CAPITOLO II

1255 Words
CAPITOLO II Doppio quattro Quei parigini erano, uno di Tolosa, l’altro di Limoges, il terzo di Cahors ed il quarto di Montauban; studenti, e chi dice studente dice parigino. Studiare a Parigi, è come nascervi. Erano giovanotti insignificanti: figure come tutti ne han vedute spesso; quattro campioni di primo venuto, né buoni né cattivi, né dotti né ignoranti, né genii né cretini; ma belli di quell’incantevole aprile che si chiama i vent’anni. Eran quattro Oscar qualunque, poiché a quell’epoca gli Arturo non esistevano ancora. Bruciate per lui i profumi d’Arabia! esclamava la romanza. Oscar s’avanza ed io, sì, lo vedrò! Si usciva da Ossian e l’eleganza era scandinava e caledone; il genere inglese puro doveva prevalere solo più tardi ed il primo Arturo, Wellington, aveva vinto appena allora la battaglia di Waterloo. Quegli Oscar si chiamavano, uno Felice Tholomyès, di Tolosa, l’altro Listolier, di Cahors, l’altro Fameuil, di Limoges e l’ultimo Blanchevelle, di Montauban. Naturalmente, ognuno aveva la propria amante: Blanchevelle amava Favourite, così chiamata perché era stata in Inghilterra; Listolier adorava Dahlia, che aveva preso per nome di guerra il nome d’un fiore; Fameuil idolatrava Zéphine, diminutivo di Giuseppina; Tholomyès aveva Fantine, detta la Bionda, per via dei suoi bei capelli color del sole. Favourite, Dahlia, Zéphine, Fantine erano quattro fanciulle incantevoli, profumate e radiose, ancora un poco operaie, che non avevan lasciato completamente l’ago; se i facili amori le avevan guastate, serbavano ancora sul volto un resto della serenità del lavoro e nell’animo quel fiore d’onestà che nella donna sopravvive alla prima caduta. Una di esse era detta la giovine, perché era la minore, ed un’altra la vecchia: aveva ventitrè anni. Per non nasconder nulla, le prime tre erano più esperte, noncuranti e addentro nel turbine della vita di quanto non fosse Fantine la Bionda, ch’era ancora alla sua prima illusione. Dahlia, Zéphine e soprattutto Favourite non avrebbero potuto dire altrettanto. Nel loro romanzo, appena incominciato, v’era già più d’un episodio, e l’amante, che si chiamava Adolfo nel primo capitolo, diventava Alfonso nel secondo e Gustavo nel terzo. La povertà e la civetteria son due fatali consigliere: una brontola, l’altra consiglia, e le belle figlie del popolo le hanno allato entrambe, le sentono parlare al loro orecchio, ciascuna dalla sua parte. Quelle anime mal custodite ascoltano e da questo derivano le cadute e le sassate scagliate loro addosso, per schiacciarle sotto il peso di tutto ciò che è immacolato ed inaccessibile. Ahimè! E se la Jungfrau avesse fame? Favourite, per essere stata in Inghilterra, aveva in Dahlia e in Zéphine due ammiratrici; aveva incominciato presto ad avere una casa propria. Suo padre era un vecchio professore di matematica, uomo brutale e spavaldo, non sposato, che correva la cavallina malgrado l’età. Da giovane, aveva visto un giorno la veste d’una cameriera impigliarsi in un alare; quell’incidente l’aveva fatto innamorare e ne era risultato Favourite. Di tanto in tanto ella incontrava il padre, che la salutava; una mattina, una vecchia dall’aria bigotta entrata in casa le aveva chiesto: “Non mi riconoscete signorina?” “No.” “Sono tua madre.” Poi la vecchia, aperta la credenza, aveva bevuto e mangiato e, fattosi portare un materasso, s’era installata lì. Quella madre, brontolona e pinzochera, non le parlava mai; stava ore senza dir parola, faceva colazione e pranzo e cena per quattro e poi scendeva a tener circolo in portineria, parlando male della figlia. A spingere Dahlia verso Listolier, e forse verso altri, e verso l’ozio, erano le sue unghiette troppo rosee: come lavorare con quelle unghie? Chi vuole restar virtuosa non deve aver compassione per le sue mani. Quanto a Zéphine, aveva conquistato Fameuil per la grazietta furbesca e carezzevole con cui diceva: “Sì, signore!” I giovanotti erano compagni, le fanciulle amiche. Quel genere di amori è sempre foderato da quel genere d’amicizia. Saggio e filosofo sono due cose diverse; e lo prova il fatto che, con ogni riserva su quelle relazioni irregolari, Favourite, Zéphine