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Tiffani Wilson, Centro Elaborazione Spose Interstellari, Terra
Mi sollevò. I miei seni pesanti premevano contro la superficie fredda e liscia del muro, e il suo cazzo mi penetrava. Potevo sentire il suo petto che incombeva sulla mia schiena, il che fu uno shock. Ero alta, più di un metro e ottanta, e nessuno degli amanti che avessi mai avuto – nemmeno quando ero magra – era mai stato in grado di dominarmi, di maltrattarmi, di farmi sentire… piccola. Mai. Non così.
Era enorme, era come avere un gigante dietro di me. Guardai il braccio muscoloso che mi bloccava i polsi sopra la testa, contro il muro. Quel bicipite era grosso come la mia coscia, e duro come la roccia. Così come il cazzo che mi allargava, mi riempiva fino quasi a farmi male.
“Mia.” La parola fu un ringhio a malapena riconoscibile, ma mi fece contrarre la figa attorno a lui. Era la mia risposta. Non c’erano dubbi nella sua rivendicazione. Solo un bisogno primitivo, solo lussuria.
Lussuria? Nessuno mi aveva mai desiderato in questo modo. Ero troppo alta, troppo grossa, troppo per ogni uomo. Ma questo? Lui?
Me lo spinse dentro con un movimento veloce dei fianchi, il suo corpo tonico sbatteva contro il mio con la forza di un conquistatore. Ancora e ancora. Il mio corpo intero si scuoteva all’impatto, le mie dita provavano a fare presa contro il muro, fallendo. Solo le sue mani sui miei polsi e il suo cazzo dentro di me riuscivano a tenermi in piedi. E io amavo ogni singolo minuto, la mia mente era annebbiata dal piacere e dalla voglia, dalla resa. Avrei ceduto di fronte a lui. Solo allora sarebbe stato soddisfatto.
Sì. Ero sua. E sapevo, in qualche modo, che lui era mio. Dovevo ancora vederlo in faccia, ma non m’importava. Non con le sue mani sul mio corpo e con la sua asta dura dentro di me.
“Ferma.” L’ordine fu un profondo borbottio. Alzai lo sguardo mentre mi lasciava andare i polsi. Come avevo fatto a non accorgermi che mi aveva ammanettata? Le manette erano spesse circa cinque centimetri, intarsiate con delle bellissime decorazioni in oro, argento e platino su cui non riuscivo a concentrarmi. Il suo cazzo mi sgombrava la mente da ogni pensiero.
Sussultavo ogni volta che mi martellava, come se la sua asta dura mi costringesse a cacciare l’aria fuori dai polmoni.
Provai a sollevare i polsi, a sistemarmi meglio, ma le manette non mi fecero muovere. Erano inchiodate al muro. Sapevo che era inutile, ma le tirai di nuovo, e sapere che non potevo muovermi mi fece eccitare ancora di più. Un suono che non riconobbi come mio mi fuggì dalle labbra. Al mio compagno piaceva vedere che ero sottomessa, così ringhiò in risposta e abbassò le sue labbra sulla mia nuca e sulla spalla continuando a pomparmi abbastanza velocemente da farmi impazzire – ma senza farmi venire.
“Ti prego.” Lo stavo implorando? Dio, sì che lo stavo implorando. Volevo cantare quelle parole fino a quando non mi avrebbe dato quello che volevo.
Per tutta risposta, l’uomo dietro di me, il mio compagno, mi afferrò i fianchi e mi fece allargare ancora di più, sollevandomi fino a farmi poggiare la fronte contro il muro. Mi scopò così, con un ritmo martellante, spietato, che mi eccitava come mai niente prima d’ora, portandomi sempre più vicina al limite.
Il suono bagnato della scopata, della carne che colpiva la carne, mi riempiva le orecchie mentre sentivo che lui ispirava a fatica, quasi ruggendo.
Nessuno mi aveva mai presa così. Le gambe spalancate a forza, la figa aperta e in bella mostra, completamente alla sua mercé. Sapere che non potevo fare altro che sottomettermi, che accettare quello che lui mi dava mi fece eccitare da pazzi, al punto che lo implorai di nuovo. Di toccarmi. Di mordermi. Qualunque cosa. Qualunque cosa servisse a spingermi oltre il limite, a farmi venire.
Non sapevo dove mi trovavo o chi lui fosse, ma non m’importava. Era mio. Il mio corpo questo lo sapeva, lo accettava e, quando lui sollevò una mano per strizzarmi il seno, non dissi nulla. Non volevo.
