Entrai.
Era un piccolo bagno privo di finestre. C’era un box doccia, un water e un lavandino senza specchio. Definirlo “essenziale” era riduttivo. Sentii la porta che veniva chiusa a chiave dietro di me. Fine dei miei progetti di fuga.
Feci i miei bisogni, bevvi, poi posai il borsone sul coperchio del water.
Entrai nel box doccia e mi lavai usando il bagnoschiuma che trovai all’interno. Mi asciugai con il telo di spugna che era appeso fuori.
Non avevo modo di pettinarmi i capelli, quindi ci provai con le dita. Non avevo uno specchio, quindi non so fino a che punto ci riuscii.
Non che avesse importanza.
Mi rimisi i vestiti che avevo quando mi avevano rapita. Jeans blu scuro, scarpe da ginnastica bianche e rosse, maglione blu e cappottino rosso.
Mi frugai nelle tasche: erano vuote.
Mi sedetti sul coperchio del water e aspettai che Adrian tornasse a prendermi.
Lo fece dieci minuti più tardi. Mi condusse con sé attraverso altri corridoi e altre stanze. Dei due vampiri che mi avevano rapita non c’era più traccia.
Scendemmo al piano terra e poi uscimmo.
L’aria era fredda e umida. Adrian mi portò fino a una macchina sportiva nera, mi aprì la portiera del passeggero e mi disse di allacciare la cintura.
Lo feci.
Ero stranita, stanchissima, molto affamata, debole. Pensavo che i vampiri volassero trasformandosi in pipistrelli o roba del genere. Posai la testa contro l’imbottitura del sedile.
Adrian mise in moto e percorse la strada curva che avevo visto dalla finestra fino a un alto cancello. Il cancello si aprì davanti a lui, azionato da una mano sconosciuta, e noi proseguimmo.
«Dormi» disse lui.
Non avevo bisogno dei suoi ordini per farlo. Ero semplicemente esausta, debole da far paura.
Mi svegliai quando sentii una portiera della macchina che sbatteva. Aprii gli occhi. Eravamo in un parcheggio sotterraneo.
Adrian mi aprì la portiera e mi slacciò la cintura di sicurezza. Mi prese in braccio, ovviamente senza alcuno sforzo. In effetti, non credo che sarei stata in grado di camminare, a quel punto.
Aprì una porta e salimmo lungo delle scale buie.
Un corridoio altrettanto buio. Una porta. Una cucina.
«Nutritela» disse Adrian, posandomi su una sedia.
Alzai lo sguardo. Era una grande cucina moderna, nei toni dell’azzurro polvere. Non era molto vampirica. Vicino al frigorifero c’era un uomo sulla sessantina in divisa da cameriere o forse da maggiordomo. Accanto ai fornelli c’era una bella donna sulla quarantina, in divisa anche lei.
«Sì, signore» rispose l’uomo, con un cenno.
«Dopo le darete una stanza. Occupatevi di lei. Sarò nel mio studio. E, Glenda?»
La donna annuì.
«Quando avete finito, passa da me».
Rividi il mio “padrone” due giorni più tardi. Lasciate che vi descriva brevemente la situazione in cui ero.
Ero in una grande casa, arredata con gusto moderno, ma poco illuminata. Tutte le finestre erano chiuse da pesanti tende blu.
In ogni caso, dell’abitazione non avevo visto quasi niente, perché ero stata portata quasi subito in “camera mia”.
Quella prima sera, i due servitori umani di Adrian mi avevano dato da mangiare ogni genere di cosa, gentili ma non calorosi. Non avevano risposto a nessuna delle mie domande.
La donna, come avevo saputo subito, si chiamava Glenda. Era alta, bionda ed era ancora una bellezza, nonostante non fosse più giovanissima. L’uomo si chiamava Henry ed era meno comunicativo di lei. Si riferivano ad Adrian chiamandolo “il signore” o “il signor Adrian”. Molto rispettosi, molto cauti.
«Te ne parlerà il signor Adrian» era la loro risposta standard a ogni mia domanda.
