Sherlock Holmes di William Gillette: dal palcoscenico al mito - di Alessandro Gebbia

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Sherlock Holmes di William Gillette: dal palcoscenico al mito - di Alessandro Gebbia Nel 1899, William Gillette, impresario, drammaturgo e attore americano, specializzato in drammi popolari e arrivato alla notorietà con rappresentazioni della Guerra Civile (tra tutte, Held by the Enemy , 1886) e, soprattutto, con Secret Service (1895) in una fortunata tournee a Londra, decide, con un indubbio colpo di genio teatrale, che erano maturi i tempi per fare di Sherlock Holmes anche un eroe del palcoscenico. Non è che l’idea fosse nuova, tutt’altro. L’impatto dirompente che l’investigatore creato da Sir Arthur Conan Doyle aveva avuto sul mondo della letteratura popolare e non, a partire dal suo esordio, nel 1887, in Uno studio in rosso , era stato tale da renderlo nel giro di pochi anni l’eroe popolare più conosciuto, oggetto ben presto di imitazioni spesso parodiche e protagonista, già nel 1893, di Under the Clock. An Extravaganza in One Act, scritta da Charles Brookfield e Seymour Hicks, andata in scena il 25 novembre al Royal Court Theatre, insieme a Good-bye di Seymour Hicks e a Faithful James di B. C. Stephenson, in cui Holmes e il Dr Watson, interpretati rispettivamente da Brookfield e Hicks, indagano, dopo aver ricevuto la visita di Emile Zola (qui chiamato Emile Nana), su presunte attività misteriose dello scrittore francese. In realtà, la presenza dell’investigatore e del suo sodale costituisce il pretesto per mettere in burletta quello che già allora iniziava ad apparire come un vero e proprio mito e per realizzare una serie di divertenti parodie degli spettacoli che avevano caratterizzato la stagione londinese, con l’imitazione dei loro interpreti più famosi, da Irving a Tree, a Wilson Barry, a Wyndham. Un mito, però, così ingombrante per il suo stesso autore da fargli decidere, dopo aver pubblicato ancora Il segno dei quattro (1890) e Le avventure di Sherlock Holmes (1892), di liberarsi del proprio eroe o, meglio, di farlo scomparire nel racconto Il problema finale, apparso nello Strand nel 1893 e, l’anno successivo, incluso ne Le memorie di Sherlock Holmes. Un mito che, nonostante la volontà di Conan Doyle, non impedì, a pochi mesi dall’uscita di scena del detective, la sua improvvisa ricomparsa in Sherlock Holmes: A Psychological Drama (or, Sherlock Holmes, Private Detective), commedia in cinque atti scritta da Charles Rogers e interpretata dalla Cordyce & Hamund’s Company che, con John Webb nei panni di Holmes, debuttò al Theatre Royal di Glasgow il 28 maggio 1894 e proseguì le repliche fino alla fine di giugno. La trama, che ovviamente riprende aspetti e caratteristiche dei personaggi usciti dalla penna di Sir Arthur Conan Doyle, è originale e narra di un folle, Wilton Hursher, che si fa ricevere dal Dr Watson e, dopo averlo tramortito, lo rapisce. Il Dr Watson perde la memoria e accondiscende a sposare la figlia del folle. Holmes si mette sulle tracce dell’amico e, quando riesce a ritrovarlo nella dimora di Hursher, non viene riconosciuto, così come il Dottore non riconosce la vera moglie e i propri figli. Intuendo che Watson è stato manipolato per trasformarlo nell’esecutore di crimini efferati, Holmes decide allora di procurare la morte apparente dell’amico. A questo punto interviene la polizia che, ritenuto Watson morto, accusa il detective del delitto e lo conduce in carcere. Holmes riesce a evadere, raggiunge l’ospedale in tempo per evitare l’autopsia di Watson e gli somministra un antidoto. Al suo risveglio, il Dottore recupera la memoria e, nel finale, mentre Hursher si uccide con il veleno, si ricongiunge, con un esito a lieto fine, con i propri cari. Nonostante la debolezza della trama e i toni melodrammatici accentuati, la commedia riscosse un indubbio successo, la cui eco raggiunse Londra e portò, a distanza di poco più di un mese, al debutto, prima a Bristol e dal 25 settembre al The Prince of Wales di