“Di più.” Io- questo corpo implorammo di andare più a fondo, più veloce. Quello che volevo per davvero, di cui avevo bisogno per davvero, era un pizzico di più: di dolore, di intensità che potesse rompermi e farmi venire su tutto il suo cazzo. Era un desiderio oscuro, uno che non avevo mai confessato a voce alta a nessuno, ma che in qualche modo conoscevo.
“No.” La sua voce profonda era animalesca. Forse, se mi fossi girata, non avrei visto un umano dietro di me, ma qualcos’altro, qualcosa… di più. Il solo pensiero mi fece correre un brivido lungo la schiena. Strinsi i pugni e provai a fare leva contro il muro per spingermi contro il suo cazzo, per costringerlo a scoparmi ancora più a fondo. Ne volevo di più. Lo volevo tutto.
“Di più. Ti prego.” Non riconoscevo la mia voce, né m’importava. Suonavo disperata e bisognosa, ed era esattamente così che mi sentivo.
Mi scopava a fondo, colpendomi l’utero, e una piccola fitta di dolore mi attraversò. Tremai, gettai la testa all’indietro sulle sue spalle e gli avvinghiai le cosce con i polpacci. Era il meglio che potessi fare per trattenerlo a fondo dentro di me, dove avevo bisogno che fosse.
Con le mie gambe attorno alle sue, mi lasciò andare le cosce per afferrarmi e sollevarmi i seni. Ogni movimento dei fianchi lo faceva scivolare in modo impercettibile, e il leggero cambio di angolazione permetteva al suo cazzo di colpirmi a fondo, ancora e ancora. Mi costringeva a restare immobile, a cavalcarlo mentre mi torturava i capezzoli, tirandoli e strizzandoli, fino a farmi gemere. La mia figa si contrasse e si rilassò, così ondeggiai i fianchi, provando a farlo andare più veloce.
“Mia.”
Cazzo. Era ossessionato! C’era bisogno di ripeterlo? Di confermarlo?
“Mia.”
Perché continuava a dirlo?
Questo corpo sembrava saperlo, sembrava capire con esattezza cosa voleva. “Sì. Sì. Sì.”
A ogni parola mi scopava più duramente, come se il mio assenso gli facesse perdere il controllo ancora di più.
Abbassò una mano e me la poggiò sul clitoride, facendomi quasi urlare di piacere. Ma la tenne lì, così, senza massaggiarla, senza stimolarla.
Le manette mi impedivano di sollevarmi, di muovere i fianchi in avanti e costringerlo a toccarmi nel modo che volevo.
La sua risatina fu così profonda che capii, che sentii qualcosa di così forte e grande che a confronto ero davvero minuscola. E sapevo che mi stava stuzzicando, voleva che continuassi a implorarlo.
“Ti prego.”
Mi teneva una mano sul clitoride, e con l’altra mi afferrò i capelli e mi tirò la testa all’indietro fino a farmi inarcare il collo, come un’offerta deliziosa. “Compagna.”
Le sue labbra mi sfiorarono l’orecchio e io tremai sentendo la promessa carnale racchiusa in quell’unica parola. Sì. Lo volevo. Era mio. Per sempre. Mi leccai le labbra, finalmente pronta a pronunciare le parole che sapevo avrebbero mandato in pezzi il suo controllo d’acciaio. “Scopami, compagno. Fammi tua.”
Un fremito gli corse lungo il petto e le braccia. Sentii il suo corpo tremare, il suo controllo infrangersi. Mi teneva per i capelli, i suoi colpi feroci avevano infranto la mia presa attorno alle sue gambe, andando dentro e fuori come una macchina, veloce, inarrestabile.
Lo tirò quasi completamente tutto fuori, e sfruttò la gravità per riportami giù, il peso stesso del mio corpo mi impalava sul suo cazzo, ancora e ancora, in una rapida rivendicazione che mi costringeva a gemere.
Quell’unico suono di resa doveva essere ciò che aspettava. Mi massaggiò il clitoride, con foga, proprio come piaceva a me.
La testa all’indietro, percorsi una spirale dentro l’oblio, cavalcando sensazione dopo sensazione mentre mi scopava come se io fossi l’unica per lui, come se non potesse mai averne abbastanza. Come se fosse morto se non mi avesse riempito col suo seme e non mi avesse fatta sua per sempre.
