CAPITOLO PRIMO

3189 Words
CAPITOLO PRIMO Quando cominciai la mia carriera di servitore andai per la prima volta in una casa ove non guadagnai gran cosa, tranne l’aver imparato a compiere bene il mio servizio, ma di salario non ne vidi neppur l’ombra. Il mio padrone fallì, ed i suoi servitori soffersero di questo fatto come il rimanente dei creditori. La seconda casa ove m’impiegai, però, mi compensò della prima. Ebbi la fortuna di entrare al servizio del signore e della signora Norcross. Il mio padrone era ricchissimo; possedeva il castello di Darrock e molte terre del Cumberland, un altro podere nel Yorkshire, ed una vastissima proprietà nella Giammaica, che in quel tempo rendeva moltissimo. Alle Indie occidentali egli aveva incontrato una giovane e bella signorina, istitutrice in una famiglia inglese, ed essendone perdutamente invaghito l’aveva sposata, sebbene essa fosse più giovane di lui di circa venticinque anni. Dopo il matrimonio vennero in Inghilterra, e fu in quel tempo che io ebbi la ventura di entrare al loro servizio. Vissi coi miei nuovi padroni tre anni, essi non ebbero figli. Alla fine di questo tempo il signor Norcross morì. Egli era abbastanza avveduto per prevedere che la sua giovane vedova si sarebbe rimaritata; e perciò dispose che tutto il suo avere andasse alla signora Norcross prima, e poi ai figli che potesse avere da un secondo matrimonio, ed in mancanza di questo ai suoi parenti ed amici. Io nulla ebbi da soffrire per la morte del mio padrone, perchè la sua vedova mi tenne in servizio. Io aveva curato il defunto signor Norcross durante la sua malattia, e mi resi abbastanza utile per attirarmi la gratitudine e la benevolenza della mia signora. Inoltre essa tenne al servizio la sua cameriera – una mulatta, chiamata Giuseppina, che aveva portata con sè dalle Indie. Anche allora io sentiva una certa ripulsione per quella donna, e il suo volto oscuro e crudele non mi andava a genio, e non so capire come la signora avesse riposto in essa tanto affetto. Il tempo mostrò che io non aveva torto a diffidare di quella donna. Terminati gli affari, la mia padrona licenziò il resto della servitù, ed accompagnata da me e dalla cameriera mulatta partì pel continente. Non starò a nominare tutte le città che visitammo, ma fra le più meravigliose noterò Parigi, Genova, Venezia, Firenze, Roma e Napoli, fermandoci in alcune di queste città qualche mese. La fama delle ricchezze della mia padrona la seguì ovunque, e raccolse perciò intorno a sè una folla di signori, tanto inglesi che forestieri, i quali desideravano ardentemente guadagnarne l’affetto e sposarla. Però nessuno riuscì nell’intento, e quando dopo due anni di assenza noi tornammo in Inghilterra, la signora Norcross era sempre vedova, e non dava segno di voler mutare condizione. Andammo prima alla casa di campagna del Yorkshire, ma siccome alla mia padrona non piacque la società che trovò in quella provincia, tornammo al castello di Darrock, e facemmo gite nelle campagne vicine, e sul lago distante poche miglia. In una di queste gite, la signora Norcross incontrò parecchi antichi amici, i quali le presentarono un gentiluomo che era in loro compagnia, e che portava il nome comunissimo di Giacomo Smith. Era un giovane abbastanza bello, alto, con capelli neri che soleva lasciar crescere lunghissimi ed un paio di fedine folte, nere e lunghe che era una meraviglia a vedere. Inoltre avea l’aria di voler essere la persona più ragguardevole della compagnia. Seppi dal suo servitore che era povero, ma di buona famiglia, un vero gentiluomo per la nascita e l’educazione, sebbene i suoi modi fossero grossolani e poco riguardosi. Che cosa trovasse in lui di bello la mia padrona, non so; ma quando ella invitò i suoi amici ad accompagnarla al castello, e rimanere colà qualche tempo, comprese