CAPITOLO X Continua il successo
Era stata licenziata verso la fine dell’inverno. Passò l’estate, tornò l’inverno: giornate corte, minor lavoro. D’inverno, né calore, né luce, né pien meriggio; la sera e il mattino si confondono, tutto è nebbia e crepuscolo, la finestra è appannata e non ci si vede bene. Il cielo è uno spiraglio, come l’intera giornata è una cantina: il sole ha l’aria d’un povero. Stagione spaventosa! L’inverno muta in pietra l’acqua del cielo ed il cuore dell’uomo; ed i creditori la tormentavano.
Fantine guadagnava troppo poco, ed i debiti erano cresciuti. I Thénardier, mal pagati, le scrivevano ogni momento lettere che la rattristavano per il contenuto e la dissanguavano per la spesa di porto. Un giorno, le scrissero che la piccola Cosette era addirittura nuda, col gran freddo che faceva, che aveva bisogno d’una sottana di lana; la madre mandasse almeno dieci franchi. Ricevuta quella lettera, la spiegazzò fra le mani tutto il giorno; la sera, si recò da un barbiere sull’angolo della via, e si levò il pettine, lasciando cadere fin sulle reni i mirabili capelli biondi.
“ Che bei capelli!” esclamò il barbiere.
“ Quanto me li paghereste?” ella chiese.
“ Dieci franchi.”
“ Tagliateli.”
Comperò una sottana di maglia e la mandò ai Thénardier. Quella sottana fece andar in bestia i Thénardier: volevano il denaro. Diedero la sottana ad Eponina e la povera Allodola continuò a tremare. Intanto Fantine pensava: “La mia bimba non ha più freddo: l’ho vestita con i miei capelli.” E si mise certe cuffiette rotonde che le nascondevano la testa rasa, colle quali era ancora graziosa.
Nel cuore di Fantine si compiva un doloroso mutamento. Quando vide che non poteva più pettinarsi, incominciò a prendere in odio quello che la circondava.
Aveva a lungo condiviso la venerazione di tutti per papà Madeleine; pure, a forza di ripetersi ch’era stato lui a scacciarla e ch’era la causa della sua infelicità, finì per odiare anche quell’uomo, soprattutto quello. Nelle ore in cui gli operai stavano sulla porta, passava davanti alla fabbrica, affettando di ridere e cantare.
Una vecchia operaia, che la intese un giorno ridere e cantare a quel modo, disse: “Ecco una ragazza che finirà male.”
Si prese per amante il primo venuto, che non amava, per far una smargiassata, ma colla rabbia nel cuore; era un mascalzone, una specie di musicante girovago, pezzente fannullone, che la batteva e la lasciò com’ella aveva preso lui, con ripugnanza.
Ella adorava la sua bimba. Quanto più scendeva in basso, quanto più tutto si oscurava intorno a lei, tanto più quel dolce angioletto splendeva di luce in fondo alla sua anima; diceva: “Quando sarò ricca, avrò con me la mia Cosette,” e rideva. La tosse non le dava tregua, aveva spesso la schiena in sudore.
Un giorno, ricevette dai Thénardier una lettera così concepita: “Cosette è malata d’una malattia che regna in paese: una febbre miliare, la chiamano. Ci vogliono medicine costose e questo ci manda in rovina; non possiamo più pagare. Se entro otto giorni non ci manderete quaranta franchi, la piccina morirà.”
Ella diede in uno scoppio di risa e disse alla vicina: “To’ come sono stupidi! Quaranta franchi! Come niente! Sono due napoleoni. Dove vogliono che vada a prenderli? Come sono stupidi, questi contadini!”
Pure, uscì sulla scala, vicino ad una finestrella, e rilesse la lettera; scese le scale, uscì sulla via, correndo, saltando e sempre ridendo. Qualcuno che l’incontrò le chiese: “Che avete, da essere così allegra?”
Ella rispose: “È una sciocchezza grossa come una casa che m’hanno scritto adesso certi contadini: mi domandano quaranta franchi. È vero che sono contadini?”
Mentre passava per la piazza, vide molta gente intorno ad una carrozza di forma bizzarra; sull’imperiale un uomo vestito di rosso concionava; era un ciarlatano dentista di passaggio, che offriva al pubblico dentiere complete, unguenti, polveri ed elisiri. Fantine si unì al gruppo e si mise a ridere come gli altri di quell’arringa, in cui v’era il gergo per il volgo e il vernacolo per le persone ammodo. Il cavadenti vide quella bella ragazza che rideva ed esclamò all’improvviso: “Ehi, quella ragazza che ride! Avete dei bei denti. Se volete vendermi le vostre due palette, ve le p**o un napoleone d’oro ciascuna.”
“ Che diavolo sono, le mie palette?” chiese Fantine.
“ Le palette,” riprese il professor dentista “sono i due incisivi di mezzo, in alto.”
“ Che orrore!” esclamò Fantine.
“ Due napoleoni!” brontolò una vecchia sdentata ch’era presente. “Quella è fortunata!”
Fantine scappò via, turandosi le orecchie, per non sentire la voce roca dell’uomo, che le gridava: “Rifletteteci, bella mia! Due napoleoni possono far buon pro; se ve lo dice il cuore, venite stasera all’albergo della Tolda d’argento e mi troverete.”