“Camera mia”, in realtà, era la mia prigione.
Era al terzo piano, troppo in alto perché mi venisse voglia di lanciarmi giù dalla finestra. La finestra, in ogni caso, era del tipo che non si apre del tutto, quindi per uscire di lì avrei dovuto rompere il vetro. Glenda mi spiegò in tono neutro che c’era un allarme.
Per il resto, in “camera mia” c’era un letto, un armadio, una piccola libreria e un bagno. In bagno non c’erano rasoi né forbicine.
Quasi risi, notando quel dettaglio. C’era comunque un phon e una vasca. Se avessi voluto uccidermi avrei potuto farlo con l’elettricità.
Se guardavo fuori dalla finestra, tutto quello che vedevo erano le chiome degli alberi. Nonostante questo ero sicura che fossimo a Londra, in città, perché sentivo il rumore del traffico in lontananza.
I ritmi della casa erano invertiti rispetto al normale, ma io, avendo lavorato in un club notturno, quasi non me ne accorsi.
Mi venivano portati tre pasti al giorno. Glenda mi portò anche degli antibiotici e degli antidolorifici per il polso.
Infine, mi diedero dei vestiti. Slip e reggiseno semplici e neri. Camicetta bianca, gonna a tubo nera, piuttosto aderente. Collant velati neri. Scarpe decolté con il tacco a spillo.
Una cameriera privata, di classe ma anche un po’ zoccola, pensai.
Due giorni dopo il mio arrivo, Glenda entrò in “camera mia” e mi disse di vestirmi e prepararmi. Mi truccò con mano delicata ed esperta e mi acconciò i capelli, ripristinando la forma del mio caschetto castano.
«Senti, devo vedere Adrian?» le chiesi.
Lei annuì. «Naturalmente. Il signor Adrian ti spiegherà tutto quello che devi sapere. Non puoi restare chiusa quassù per sempre, ti pare?»
«Se è per questo, gli basterebbe lasciarmi libera» ribattei io.
Glenda mi lanciò uno sguardo di disapprovazione, ma non rispose.
Quando fui pronta, mi accompagnò al primo piano. Capii subito che quelle erano le stanze private del padrone di casa. Tutto era moderno, sobrio, elegante da matti. Attraversammo un ampio salotto e diverse altre stanze, prima che Glenda bussasse rispettosamente a una porta.
«Avanti» disse la voce di Adrian.
Era il suo studio, questo era chiaro.
C’era una scrivania di legno bianco e scolorito ad arte, diverse poltroncine di design nord europeo, un lungo divano a L dalla forma squadrata, rosso. C’era una libreria su vari livelli, una lampada ad arco di metallo, un tappeto a disegni geometrici.
E poi c’era Adrian stesso, seduto sul divano con le gambe accavallate e un libro appoggiato accanto.
Indossava un completo sartoriale blu scurissimo, ma era senza cravatta.
«Siediti, Sarah» disse, indicando l’altro lato del divano. «Glenda, ti dispiace?» aggiunse, facendole segno di avvicinarsi. «Ho fame».
«Sì, signore» rispose lei, con un sorriso disponibile. Si avvicinò a lui e si slacciò i primi dieci bottoni della camicia. Poi estrasse uno dei seni dal reggiseno. Notai che erano candidi e perfetti, con i capezzoli duri e rosei.
Adrian si piegò verso di lei e le succhiò il seno che aveva esposto sollevandolo appena con una mano. Vidi la sua epiglottide scattare un paio di volte. Stava bevendo. Glenda socchiuse la bocca ed emise una sorta di sospiro. Sembrava trovare la cosa piacevole, forse molto piacevole.
Adrian si scostò. Su un lato del seno di Glenda c’erano due punture. Lui si morse delicatamente la punta di un dito e chiuse con il suo sangue quelle due punture.
Si chinò di nuovo per leccarla.
Poi si appoggiò allo schienale del divano, le rivolse un piccolo sorriso e disse: «Grazie, puoi andare».
Glenda uscì dalla stanza, riallacciandosi la camicia.
Adrian si voltò verso di me.