nell’invito anche il signor Smith. Là fu una stagione bella ed allegra e rumorosa, specialmente per lo strano gentiluomo che la faceva da padrone come se la casa fosse sua. Io era meravigliato che la signora Norcross lo sopportasse, ma fui ben più sorpreso quando intesi, alcuni mesi dopo, che dovevano sposarsi. Essa aveva rifiutato tante dozzine di signori compiti e ricchi, pareva impossibile che avesse potuto scegliere un uomo di modi strani e senza cervello come il signor Giacomo Smith. Tuttavia, al tempo prefisso si sposarono, e dopo aver passato la luna di miele in viaggio, tornarono al castello di Darrock. Io vidi subito che il padrone aveva un umore molto variabile. Alcuni giorni era famigliare perfin troppo colle persone di servizio; ma altre volte pareva invaso da uno spirito maligno; allora entrava in accessi di violenta collera, bestemmiava, e quando un’idea storta gli entrava nel capo, nè le osservazioni nè i ragionamenti potevano smuoverlo. Considerando quanto fosse di umor rumoroso ed allegro, mi sorprendeva come avesse potuto acconsentire a rimanere in un sito tanto tranquillo e noioso quanto Darrock; ma in breve ne compresi la ragione. Il signor Smith non era cacciatore, non amava i divertimenti di società, come la lettura, la musica, la conversazione; ed inoltre non aveva l’ambizione di rappresentare al Parlamento la sua provincia. L’unica cosa di suo gusto era l’andar per mare; Darrock era lontano appena sedici miglia da un porto di mare, e perciò il castello fu scelto dal signor Smith per sua residenza. Egli era tanto appassionato per le gite sul mare, e tanto ogni sua idea di piacere pareva riposare unicamente sulla memoria delle escursioni che aveva fatto in un yacht con alcuni amici, che sono persuaso che il suo scopo, sposando la mia padrona, fu di poter aver danaro a sufficienza per possedere un bastimentino. Sia come si voglia, è certo che egli fece tanto che finì per persuadere sua moglie, la quale dopo poco tempo gli regalò un bel yacht, che fu condotto da Cowes al porto di mare a noi vicino, ove rimase pronto aspettando gli ordini del signor Smith. Ci volle un certo tempo prima che sua moglie si persuadesse a donargli quel bastimento. Essa soffriva tanto del mal di mare, che non poteva seguirlo in quelle gite di piacere, ed essendo affezionatissima al marito, le rincresceva doverne vivere lontana. Però, le promise che non sarebbe andato via senza il suo permesso, ed impegnò le sua parola che le sue assenze non durerebbero più di otto o dieci giorni. In conseguenza, la mia padrona, che era la più buona e disinteressata donna del mondo, fece tacere il suo rincrescimento, e donò il yacht a suo marito facendolo in tal modo felicissimo. Mentre il padrone era in mare, la signora passava il suo tempo molto solitaria al castello. Le persone ragguardevoli della provincia erano troppo distanti per venire a visitarla sovente; quanto poi al villaggio vicino, vi era una sola persona che la mia padrona potesse invitare in casa, ed era il ministro che ufficiava la chiesa della parrocchia. Questo signore si chiamava Meeke. Era un uomo scapolo, giovanissimo e molto solitario. Aveva un volto malinconico, dolce, insignificante, era timido come una fanciulla, proprio quello che si chiamerebbe, senza essere troppo ingiusto e severo, una povera creatura, e sopratutto era il più cattivo predicatore che io abbia sentito in vita mia. L’unica cosa che facesse bene, da quello che intesi, era suonare il flauto; amava con passione la musica, tanto che sovente prendeva con sè il suo istrumento anche quando andava a spasso. Questo suo amore per la musica lo fece essere ben accolto dalla mia padrona, la quale era una eccellente pianista, ed era contenta di poter avere un suonatore come il signor Meeke per suonare in due. Oltre questa ragione, essa