CAPITOLO XIII

1277 Words
CAPITOLO XIII Ciò che credeva Non cercheremo di sondare monsignor vescovo di Digne sotto il punto di vista dell’ortodossìa; davanti a una anima simile, non proviamo altro sentimento che non sia rispetto. La coscienza del giusto dev’essere creduta sulla parola. Del resto, date certe nature, noi ammettiamo il possibile sviluppo di tutte le bellezze della virtù umana in una fede diversa dalla nostra. Che pensava egli del tal dogma e del tal mistero? Questi segreti del profondo della coscienza sono noti solo alla tomba, in cui le anime entrano nude; siamo certi, che mai le difficoltà della fede si risolvevano per lui in ipocrisia. Il diamante non può imputridire, ed egli credeva più che poteva. “Credo in Patrem,” esclamava spesso. Del resto, attingeva nelle opere buone quel tanto di soddisfazione che basta alla coscienza e che vi dice: “Tu sei con Dio.” Crediamo di dover notare che il vescovo aveva, all’infuori, per così dire, e al di là della sua fede, un eccesso d’amore; per questo, quia multum amavit, era giudicato vulnerabile dagli “uomini serii” dalle “persone gravi” e dalle “persone ragionevoli”, locuzioni favorevoli del nostro brutto mondo, dove l’egoismo riceve la parola d’ordine dalla pedanteria. E in che consisteva quell’eccesso d’amore? In una serena benevolenza, che sorpassava gli uomini, come già abbiamo fatto notare, e che, all’occorrenza, si spingeva fino alle cose. Viveva senza sdegno ed era indulgente verso il creato. Ogni uomo, anche il migliore, ha in sé una durezza irriflessiva, ch’egli tiene in serbo per l’animale; il vescovo di Digne non aveva affatto quella durezza, che pure è peculiare a molti preti e, se non giungeva fino al bramino, sembrava avesse meditato questa frase dell’Ecclesiaste: “Si sa dove vada l’anima degli animali?” Il brutto aspetto, le deformità dell’istinto non lo turbavano e non l’indignavano; ne era anzi commosso, quasi intenerito. Sembrava che, pensieroso, egli andasse cercandone, al di là della vita apparente, la causa, la spiegazione o la giustificazione; in certi momenti sembrava chiedesse a Dio qualche commutazione. Esaminava senza collera, coll’occhio del linguista che decifra un palinsesto, la quantità di caos ancora nella natura e quella fantasticheria gli faceva talvolta sfuggire frasi strane. Un mattino, mentre era nel giardino e si credeva solo, mentre sua sorella camminava dietro lui, si fermò ad un tratto e guardò qualcosa in terra: era un grosso ragno, nero, peloso, orribile. La sorella l’intese dire: “Povera bestia; non è colpa sua.” Perché non dire queste puerilità quasi divine della bontà? Puerilità, sia; ma codeste sublimi puerilità sono state di San Francesco e di Marco Aurelio. Un giorno si buscò una storta per non avere voluto schiacciare una formica. Così viveva quel giusto. Talvolta s’addormentava in giardino, ed allora non era affatto meno venerabile. Monsignor Bienvenu era stato un tempo, a quanto si diceva della sua giovinezza ed anche della sua virilità, passionale, quasi violento. La sua mansuetudine universale era meno istinto di natura che risultato d’una grande convinzione, filtrata nel suo cuore attraverso la vita lentamente, pensiero su pensiero, poiché, in un carattere simile alla roccia, possono esserci i fori delle gocce d’acqua ed i loro scavi sono incancellabili, come le loro formazioni sono indistruttibili. Nel 1815 (ci sembra d’averlo già detto) egli aveva compiuto i settantacinque anni; ma pareva non ne avesse più di sessanta. Non era alto; combatteva una lieve tendenza alla pinguedine e faceva volentieri lunghe camminate a piedi. Aveva il passo deciso ed era pochissimo incurvato; particolare, questo, dal quale non pretendiamo di concluder nulla, dato che Gregorio XVI, ad ottant’anni, si manteneva dritto e sorridente, la qual cosa non gli impediva d’essere un cattivo vescovo. Monsignor Bienvenu aveva quello che il volgo chiama “una bella testa”; ma essa era così simpatica che se ne dimenticava la bellezza. Allorché discorreva con quell’infantile gaiezza ch’era una delle sue grazie, e di cui abbiamo già parlato, ci si sentiva a bell’agio vicino a lui e pareva che da tutta la sua persona scaturisse l’allegria. Il colorito vivace e fresco, con tutti i denti candidissimi, ch’egli