Quando Fantine rincasò, era furiosa e raccontò la cosa alla sua buona vicina Margherita. “Capite? Non è un uomo abbominevole? Come si fa a lasciar girare per il paese simile genìa? Strapparmi i due denti davanti! Ma sarei orribile! I capelli rinascono; ma i denti!... Ah, che mostro d’uomo! Preferirei buttarmi dal quinto piano colla testa in giù! M’ha detto che lo troverei stasera alla Tolda d’argento.”
“ E che cosa offriva?” chiese Margherita.
“ Due napoleoni.”
“ Che sono quaranta franchi.”
“ Sì,” disse Fantine “sono quaranta franchi.”
Pensierosa si rimise al lavoro. In capo ad un quarto d’ora, piantò lì il cucito ed andò a rileggere la lettera dei Thénardier sulla scala; quando rientrò disse a Margherita, che lavorava accanto a lei: “Che cos’è la febbre miliare? Lo sapete?”
“ Sì,” rispose la vecchia zitella; “è una malattia.”
“ Occorrono proprio tante medicine?”
“ Oh, una quantità.”
“ Come la si prende?”
“ È una malattia che viene... così.”
“ E colpisce i bambini?”
“ Soprattutto i bambini.”
“ E si può morire?”
“ E come!” disse Margherita.
Fantine uscì ed andò a rileggere ancor una volta la lettera dei Thénardier. Quando fu sera, scese e si diresse a via Parigi, dove si trovano gli alberghi.
La mattina dopo, quando Margherita entrò nella camera di Fantine prima dell’alba (lavoravan sempre insieme, per accendere una sola candela in due), trovò Fantine seduta sul letto, pallida, gelida. Non s’era coricata; la cuffia le era caduta sulle ginocchia e la candela, rimasta accesa tutta la notte, era quasi completamente consumata.
Margherita si fermò sulla soglia, impietrita da quell’enorme spreco ed esclamò: “Signore Iddio! La candela è tutta consumata! È successo qualche cosa!”
Poi guardò Fantine, che volgeva verso di lei la testa senza capelli: dal giorno prima, pareva invecchiata di dieci anni.
“ Gesù!” fece Margherita. “Che avete, Fantine?”
“ Niente,” rispose Fantine. “Anzi... La mia bambina non morirà più di quell’orribile malattia, per mancanza di soccorsi: sono contenta.”
E così dicendo, indicava alla vecchia zitella due napoleoni che luccicavano sul tavolo.
“ Ma è una ricchezza, Signore Gesù!” disse Margherita. “Come avete avuto questi luigi d’oro?”
“ Li ho avuti,” rispose Fantine.
Nello stesso tempo, sorrise. La candela le illuminava il volto ed il sorriso sanguinoso: una saliva rossastra le insudiciava le estremità delle labbra e nella bocca appariva un buco nero. I due denti erano stati strappati.
Mandò i quaranta franchi a Montfermeil. Ma era stata soltanto una astuzia dei Thénardier per aver denaro: Cosette non era malata.
Fantine gettò lo specchio fuori della finestra. Da molto tempo aveva lasciato la sua celletta del secondo piano per andar a stare in una soffitta sotto il tetto, chiusa da un saliscendi, una di quelle stamberghe in cui il soffitto è inclinato rispetto al pavimento e vi fa battere la testa. Poiché il povero non può andare in fondo alla sua stanza, né in fondo al suo destino, se non curvandosi sempre più. Non aveva più letto e le rimaneva soltanto un cencio al quale dava il nome di coperta, un materasso per terra ed una sedia senza la paglia; un piccolo rosaio che coltivava s’era disseccato in un angolo, dimenticato ormai, mentre in un altro angolo stava un recipiente per l’acqua, che d’inverno gelava lasciando ai vari livelli cerchi di ghiaccio. Come aveva perduto la vergogna, perdé la civetteria: ultimo sintomo. Usciva di casa colla cuffia sudicia e, mancanza di tempo, o indifferenza, non teneva più in ordine la biancheria; a mano a mano che il calcagno delle calze si logorava, le tirava sempre più dentro le scarpe, come si poteva scorgere da certe pieghe perpendicolari; rappezzava il corpetto, vecchio e logoro, con ritagli di cotone stampato che si stracciavano al minimo movimento. I creditori le facevano continue scenate senza tregua: li trovava per via, sulle scale. Passava le notti a piangere ed a pensare. Gli occhi lucidissimi, un dolore fisso nella spalla, nella parte alta della scapola sinistra, tossiva assai. Odiava profondamente papà Madeleine, e non si lagnava. Cuciva diciassette ore al giorno; ma un impresario del lavoro carcerario, facendo lavorare a minor compenso i prigionieri, fece ribassare di colpo i prezzi, il che ridusse a nove soldi la giornata delle operaie libere. Diciassette ore di lavoro e nove soldi al giorno! Ed i suoi creditori erano più spietati che mai; il rigattiere, che aveva ripreso quasi tutti i mobili, le diceva continuamente: “Quando mi pagherai, imbrogliona?” Ma che volevano da lei, Dio buono? Si sentiva perseguitata e diventava una bestia selvatica. In quel tempo, Thénardier le scrisse che aveva aspettato con troppa bontà e gli occorrevano cento franchi, subito; altrimenti avrebbe messo alla porta la piccola Cosette, sebbene convalescente della sua ultima grave malattia, abbandonandola sulla strada, al freddo, qualunque cosa avvenisse; crepasse anche, se voleva. “Cento franchi,” pensò Fantine. “Che mestiere si può fare, per guadagnare cinque franchi al giorno?”
“ Suvvìa!” concluse. “Vendiamo il resto.”
L’infelice si prostituì.