sentiva compassione per quel povero solitario, credo anche perchè provava da sè che cosa fosse la solitudine. Dal canto suo, il signor Meeke, deposta alla volta la timidezza, era ben contento di lasciare il suo piccolo e solitario prebisterio, per suonare al castello buona musica, in compagnia d’una bella e cortese signora, che ammirava tutta la sua perizia nel suonare il flauto. Perciò accadeva, quando il padrone era in mare, che la signora ed il signor Meeke erano sempre insieme, suonando come se avessero dovuto guadagnarsi il pane. Una amicizia più innocente di quella credo che non abbia mai esistito al mondo; pure, per quanto fosse innocente, fu la prima cagione delle sventure che accaddero in seguito. Il mio padrone trattava molto duramente il signor Meeke; l’inquieto, rabbioso e robusto signor Smith sentiva un certo disprezzo per quel debole e meschino parroco, e, ciò che era anche peggio, non si curava di nasconderglielo. Per questo, il signor Meeke (che era spaventato terribilmente dalla violenza e dai modi grossolani del padrone) veniva raramente al castello, tranne quando la signora era sola. Non facendo nulla di male, essa non curava perciò di fare nascondigli, nè pensava prendere le sue precauzioni onde il signor Meeke non si trovasse in casa all’arrivo del marito, sia quando faceva lunghe escursioni in mare, o piccole gite a cavallo nel dintorni. In tal modo ogni volta che il padrone tornava dopo una lunga o una corta assenza, nove volte su dieci trovava il parroco al castello. Da principio soleva ridere di questa circostanza e divertirsi alle spese di sua moglie e del suo compagno, con motteggi e scherzi grossolani, ma, dopo un certo tempo, il suo umore, variabile al solito, mutò. Egli divenne burbero, rabbioso e cattivo, ed infine geloso realmente del signor Meeke. Sebbene troppo orgoglioso per confessarlo, pure mostrava lo stato del suo animo troppo chiaramente perchè la mia padrona non se ne accorgesse e non ne rimanesse sdegnata. Era una donna che avrebbe fatto qualunque sacrificio qualora fosse stata presa colle buone; ma era di animo forte ed altero, che si ribellava contro chiunque le mostrasse la più piccola ingiustizia, e che si risentiva della tirannia forse un po’ troppo vivamente. Il solo pensiero che suo marito potesse sospettarla, l’accese di collera, e prese il modo più naturale in una donna, e il più disgraziato anche, per mostrare il suo risentimento. Più suo marito era scortese col signor Meeke, più essa mostrava a questo benevolenza. Ciò fu causa di serii dissensi, che finirono poi in una violenta disputa. Io non potei a meno di udire l’ultima parte dell’alterco che avvenne fra loro, perchè ebbe luogo nel giardino, sotto le finestre della stanza da pranzo, ove io era occupato ad apparecchiare la tavola per la cena. Senza ripetere le loro parole, la qual cosa io non ho il diritto di fare avendo udito per accidente ciò che non mi riguardava, posso dire, per mostrare quanto grave fosse quell’alterco, che la mia padrona accusò suo marito d’averla sposata per viste d’interesse, giacchè rimaneva con lei il minor tempo possibile ed insultandola con un sospetto che le sarebbe stato molto difficile a perdonare ed impossibile a dimenticare. Egli le rispose con parole violenti comandandole di non ricevere mai più in casa sua il signor Meeke; ed essa, dal canto suo, gli dichiarò che non insulterebbe mai un ecclesiastico ed un gentiluomo per soddisfare al capriccio di un marito tiranno. Allora egli, con una spaventosa bestemmia, chiamò un servitore per far sellare il suo cavallo, a dichiarò alla moglie che non rimarebbe più un solo minuto sotto il medesimo tetto con una donna che lo aveva sfidato, e le disse che al suo ritorno se avesse trovato in casa di nuovo il signor Meeke, egli, a forza di frustate, malgrado il suo abito