Londra, di Claude Du-Val (Blend 1664-1894), un « new musical piece founded on an episode in the life of Claude Duval», come recita la locandina, scritto da Frederic Bowyer e Payne Nunn, con le musiche di John Crook e Lionel Monckton, per la Arthur Roberts & Company, dove compare un Sherlock Homes-Spotter ( sic), interpretato da H. O. Clarey. Cosa c’entri il personaggio doyliano con le vicende rocambolesche di un brigante di strada del diciassettesimo secolo appare, a prima vista, incomprensibile né lo può giustificare il fatto che ci troviamo dinanzi a un pastiche, ideato sulla scia delle celebrazioni del quattrocentesimo centenario della scoperta dell’America, che vuole mettere insieme passato e presente in una sorta di moderna rappresentazione della lotta tra il bene e il male e della leggenda di Robin Hood, in cui Holmes/Homes ancora una volta viene messo in burletta, aprendo a tutta una serie di situazioni comiche che poco hanno a che fare con il personaggio originale. Al tempo del terzo plagio subito, Sir Arthur Conan Doyle si era appena imbarcato per il suo primo tour della durata di tre mesi in Canada e Stati Uniti e fu in questa occasione che a Chicago ebbe l’occasione di assistere a una rappresentazione di Hendrick Hudson, Jr., or The Discovery of Columbus di William Gill e Robert Frazier, una “extravaganza” per celebrare i due grandi esploratori, dove compaiono due sceriffi chiamati, rispettivamente, Sherlock e Holmes. Fu questo il primo segno di come il mito sherlockiano avesse iniziato a conquistare il pubblico americano ma anche la prova, immediatamente colta da Sir Arthur Conan Doyle, di come il personaggio da lui creato avrebbe potuto trovare una sua dimensione, altra da quella della parodia, sulle tavole di un palcoscenico. Fu probabilmente allora che, nonostante il fastidio che provava nei confronti della propria creatura e le polemiche scatenate dalla decisione di farla scomparire, iniziò a lavorare all’idea di farne, però, il protagonista di una commedia. D’altro canto, lo scrittore inglese, forte proprio del successo arriso alle storie con Holmes protagonista, aveva già iniziato a volgersi verso il teatro e, poco prima di partire per il viaggio nordamericano, aveva assistito, al Savoy Theatre, alla prima di J ane Annie; or, the Good Conduct Prize, un’opera comica scritta in collaborazione con J. M. Barrie, il futuro autore di Peter Pan, che non incontrò il successo sperato. Quasi contemporaneamente debuttò Foreign Policy, una sua commedia in un atto basata sul racconto (non holmesiano) A Question of Diplomacy, in un cartellone che prevedeva cinque atti unici, tra cui uno scritto da Thomas Hardy. Di nuovo, l’accoglienza fu tiepida. L’anno successivo fu la volta di Waterloo or a Story of Waterloo, tratta dal racconto A Straggler of 15, pubblicato nel 1891 nel Black & White Magazine, che dopo il debutto a Bristol arrivò a Londra, prima al Garrick Theatre e, poi, al Lyceum, con Henry Irving come protagonista. Nonostante il buon numero di repliche e le recensioni benevole, Doyle non ottenne il ritorno economico sperato e mise da parte i propri progetti teatrali. Nel 1897, trovandosi nella necessità di reperire fondi per terminare la costruzione della nuova dimora di “Undershaw” nel Surrey, lo scrittore pensò che una commedia con Sherlock Holmes e il Professor Moriarty protagonisti sarebbe stata utile alla bisogna. Terminato il lavoro, lo offrì a Herbert Beerbohm Tree e a Henry Irving. Quest’ultimo rifiutò, Tree, invece, chiese che il testo venisse modificato e adattato al proprio stile recitativo e pretese, inoltre, di interpretare entrambi i ruoli di Sherlock Holmes e del Professor Moriarty. Doyle rifiutò i due suggerimenti, convinto che avrebbero portato a uno svilimento del personaggio centrale. Si rivolse allora all’agente letterario A. P. Watt che, ritenendo che la commedia necessitasse di un ampio rifacimento, la inviò a Charles Froham, il produttore di Broadway che, più di altri, aveva favorito lo scambio di lavori teatrali tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra, portando al successo di Londra Held by the Enemy e Secret Service, scritti, diretti e interpretati da William Gillette, il primo americano a trionfare sui palcoscenici inglesi. Froham, mentre era a Londra con la compagnia di Secret Service, si recò a far visita a Sir Arthur Conan Doyle e gli avanzò la possibilità che la commedia venisse riadattata da Gillette. Doyle acconsentì, ponendo come unica condizione che non vi fosse alcun coinvolgimento sentimentale. Froham ottenne così i diritti e il manoscritto e, quando fece ritorno in America, fece sì che Gillette si mettesse subito al lavoro, leggendo innanzi tutto e per la prima volta i due romanzi e i racconti del canone holmesiano fino ad allora pubblicati. Durante la tournée americana di Secret Service, il nuovo testo venne redatto, ampliando l’originale di Doyle con citazioni e particolari tratti dalle sue precedenti opere e introducendo delle innovazioni che, come vedremo, sarebbero risultate rivoluzionarie e vincenti. Gillette, convinto che un coinvolgimento sentimentale di Holmes con Miss Alice Faulkner potesse giovare al successo della commedia, telegrafò a Doyle «Posso far sposare Sherlock Holmes?», ricevendo la sintetica risposta «Potete farlo sposare, ucciderlo o fare di lui quello che vi pare». Tutto sembrava procedere per il meglio ma un imprevisto era in agguato. Mentre la compagnia di Secret Service si trovava a San Francisco, si sviluppò un incendio nel Baldwin Hotel, l’albergo in cui alloggiava, e il testo redatto da Gillette e conservato dal suo segretario William Postance andò distrutto insieme all’originale di Doyle. Postance avrebbe riferito in seguito che recatosi, nel cuore della notte, al Palace Hotel, per informare l’attore di quanto successo venne respinto con un «Questo albergo sta andando a fuoco? Se non, tornate domani mattina». Gillette, tuttavia, riuscì a riscrivere la commedia in un mese e, nell’autunno del 1899, tutto era ormai pronto per il debutto. Ci fu dapprima una “ copyright performance” in Inghilterra e, in tale occasione, l’attore e Doyle riuscirono a incontrarsi per la prima volta. Anche il resoconto di questo incontro suona alquanto aneddotico. Gillette si recò in treno nel Surrey e lo scrittore lo andò a prendere in calesse alla stazione; all’im­provviso, sulla banchina, invece dell’attore annunciato comparve Sherlock Holmes in persona, con tanto di pellegrina, berretto da cacciatore di cervi e pipa in bocca che, dinanzi a un Doyle stupefatto, estrasse dalla tasca la lente di ingrandimento e iniziò a studiarne il volto, affermando, come avrebbe detto il detective stesso e come riporta l’ Encyclopedia Sherlockiana, «Uno scrittore, senza ombra di dubbio!». Al che Sir Arthur scoppiò in una sonora risata, suggellando un incontro che, nel corso di quel fine settimana, si sarebbe trasformato in una amicizia duratura. Il debutto ufficiale della commedia ebbe luogo allo Star Theatre di Buffalo, nello Stato di New York, il 23 ottobre 1899 e venne seguito da una breve tournèe di rodaggio a Rochester, Syracuse, New York, Scranton e Wilkes-Barre, prima di approdare a Broadway, al Garrick Theatre, il 6 novembre dello stesso anno, dove rimase in scena fino al 16 luglio 1900. Fu un immediato successo, destinato a durare per decenni nell’interpretazione di Gillette e che, ancora oggi, sta andando in scena nel mondo di lingua inglese come in Europa. La compagnia originale dopo una lunga tournèe americana approdò a Londra. Henry Irving, che al tempo del debutto a Broadway era impegnato in una produzione a New York, si era recato ad assistere allo spettacolo e, al termine, nel camerino di Gillette, dopo essersi complimentato per l’interpretazione e per il testo, gli propose di ospitarlo al Lyceum di Londra. Dopo una serata di prova a Liverpool, la “prima” si ebbe il 9 settembre del 1901 e, nonostante la tiepida accoglienza della critica, diffidente del fatto che fosse un attore americano a impersonare colui che ormai era considerato una sorta di eroe