CAPITOLO V In cui si vede come Monsignor Myriel facesse durare troppo a lungo le sue tonache
La sua vita pubblica. Per chi avesse potuto vederla da vicino, la volontaria povertà in cui viveva il vescovo di Digne avrebbe costituito uno spettacolo grave ed attraente. Al pari di tutti i vecchi e della maggior parte dei pensatori, egli dormiva poco; ma quel breve sonno era profondo. Al mattino si raccoglieva per un’oretta, poi diceva la messa, o nella cattedrale, o nel suo oratorio. Dopo la messa, faceva colazione con un pane di segala inzuppato nel latte delle sue vacche; poi lavorava.
Un vescovo è un uomo occupatissimo; deve ricevere ogni giorno il segretario del vescovado, di solito un canonico, e, quasi ogni giorno, i suoi grandi vicari; deve controllare congregazioni, dare privilegi, esaminare un’intera libreria ecclesiastica, libri da messa, catechismi diocesani, breviari, eccetera; deve scrivere pastorali, autorizzare prediche, mettere d’accordo curati e sindaci e sbrigare una corrispondenza religiosa ed una corrispondenza amministrativa. Da una parte lo stato, dall’altra la santa sede; mille faccende, insomma.
Il tempo lasciatogli da quelle mille faccende, dagli uffici e dal breviario lo dedicava, prima di tutto, ai bisognosi, ai malati ed agli afflitti, poi, il tempo che gli afflitti, i malati, i bisognosi gli lasciavano, dedicava al lavoro. Ora zappava la terra in giardino, ora leggeva e scriveva, ed aveva una sola frase per entrambe le specie di lavoro: chiamava ciò occuparsi di giardinaggio. “La mente è un giardino,” diceva.
A mezzogiorno desinava; e il desinare somigliava alla prima colazione. Verso le due, quand’era bel tempo, usciva a passeggio a piedi in campagna od in città, entrando spesso nelle stamberghe. Lo si vedeva camminare solo, appoggiato al lungo bastone, vestito della sopravveste violacea, ovattata e ben calda, colle calze viola sotto le grosse scarpe e con in testa il cappello piatto, che lasciava uscire dai tre corni tre fiocchi d’oro a granellini.
Dovunque compariva, era una festa. Si sarebbe detto che il suo passaggio avesse qualche cosa che riscaldava ed illuminava; i fanciulli e i vecchi venivan sulla soglia delle porte per il vescovo, come per il sole. Egli benediceva e veniva benedetto, e la gente indicava la sua casa a chiunque aveva bisogno di qualcosa.
Qua e là si fermava, parlava ai ragazzi ed alle bambine e sorrideva alle madri. Finché aveva denari, visitava i poveri; quando non ne aveva più visitava i ricchi.
Siccome faceva durare le tonache molto a lungo non voleva che se ne accorgessero, non usciva mai in città, se non colla sopravveste violacea; il che l’infastidiva un poco, d’estate.
La sera, alle otto e mezzo, cenava colla sorella, mentre la signora Magloire, in piedi dietro di essi, li serviva a tavola. Nulla di più frugale di quei pasti; pure, se il vescovo aveva a cena un suo curato, la signora Magloire ne approfittava per servire a monsignore qualche eccellente pesce di lago e qualche selvaggina ricercata della montagna. Ogni curato era un pretesto ad un buon pranzo, ed il vescovo lasciava fare; all’infuori di questo, la sua solita tavola si componeva solo di legumi cotti nell’acqua e di minestra coll’olio. Perciò si diceva in città: “Quando il vescovo non si tratta da curato, si tratta da trappista.”
Dopo cena, chiacchierava per circa mezz’ora colla signorina Baptistine e colla signora Magloire; poi si ritirava nella sua stanza e tornava a scrivere ora su fogli volanti, ora sui margini di qualche in-folio, perché era letterato e alquanto dotto. Lasciò infatti cinque o sei manoscritti abbastanza curiosi; fra gli altri, una dissertazione sul versetto della Genesi: Al principio lo spirito di Dio galleggiava sulle acque. Egli confronta con quel versetto tre testi: la versione araba, che dice: I venti di Dio soffiavano; Flavio Giuseppe, che dice: Un vento si precipitava dall’alto verso la terra, ed infine la parafrasi caldea d’Onkelos che reca: Un vento che veniva da Dio soffiava sulla faccia delle acque. In un’altra dissertazione, esamina le opere teologiche di Hugo, vescovo di Tolemaide e fratello del nonno di colui che scrive questo libro; e stabilisce che si debbono attribuire a questo vescovo i varii opuscoli pubblicati nel secolo scorso, sotto lo pseudonimo di Barleycourt.
Talvolta, nel bel mezzo d’una lettura, qualunque fosse il libro che aveva per le mani, cadeva improvvisamente in una profonda meditazione, dalla quale usciva solo per scrivere alcune righe sulle pagine stesse del volume; righe le quali, spesso, non hanno alcun rapporto col libro che le contiene. Abbiamo sotto gli occhi una nota scritta da lui sul margine d’un in-quarto, intitolato: Corrispondenza di lord Germain coi generali Clinton e Cornwallis e cogli ammiragli della stazione d’America. A Versailles, da Poincot, libraio, ed a Parigi, da Pissot, libraio, lungo Senna degli Agostiniani.
Ecco la nota: “O voi, che siete!
“ L’Ecclesiaste vi chiama Onnipotenza, i Maccabei vi chiamano Creatore, l’Epistola agli abitanti d’Efeso vi chiama Libertà, Baruch vi chiama Immensità, i Salmi vi chiamano Saggezza e Verità, Giovanni vi chiama Luce, i Re vi chiamano Signore, l’Esodo vi chiama Provvidenza, il Levitico Santità, Esdra Giustizia; la creazione vi chiama Dio e l’uomo vi chiama Padre; ma Salomone vi chiama Misericordia, che è il più bello di tutti i vostri nomi.”
Verso le nove di sera le due donne si ritiravano nelle loro stanze al primo piano, lasciandolo solo fino al mattino, al pianterreno. A questo punto è necessario dare un’idea esatta dell’abitazione di monsignor vescovo di Digne.