ecclesiastico, lo avrebbe ricondotto alla parrocchia. Con queste parole la lasciò, e si diresse cavalcando al porto di mare ove era il suo yacht. La mia padrona rimase ferma finchè lo vide, ma appena partito cadde in una convulsione ed un pianto, che la ridussero così debole che fu portata sul letto come una moribonda. La stessa sera il cavallo del padrone fu riportato indietro da un uomo, che mi consegnò il biglietto indirizzato a me, e che conteneva queste sole parole! «Mettete insieme i miei vestiti, e consegnateli subito al latore del presente. Potete dire alla vostra padrona che faccio vela questa notte alle undici, per una corsa in Svezia. Spedite le mie lettere ferme in posta a Stocolma.» Ubbidii agli ordini ricevuti, tranne in ciò che riguardava la mia signora. Io era stato mandato a chiamare il medico, il quale era tuttora nel castello; lo consultai prima di portare quell’ambasciata. Egli mi proibì assolutamente di far ciò quella sera, e mi chiese quel pezzo di carta per consegnarlo alla signora quando crederebbe conveniente. Il messo del padrone era partito da un’ora, quando venne la donna di casa del signor Meeke con un rotolo di musica per la mia padrona. Le raccontai la partenza improvvisa del signor Smith, e la venuta del medico; queste notizie fecero arrivare, un certo tempo dopo, il signor Meeke al castello tutto agitato. Io era così in collera anche con lui per essere stato causa – sebbene innocente – della scena avvenuta, che lasciai in disparte le convenienze, e gli raccontai ogni cosa. Quel poveretto si fece rosso in volto, poi divenne pallido come un morto, e si gettò piangendo sopra una seggiola, dicendomi in mezzo ai singhiozzi: «Oh Guglielmo, cosa debbo fare adesso?» E torceva disperato le sue piccole e delicate mani, come una povera creatura che era. — Siccome voi mi chiedete il mio parere, signore, dissi, mi perdonerete, spero, se non essendo altro che un servitore, io vi dico il mio modo di vedere in questa faccenda. Conosco troppo bene la mia condizione per non avvedermi che, strettamente parlando, ho avuto torto ed ho ecceduto nei miei doveri, raccontandovi tutto l’accaduto. Ma io, signore, mi getterei nel fuoco per amore della mia padrona. Essa non ha qui nessun parente per parlarle di ciò, ed è meglio che un servitore corra il rischio di essere impertinente, anzichè nasca qualche maggior malanno, non applicando il rimedio voluto nel tempo opportuno. Ecco ciò che farei se fossi nei vostri panni, lascerei da parte le lagrime, e anderei a casa a scrivere al signor Smith, dicendogli che, nella mia condizione di ecclesiastico, non vorrei rendere ingiuria per ingiuria, ma che, per mostrargli quanto indegnamente m’avesse sospettato, cesserei dal recarmi al castello, onde non esser causa di dissensioni tra marito e moglie. Se voi mi preparate questa lettera scritta con bel garbo, da qui a mezz’ora io verrò a prenderla a casa vostra col cavallo più veloce delle nostre scuderie, ed a mio rischio e pericolo la porterò al padrone prima che faccia vela questa notte. Ora non ho altro a dirvi che chiedervi scusa della libertà che mi son presa, dimenticando il mio stato, e arrischiandomi a parlare di una cosa tanto seria come se foste mio eguale. Per essere giusti, il signor Meeke aveva un cuore, sebbene fosse piccolissimo. Mi strinse la mano e accettò il mio consiglio come il consiglio di un amico, e si avviò a casa sua per scrivere la lettera. Mezz’ora dopo andai a cercarla, ma non era ancora pronta. Il signor Meeke era tanto meticoloso ed incerto, che non aveva ancora trovato i termini all’uopo per comporla; di modo che lo trovai circondato da una infinità di brutte copie, e in una vera angoscia per trovare i termini adatti onde parlare della mia padrona. Essendo ogni minuto prezioso, gli feci premura quanto potei, senza tante