ero ricco e sono povero; ero uno dei padroni dello Stato in certi momenti in cui le cantine del Tesoro erano così ingombre di valute, che bisognava puntellare i muri, perché non cedessero sotto il peso dell’oro e dell’argento, e andavo a pranzare in via dell’Albero Secco a ventidue soldi per pasto. Ho soccorso gli oppressi e consolato i sofferenti. Ho stracciato, è vero, la tovaglia dell’altare; ma per fasciare le ferite della patria. Ho sempre sostenuto la marcia in avanti del genere umano, verso la luce, ed ho talvolta resistito al progresso spietato; all’occorrenza ho protetto voi, i miei avversari; e a Peteghem, in Fiandra, nel luogo in cui i re merovingi avevano il palazzo d’estate, v’è un convento di clarisse, ch’io salvai nel 1793. Ho fatto il mio dovere secondo le mie forze e tutto il bene che ho potuto; e per questo sono stato schiacciato, stanato, inseguito, perseguitato, diffamato, schernito, fischiato, maledetto, proscritto. Da moltissimi anni in qua, malgrado i miei capelli bianchi, capisco che molti credono d’aver il diritto di disprezzarmi e, per gli occhi della povera folla ignorante, ho la faccia d’un dannato; pure accetto, senza odiare nessuno, l’isolamento dell’odio. Ora ho ottantasei anni e sto per morire; che cosa venite a chiedermi?”
“ La vostra benedizione,” disse il vescovo, cadendo in ginocchio.
Allorché il vescovo rialzò il capo, il viso del convenzionale era divenuto augusto: era morto.
Il vescovo rientrò in casa profondamente assorto in non so quali pensieri e passò tutta la notte in preghiere. L’indomani, alcuni buoni curiosi tentarono di parlargli del convenzionale G.: ma egli si limitò ad indicare il cielo. Da allora, crebbe la sua tenerezza e la sua fratellanza verso i miseri ed i sofferenti.
Qualsiasi allusione a quel “vecchio scellerato di G.” lo faceva cadere in una strana preoccupazione; e nessuno potrebbe affermare che il passaggio di quello spirito davanti al suo ed il riflesso di quella grande coscienza sulla sua non entrassero per nulla sulla sua via verso la perfezione.
Naturalmente, quella “visita pastorale” diede occasione di pettegolezzo alle piccole conventicole locali: “Era il posto d’un vescovo, il capezzale d’un simile moribondo? Non v’era evidentemente d’aspettarsi una conversione: e allora, a che scopo andarci? Che cosa è andato a vedere, laggiù? Bisogna dire che fosse ben curioso di veder portar via un’anima dal diavolo.”
Un giorno, una ricca vedova, di quella goffa varietà che si crede spiritosa, gli rivolse questa arguzia: “Monsignore, molti chiedono quando Vostra Grandezza avrà il berretto rosso.” “Oh, oh, che coloraccio!” rispose il vescovo. “Per fortuna, coloro che lo disprezzano in un berretto lo venerano in un cappello.”