Mi sentii donna, mi sentii potente. Bellissima. E io non mi sentivo mai bella. Quel pensiero mi distrasse, poi lui mi lasciò andare i capelli e usò la mano libera per schiaffeggiarmi con vigore sul culo.
Mi spaventai e mi contrassi attorno al suo cazzo. Gemetti. Lui ringhiò.
Mi colpì di nuovo. In qualche modo sapeva che mi piaceva, che amavo quell’acuta punta di dolore.
Smack!
Fiducia. Sbandamento.
Smack!
Smack!
Mi sculacciò fino a quando il calore non mi percorse il corpo come un fuoco selvaggio, bruciandomi da dentro a fuori.
Quando non riuscivo più a pensare, respiravo a malapena, allora si fermò. Lentamente, così lentamente che ogni movimento durò un’eternità, si ritrasse dalla mia figa rigonfia e mi penetrò ancora una volta. Era sazio, mi coprì la schiena col suo corpo sudato, mi intrappolò, entrambe le braccia avvinghiate attorno ai miei fianchi, le sue mani smaniose di giocare con la mia figa.
“Vieni, adesso.”
Con leggerezza, mosse le dita su e già sul mio clitoride, ogni morbido passaggio era come una cannonata diretta ai miei nervi. Mi allargò le labbra della figa con entrambe le mani e le tenne così, aperte, mentre mi massaggiava il clitoride. Era stato rude, e ora era gentile. Poteva essere entrambe le cose. Poteva essere qualunque cosa.
Un orgasmo mi ruggì dentro facendomi perdere contatto con la realtà. Lontano, sentii una donna urlare, e sapevo che ero io, ma fluttuavo in una tempesta di sensazioni che teneva me e il mio compagno stretti l’uno all’altra. Lui era lì per me, mi impediva di cadere, mi teneva al sicuro mentre io lo prendevo e lo prendevo e lo prendevo.
Il mio corpo pulsava di piacere, mi sentivo la testa leggera, disorientata. Chiusi gli occhi e feci un respiro tremante, e gli spasmi cominciarono finalmente a svanire e i miei muscoli tesi a rilassarsi. E, d’improvviso, sentii freddo, mi mancava il calore del mio compagno dietro di me.
Ero nel panico, insicura. Aprii gli occhi, sbattei le palpebre, quasi accecata dalle luci di un ambiente clinico. Una donna preoccupata mi guardava da vicino. Era in piedi di fianco a me, e io ero distesa su uno strano letto. Provai a massaggiarmi il viso, gli occhi, ma non ci riuscii. Ero ammanettata a quella che sembrava una sedia da dentista enorme.
Mi guardai, e la realtà cominciò a tornare a galla. Ero coperta da un camice grigio da ospedale, aperto sul retro. Sotto ero nuda, e il culo e i fianchi mi scivolavano sopra quella che era la prova della mia eccitazione. Ero a Miami, nel centro spose aliene. Ero arrivata qui ieri dopo aver detto al mio capo nel ristorante di Milwaukee dove lavoravo che poteva andarsene a fare in culo e me ne ero andata nel bel mezzo del turno. Era stata una sensazione meravigliosa, cazzo.
Il biglietto aereo mi era costato fino all’ultimo centesimo, ma non mi importava. Avevo bisogno di un cambiamento. Di un cambiamento epocale. E non avevo nessuna intenzione di tornare indietro.
“Va tutto bene, signorina Wilson?” La donna di fronte a me portava un’uniforme grigia con uno stemma bordeaux sul seno sinistro. Adesso mi ricordavo di lei. La Custode Egara. Era stata carina con me, del tutto professionale, e io l’avevo apprezzato. La maggior parte delle persone andavano fuori di testa davanti alla mia stazza, persino nell’ufficio del dottore.
La custode era bellissima e ben curata. Tutto quello che io non ero mai stata. Gli uomini probabilmente facevano la fila per chiederle di uscire, per toglierle i vestiti e per farla venire sui loro cazzi.
Io? Gli uomini mi chiedevano di tener loro a bada il cane e di andare a prendere il caffè. L’orgasmo che avevo appena avuto? Sì, era il primo che mi procurava qualcun altro da quando avevo lascito il liceo. I miei amanti erano stati pochi, l’uno ben distante dall’altro, e nessuno di loro era mai stato abbastanza forte da sollevarmi e riempirmi da dietro. O da sapere come dovesse toccarmi, come spingermi fino al limite, come stuzzicarmi, e poi prendermi fino in fondo.