cerimonie. Malgrado tutti i miei sforzi, ci volle ancora una mezz’ora prima che si decidesse a fare quella benedetta lettera. Partii al galoppo e non mi fermai che giunto al porto di mare vicino. L’orologio del porto suonava le undici e un quarto, quando giunsi colà, e allorchè mi recai sulla spiaggia non si vedeva più il yacht il quale aveva levata l’ancora dieci minuti prima delle undici, e quando l’orologio suonò esso usciva dal porto. Io l’avrei seguito con una barca, ma era una bella notte serena, e soffiava un vento fresco di terra, quindi i barcaiuoli si misero a ridere sentendo che io voleva raggiungere coi remi un yacht che aveva il vento e la marea favorevole, e che era partito un quarto d’ora prima. Tornai a casa col cuore chiuso; tutto ciò che ora poteva fare era d’impostare la lettera per Stocolma. Il giorno seguente il medico mostrò alla mia padrona il biglietto del marito, e un’ora o due dopo le giunse una lettera del signor Meeke, che le spiegava la regione per cui non sarebbe più andato a visitarla al castello, e le parlava di me come di un uomo fedele ed affezionato che gli aveva svelato la verità e nel tempo opportuno. La notizia della partenza di suo marito non afflisse la mia padrona quanto l’aveva temuto il dottore. Invece di abbatterla, risvegliò la sua collera; il suo orgoglio, m’immagino, rimase ferito dal modo sprezzante con cui suo marito le annunziava la sua intenzione di partire per la Svezia, in un biglietto scritto al suo servitore; in conseguenza, la lettera del signor Meeke non fece che irritarla maggiormente. Volle alzarsi, e appena scesa nell’appartamento inferiore, sfogò la sua collera su di me, rimproverandomi l’impertinenza con cui mi era immischiato delle cose sue, dichiarandomi che era quasi disposta a licenziarmi. Io non mi scusai, perchè rispettava troppo il suo dolore e l’irritazione che ne veniva in essa, e poi perchè conosceva la sua naturale bontà d’animo, onde era sicuro che passato il primo momento essa avrebbe fatto ammenda del suo modo ingiusto di trattare. E fu così: la stessa sera mi mandò a chiamare e mi pregò di perdonarla e di dimenticare le parole che aveva pronunziate il mattino, e fece ciò con una grazia ed una dolcezza che le avrebbero guadagnato l’affetto di chiunque. Passò quasi un mese dopo la partenza del mio padrone, e nessuna lettera sua venne al castello di Darrock. La mia padrona prese questo silenzio di suo marito con più collera che dolore, e andò a Londra, per consultare i parenti più stretti che aveva ancora colà. Lasciando la casa si fermò in faccia al presbiterio, ed entrò (secondo me, fece male ed agì con imprudenza) per dire addio al signor Meeke. Essa aveva risposto alla sua lettera, e ne aveva ricevuto altre, alle quali aveva pure risposto. Inoltre, lo vedeva ogni domenica, e si fermava a parlare con lui dopo il servizio divino. Ma questa era la prima volta che lo visitava in casa sua. Quando la carrozza si fermò, il piccolo parroco uscì in grande agitazione e tutto stravolto. — Non vi spaventate, signor Meeke, disse la mia padrona, scendendo; se voi avete promesso di non accostarvi al castello, io non mi sono impegnata a non venirvi a trovare al presbiterio. – E con queste parole entrò nella casa. La cameriera mulatta, Giuseppina, mi sedeva accanto nel sedile dietro la carrozza, e vidi un sorriso sardonico brillare nel suo volto affumicato, quando la padrona e il signor Meeke entrarono in casa. Per quanto quel piccolo parroco fosse inoffensivo, e la mia padrona onestissima, mi rincrebbe che essa avesse agito con tanta sventatezza nella posizione in cui si trovava. Dopo mezz’ora noi continuammo il nostro viaggio. La mia padrona rimase due mesi a Londra; in tutto questo tempo non si ebbe nessuna notizia del padrone.
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