nazionale, fu seguita da 256 rappresentazioni, prima di trasferirsi al Duke of York’s Theatre. Fu l’inizio di un mito nel mito destinato a ripetersi negli anni a seguire. Sherlock Holmes, insomma non fu soltanto la commedia che gli assicurò fama imperitura e ricchezza, se si pensa che già stagione inaugurale al Lyceum fruttò oltre 100.000 dollari, ma divenne l’archetipo dell’Holmes teatrale e, successivamente, di quello cinematografico. Gillette, sull’onda del successo, la riprese nel 1902 e nel 1903, per poi mantenerla in repertorio fino al 19 marzo 1932 per un totale di oltre milletrecento repliche, con revisioni apportate nel 1901, nel 1923 e nel 1930, come dimostrano le due edizioni a stampa pubblicate dall’autore, rispettivamente da Samuel French Ltd, Londra 1922 e Doubleday & Co., New York 1935 nella versione aggiornata. A ciò si deve aggiungere la prima, omonima versione cinematografica diretta nel 1916 da Arthur Berthelet, il primo film di produzione americana sul Grande Detective e l’unico interpretato dal suo autore. La commedia venne ripresa nel 1974 dalla Royal Shakespeare Company con John Wood nei panni di Sherlock Holmes ed ebbe grande successo a Londra e, successivamente, negli Stati Uniti, segnando il ritorno in auge del lavoro di Gillette che, da allora a oggi, ha visto oltre cinquanta differenti allestimenti in lingua inglese e, tra gli altri, in lingua francese, italiana, russa e croata. Ma cosa fu a decretare un successo che, oggi, definiremmo planetario? Ovviamente, il fatto che il protagonista rispondesse al nome di Sherlock Holmes. Poi, la trama che si ispirava a Uno studio in rosso e ai racconti Il problema finale, Uno scandalo in Boemia e L’avventura dei faggi rossi e narrava di una famiglia aristocratica che ingaggia il detective per recuperare alcune lettere compromettenti in possesso di Alice Faulkner, una giovane che, con quei documenti, avrebbe potuto vendicare la sorella, ingannata da un nobile e condotta alla morte. Alice, a sua volta, è stata raggirata da una coppia di truffatori e tenuta prigioniera in casa dove viene continuamente maltrattata perché continua a tenere segreto il nascondiglio dei documenti. A questo punto, Holmes interviene e cerca, a sua volta, di ingannare i due malfattori che si rivolgono al Professor Moriarty per recuperare ciò che cercano e per fare uccidere Holmes. Il loro piano e quello di Moriarty, però, falliscono e Holmes recupera le lettere compromettenti ma poi si rifiuta di consegnarle ai propri committenti in quanto, innamoratosi di Alice, ritiene che dovrebbe essere lei a decidere se restituirle. Quando Sir Edward Leighton, emissario della Corona e il Conte Von Stalburg gli chiedono conto delle indagini, Holmes ammette di aver fallito. Alice, che ha sentito tutto, si pente e restituisce le lettere: il suo gesto induce Holmes a iniziare con lei una storia d’amore. Ed è proprio l’atmosfera romantica che avvolge e conclude la commedia, che rappresenta con ogni probabilità il terzo motivo di successo in quanto restituisce e amplifica una affettività e una capacità di amare, sconosciuta in Holmes, se non per l’inclinazione nei confronti di Irene Adler. Quella che «Per Sherlock Holmes è sempre la donna», come leggiamo nel­l’ incipit di Uno scandalo in Boemia, il racconto in cui compare per poi sparire per sempre non dopo aver lasciato un segno indelebile nella vita del detective, tanto che lo stesso la ricorda in altre quattro avventure ( Un caso di identità, L’avventura del carbonchio azzurro, L’avventura dei cinque semi d’arancio e L’ultimo saluto). Un innamoramento – quello originale e quello “apocrifo” – quasi adolescenziale che smantella la dura corazza che il Grande Detective si è costruito addosso e lo rende più umano, più fragile, certamente più simpatico a quel pubblico femminile che di certo avrà sparso lacrime di commozione all’epilogo della vicenda. Un innamoramento, però, all’inizio poco gradito da Doyle, che lo accettò solo dopo il grande successo della commedia quando ebbe a scrivere «Sono