e Dahlia erano ragazze filosofe e Fantine era una ragazza saggia. “Saggia?” si dirà. “E Tholomyès?” Salomone avrebbe risposto che l’amore fa parte della saggezza. Noi ci limitiamo a dire che l’amore di Fantine era un primo amore, unico, fedele. Ella sola delle quattro era trattata col tu da uno solo. Fantine era uno di quegli esseri come sbocciano talvolta, per così dire, dal fondo del popolo. Uscita com’era dalle più insondabili tenebre sociali portava in fronte l’impronta dell’anonimo e dello sconosciuto. Era nata a Montreuil a mare; da quali genitori? Nessuno potrebbe dirlo; non si erano mai conosciuti suo padre e sua madre. Si chiamava Fantine, e perché? All’epoca della sua nascita, esisteva ancora il Direttorio; perciò ella non aveva nome di famiglia, essendo senza, né aveva avuto nome di battesimo, non essendoci più la chiesa ad imporli. Si chiamò dunque come piacque al primo passante che l’incontrò piccolina, mentre vagava per le strade a piedi nudi; ricevette un nome, come l’acqua delle nubi, quando pioveva. La chiamarono la piccola Fantine; nessuno ne sapeva altro, e quella creatura s’era presentata in quel modo nella vita. A dieci anni, Fantine lasciò il paese e andò a servire presso alcuni fattori dei dintorni; a quindici, venne a Parigi a “cercar fortuna”. Era bella e rimase pura più a lungo che poté. Graziosa, bionda, bei denti, aveva per dote oro e perle, ma l’oro era sul suo capo e le perle nella bocca. Lavorò per vivere e poi, sempre per vivere, poiché anche il cuore ha fame, amò. Amò Tholomyès e, se per lui si trattò d’un amorazzo, per lei fu una passione. Le vie del quartiere latino, formicolanti di studenti e sartine, videro il principio di quel sogno; Fantine, in quei dedali della collina del Pantheon in cui s’intrecciano e sciolgono tante avventure, aveva fuggito a lungo Tholomyès, in modo da tornarlo sempre ad incontrare. V’è un modo d’evitare molto simile al cercare; per farla breve, l’egloga ebbe luogo. Blanchevelle, Listolier e Fameuil formavano come un gruppo di cui Tholomyès era il capo; era il cervello della compagnia. Tholomyès era il tipo perfetto dell’eterno studente. Ricco, disponeva di quattromila franchi di rendita, splendido scandalo sulla montagna di Santa Genoveffa. Era un gaudente trentenne, mal conservato, grinzoso e sdentato; della sua calvizie incipiente diceva, senza malinconia: Cranio a trent’anni, ginocchio a quaranta. Digeriva male, il che gli aveva prodotto una lacrimazione ad un occhio. A mano a mano che la sua gioventù si spegneva, riattizzava la sua allegria; sostituiva i denti coi lazzi, i capelli colla gioia, la salute coll’ironia ed il suo occhio lagrimoso rideva senza posa: un rudere, tutto in fiore. La sua giovinezza, facendo le valigie assai prima del tempo, batteva in ritirata in buon ordine e scoppiando a ridere, tutta fuoco. Gli avevano rifiutato una commedia al Vaudeville e di tanto in tanto faceva versi; per di più, dubitava di tutto, grande forza, questa, agli occhi dei deboli. Quindi ironico e calvo, era il capo. Iron è una parola inglese che vuol dire ferro; deriverebbe forse da questo, ironia? Un giorno Tholomyès prese in disparte gli altri tre, con un cenno da oracolo e disse loro: “Da quasi un anno Fantine, Dahlia, Zéphine e Favourite ci chiedono di far loro una sorpresa; e noi abbiamo solennemente promesso di farla. Ce ne parlano sempre, a me soprattutto. Nello stesso modo che a Napoli le vecchie gridano a San Gennaro: Faccia ‘ungialluta fa o’ miracolo, le nostre belle mi dicono continuamente: ‘E quando partorirai la tua sorpresa, Tholomyès?’. Nel frattempo i nostri genitori ci scrivono. È un bel fastidio; ma mi pare che sia giunto il momento buono. Vediamo.” Detto questo, Tholomyès abbassò la voce e bisbigliò qualcosa così divertente, che le quattro bocche si atteggiarono a un riso entusiasta e Blanchevelle esclamò: “To’! È un’idea!” Una bettola piena di fumo era lì vicino; v’entrarono ed il resto della loro conferenza si perdette nell’ombra. Ma il risultato fu una splendida gita la domenica dopo alla quale i quattro giovanotti invitarono le quattro fanciulle.
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