CAPITOLO VIII

865 Words
CAPITOLO VIII La signora Victurnien spende trentacinque franchi per la morale Quando Fantine vide che aveva da vivere si rallegrò: quale grazia del cielo, vivere onestamente del proprio lavoro! Si comperò uno specchio e si compiacque di rimirarvi la sua giovinezza, i bei capelli ed i bei denti; dimenticò molte cose, pensò solo alla sua Cosette ed al possibile avvenire e fu quasi felice. Prese a pigione una cameretta e l’ammobigliò a credito, sul lavoro futuro: avanzo delle sue abitudini disordinate. Poiché non poteva dire d’essere maritata, s’era ben guardata, come già abbiamo previsto, di parlare della sua bambina. In quei tempi, s’è visto, pagava con puntualità i Thénardier. Non sapendo scrivere, ma solo firmare, era costretta a far scrivere da uno scrivano pubblico; lo faceva spesso, e la cosa fu notata, tanto che nel laboratorio delle donne s’incominciò a mormorare: Fantine “scriveva lettere”, “aveva qualche intrigo”. Nessuno è meglio adatto a spiare le azioni d’una persona, di coloro cui non riguardano. “Perché quel signore viene soltanto quand’è buio? Perché il tal dei tali, di giovedì, non appende mai la chiave al gancio? Perché prende sempre per straducciuole? Perché la signora scende sempre dalla vettura di piazza prima di arrivare a casa? Perché manda a comperare una busta di carta da lettere, quando ne ha lo scrittoio pieno?” Esistono esseri che, per conoscere la chiave di codesti enigmi, del resto a loro indifferentissimi, spendono più denaro, prodigano più tempo e si danno più da fare di quanto non occorrerebbe per dieci opere buone; e questo gratuitamente, senz’essere ripagati della curiosità che colla curiosità. Seguiranno il tale o la tal’altra per giorni interi, faranno la sentinella per qualche ora buona agli angoli d’una strada, sotto la porta d’un androne, di notte, col freddo e la pioggia, corromperanno fattorini, faranno ubriacare cocchieri e servitori, compreranno una cameriera, trarranno dalla loro un portiere. E perché? Per nulla: per smania di vedere, sapere e scavar fuori, per il semplice prurito di parlare. E spesso questi segreti resi noti, questi misteri divenuti pubblici, questi enigmi in piena luce producono catastrofi, duelli, fallimenti, rovinano famiglie, schiantano esistenze, con gran gioia di coloro che hanno “scoperto tutto”, senza interesse, per puro istinto. Triste faccenda! Certe persone sono cattive unicamente per bisogno di parlare. La loro conversazione, chiacchiera nei salotti e cicaleccio nelle anticamere, somiglia a quei camini che consumano presto la legna: occorre loro molto combustibile, il prossimo. Fantine, dunque, fu osservata. Più d’una, inoltre, era gelosa dei suoi capelli biondi e dei suoi denti bianchi. Si notò che in laboratorio, in mezzo alle compagne, si voltava spesso per asciugare una lacrima; erano i momenti in cui pensava alla sua bimba e, forse, anche all’uomo che aveva amato. Poiché la rottura dei tristi legami del passato è ben dolorosa. Si constatò che scriveva, almeno due volte al mese, sempre allo stesso indirizzo e metteva lei il francobollo; e fu possibile arrivare a procurarsi l’indirizzo: Egregio Signor Thénardier, albergatore, Montfermeil. Fecero ciarlare all’osteria lo scrivano pubblico, vecchio sempliciotto incapace di riempire lo stomaco di vin rosso senza vuotare il sacco dei segreti. In breve, tutti seppero che Fantine aveva una figlia. “Doveva essere una sgualdrina”. Si trovò anche una pettegola che si recò a Montfermeil, parlò coi Thénardier e disse al ritorno: “Per i trentacinque franchi che ho speso, sono venuta in chiaro di tutto: ho visto la bambina!” La pettegola che fece questo era una gorgone chiamata la signora Victurnien, guardiana e custode della virtù di tutti. La signora Victurnien aveva cinquantasei anni ed aggiungeva alla maschera della bruttezza quella della vecchiaia, una voce tremula ed una mente stramba. Cosa strana, quella vecchia era stata giovane e, in pieno 93, aveva sposato un frate scappato dal convento col berretto rosso e passato dai bernardini ai giacobini. Secca, intrattabile, rustica, aguzza, spinosa e quasi velenosa, si ricordava sempre del frate di cui era vedova e che l’aveva saputa domare e piegare. Era una specie d’ortica, sulla quale si scorgeva l’impronta dello strofinìo della tonaca. Sotto la restaurazione era divenuta bigotta, tanto energicamente che i preti le avevan perdonato il suo frate; aveva un capitaletto destinato con gran chiasso ad una comunità religiosa ed era assai ben veduta al vescovado d’Arras. Codesta signora Victurnien, dunque, andò a Montfermeil e ne tornò, dicendo: “Ho visto la bambina.” Tutta questa faccenda richiese qualche tempo. Fantine era nella fabbrica da più d’un anno, quando una mattina la sorvegliante del laboratorio le consegnò cinquanta franchi, da parte del sindaco, avvertendola che non faceva più parte del laboratorio e invitandola, da parte del sindaco, a lasciare il paese. Era per l’appunto quello stesso mese in cui il Thénardier, dopo aver chiesto dodici franchi in luogo di sette, gliene aveva chiesto quindici, in luogo di dodici. Fantine rimase atterrita. Non poteva andarsene dal paese, perché in debito del fitto e del mobilio ed i cinquanta franchi non bastavano a soddisfare quel debito. Balbettò alcune frasi supplichevoli, ma la sorvegliante le impose d’uscire immediatamente dal laboratorio; del resto, Fantine era una mediocre operaia. Accasciata dalla vergogna, ancor più che dalla disperazione, abbandonò il laboratorio e si ritirò nella sua stanza. La sua colpa, dunque, era ormai nota a tutti... Non ebbe la forza di dire una parola. La consigliarono di cercar di vedere il sindaco; ma ella non osò. Le aveva regalato cinquanta franchi perché era buono, l’aveva scacciata, perché era giusto: ella si curvò sotto quella sentenza.
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