rimasto incantato dalla commedia, dalla recitazione e dal risultato economico». Al quarto posto, le “invenzioni” che Gillette escogitò, al di fuori del Canone, ma che, da allora in poi, divennero indissolubili dal personaggio stesso. A cominciare dal berretto da cacciatore di cervi che non compare mai nei romanzi e racconti e che l’autore trae da una illustrazione di Sidney Paget. Per proseguire con la ricca vestaglia damascata (la stessa che Gillette indossa in tante foto di scena) e che prende il posto di quella consunta e macchiata, descritta da Conan Doyle, del cui colore – grigio topo, un bordeaux scolorito? – ancora appassionati ed esperti discettano. Cosa dire poi della famosa pipa ricurva (la calabash) con il fornello di schiuma, il corpo in zucca e il bocchino in ambra che sostituisce quella piccola e dritta, di creta nera e «simile al becco di qualche strano uccello», più facile da fumare e da tenere tra i denti, trasformandosi in uno straordinario oggetto di scena, in un simbolo iconico. E ancora l’enorme lente di ingrandimento, da allora strumento e emblema di ogni investigatore moderno. Passando al testo, Gillette, rammentandosi che in Un caso d’identità (1891) viene citato un fattorino senza nome, riprende il personaggio, lo amplia e gli assegna il nome di Billy; Sir Arthur gradì questa invenzione tanto da reintrodurlo in alcune avventure successive di Sherlock Holmes e da chiamarlo, appunto, Billy. Quindi, assegna al Professor Moriarty che, fino allora era sempre stato identificato con il solo cognome, il nome proprio di Robert. Last but not least, crea la più famosa e canonica esclamazione pronunciata da Holmes, «Oh, questo è elementare, mio caro amico» riadattando e ampliando un «Elementare, mio caro amico» che lo scrittore britannico aveva inserito nella propria stesura della commedia e che si trasformerà nell’iconica «Elementare, mio caro Watson» pronunciata da Clive Brook, nella prima versione cinematografica sonora di Sherlock Holmes per la regia di William K. Howard. Tuttavia, al di là delle trovate sceniche che denotano il consumato mestiere di un abile volpe del palcoscenico, il vero e incommensurabile merito di quanto abbiamo cercato di raccontare va ascritto solo ed esclusivamente all’attore William Gillette, capace di creare un personaggio ineguagliabile grazie alla sua fisicità, a una gestualità calibrata, a una mimica in grado di esprimere ogni emozione con un battito di ciglia, uno sguardo indurito, un serrarsi delle labbra, come testimonia il film – ahimè muto – di Arthur Berthelet, da poco ritornato disponibile nella versione restaurata dalla Cinematheque française. Un personaggio capace di incantare il pubblico con le sue pose – lui americano – da dandy tardo vittoriano, con l’abilità, come scrive George Schuttler, di «agitare le braccia o di muovere il corpo, quando meno te lo aspetti, così velocemente da sembrare l’otturatore di una macchina fotografica» ma, soprattutto, con una voce secca, priva di ogni emozione, metallica e quasi monotona in grado di produrre una recitazione per molti versi unica e, sicuramente, la più vicina a quella immaginata e risuonata nell’orecchio di Sir Arthur Conan Doyle. Una recitazione talmente unica da costituire il punto di riferimento a cui si sono dovuti, giocoforza, ispirare i successivi interpreti della commedia e in generale del personaggio, sulle tavole di un palcoscenico o sullo schermo cinematografico, da Clive Brook, a Basil Rathbone, a Christopher Lee fino, sotto alcuni aspetti, a Benedict Cumberbatch. Una modalità recitativa interrotta solo da Robert Downey Jr che ci ha consegnato, nei due film diretti, nel 2009 e nel 2011 da Guy Ritchie ( Sherlock Holmes e Sherlock Holmes: Gioco di ombre), un Holmes pimpante, spiritoso, donnaiolo, rissoso. Un Holmes ovviamente poco canonico e adattato ai gusti di un’epoca postmoderna che all’apparenza sembra porre fine a un mito centenario mentre in realtà – come araba fenice – ne apre un’altra pagina.
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