conservava ancora e che ridendo lasciava scorgere, gli dava quell’aria aperta e benigna che fa dire d’un uomo: “È un bravo ragazzo” e d’un vecchio: “È un brav’uomo”; se il lettore si ricorda, era questo l’effetto da lui prodotto su Napoleone. Di primo acchito e per chi lo vedeva la prima volta, non era altro, infatti, che un dabben vecchio; ma se si restava qualche ora presso di lui e per poco che lo si vedesse pensieroso, il vecchio dabbene si trasformava a poco a poco fino ad assumere un non so che d’imponente. La fronte larga e seria, augusta per i bianchi capelli, non meno che per la meditazione spirava la maestà di quella bontà inesauribile; si provava alcunché della commozione che suscita un angelo sorridente quando apre lentamente le ali, senza cessar di sorridere. Il rispetto, un inesprimibile rispetto, vi compenetrava a poco a poco e vi giungeva al cuore; si sentiva d’aver davanti a sé una di quelle anime forti, provate ed indulgenti, nelle quali il pensiero è tanto grande, che non può più essere che dolce. Come s’è visto, la preghiera, la celebrazione degli uffici religiosi, l’elemosina, la consolazione degli afflitti, la coltivazione d’un cantuccio di terra, la fraternità, la frugalità, l’ospitalità, la rinuncia, la fiducia, lo studio e il lavoro colmavano tutte le giornate della sua vita. Colmavano è la parola adatta, e certo la giornata del vescovo era piena fino all’orlo di buoni pensieri, di buone parole e di buone azioni; pure, essa non era completa se il tempo freddo o piovoso gli impediva d’andare a passare un’ora o due, la sera, quando le due donne s’erano ritirate in giardino, prima di coricarsi. Pareva fosse una specie di rito, prepararsi al sonno colla meditazione, al cospetto dei grandi spettacoli del cielo notturno. Talvolta, magari ad un’ora piuttosto avanzata della notte, se le due vecchie zitelle non dormivano, lo sentivano camminar adagio nei viali; là solo con se stesso, raccolto, tranquillo, in adorazione, paragonava la serenità del suo cuore a quella dell’etere e si commoveva nelle tenebre agli splendori visibili delle costellazioni ed agli invisibili splendori di Dio, aprendo l’anima ai pensieri che cadono dall’Ignoto. In quei momenti, mentre offriva il suo cuore nell’ora in cui i fiori notturni offrono il loro profumo, acceso come una lampada nel mezzo della notte stellata e si spandeva in estasi in seno allo splendore universale della creazione, non avrebbe forse potuto dir nemmeno lui ciò che passava per la sua mente. Sentiva che qualcosa si sprigionava da lui e che qualcosa scendeva in lui: misteriosi scambi fra gli abissi dell’anima e gli abissi dell’universo! Pensava alla grandezza e alla presenza di Dio; all’eternità futura, strano mistero; all’eternità passata, mistero ancor più strano; a tutti gli infiniti che si sprofondavano in tutti i sensi sotto i suoi occhi; e, senza cercar di capire l’incomprensibile, lo guardava. Non studiava Dio, ma se ne inebbriava; osservava quelle magnifiche riunioni d’atomi, che danno tanti aspetti alla materia, rivelano le forze mentre le constatano, creano le individualità nell’unità, le proporzioni nello spazio, l’innumerevole nell’infinito e producono la bellezza per mezzo della luce. Quei raggruppamenti si formano e si distruggono senza posa: da ciò la vita e la morte. Sedeva su una panca di legno a ridosso d’una decrepita vite e guardava gli astri attraverso i meschini e rachitici profili dei suoi alberi da frutta. Quelle poche pertiche di terreno così poveramente coltivate, così ingombre di catapecchie e di tettoie, gli erano care e gli bastavano. E che cosa occorreva di più a quel vegliardo, che divideva gli ozii della sua vita, in cui gli ozii eran sì poca cosa, fra il giardinaggio diurno e la contemplazione della notte? Quello stretto recinto, che aveva il cielo per soffitto, non era forse sufficiente per poter adorare Dio, a vicenda nelle sue opere più incantevoli e nelle più sublimi? Forse che questo non è tutto e si può desiderare più d’un giardinetto per passeggiare e dell’immensità per fantasticare? Ai piedi, ciò che si può coltivare e cogliere; sul capo, ciò che si può studiare e meditare: alcuni fiori sulla terra e tutte le stelle nel cielo.
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