«Come sta il tuo polso?» mi chiese.
«Credo che stia guarendo. A volte mi fa male».
Lui lasciò vagare lo sguardo sulla libreria. «Con gli schiavi consenzienti è più facile» disse, quasi pensieroso. «Sono moltissimi anni che non ho più un prigioniero. Glenda, Henry... Sorren, prima che morisse... sono qua per loro volontà. Myra e Vlan non condividono la praticità di questa scelta. Preferiscono la buona-vecchia preda scalciante. Scelgono le persone come te: sradicate, senza amici, straniere... da dove vieni, tu?»
«Da Inverness» risposi. E non ero “straniera”, ero “scozzese”.
Lui sorrise lievemente. «Da quanto tempo sei a Londra?»
«Un anno, più o meno».
«Il tuo lavoro era...»
«Temporaneo, diciamo» risposi, un po’ sostenuta. «Sono venuta a Londra per ballare, ma non è facile. Il Dreamland mi consentiva di pagare l’affitto».
Lui inarcò le sopracciglia, ma non disse niente.
Non disse quello che, in fondo, sapevo che pensava, come lo pensava chiunque sentisse la mia storia: che non avrei mai smesso e sarei finita a fare marchette.
«No, chi può saperlo» disse lui, con una scrollata di spalle. Si alzò e iniziò a camminare per lo studio. Era così silenzioso ed elegante da sembrare un felino. «Ma, vedi, non posso liberarti» aggiunse.
Mi guardò. «Non ho intenzione di scendere nei dettagli, ma se ti liberassi moriresti comunque in poche settimane, e non sarebbe una bella morte. Potrebbe essere pericoloso anche per me e per i miei conoscenti. Quindi, vedi, bisogna prendere una decisione».
«Perché morirei comunque in poche settimane?» chiesi io. «No, non mi interessa se non vuoi scendere nei dettagli. In pratica mi stai dicendo che preferiresti che io restassi qua di mia volontà, ma come faccio a decidere una cosa del genere se non capisco perché dovrei deciderla?»
Adrian si mosse veloce. Me lo trovai davanti, dritto accanto alle mie gambe, che mi guardava dall’alto. «Perché qualcuno ti prenderebbe di nuovo e ti torturerebbe per sapere quello che sai su di me o su Myra e Vlan. Anche se non sai nulla. Poi ti berrebbero fino alla morte o, a seconda, ti mangerebbero. Oppure ti lascerebbero a morire per le t*****e e basta, ma non penso che sarebbe meglio. Io credo...» disse, inclinando la testa da un lato, «...che tu abbia dato per scontato di vivere in un mondo pacifico. Magari pericoloso, ma in pace. Il mio mondo non è in pace».
Mi alzai anch’io e incrociai le braccia. Con i tacchi e tutto gli arrivavo più o meno al mento e non sono bassa . «Perché, naturalmente, io ho fatto richiesta in carta bollata per entrare nel tuo fantastico mondo».
Il suo sguardo si fece irritato. «Scegli e basta, Sarah la lap-dancer. Schiavitù morbida o schiavitù dura, non ci sono altri piatti sul menù. Se preferisci continuare a lamentarti della tua sfiga, ti consiglio la seconda, così ti sbatterò per terra, ti morderò nel vero senso del termine e ti berrò fin quasi alla fine. Ho fame, non importa se mi sono appena nutrito. Ho sempre fame. Posso bere quattro esseri umani e avere ancora un po’ di languorino. Il fatto che mi controlli non significa che non voglia mangiarti».
Feci un passo indietro e ricaddi sul divano. Il tono in cui aveva detto di avere fame mi aveva terrorizzata. Cercai di scivolare più in là, ma lui mi fermò prendendomi per il polso sano.
Si accucciò davanti a me, continuando a tenermi.
«D’altro canto, puoi restare di tua volontà. Probabilmente non è il tuo tipo di lavoro, ma puoi vederlo come un lavoro. Stipendiato, regolare, eccetera. In questo caso, non ti farò male». Ci pensò per un istante, e poi corresse: «Non ti farò molto male».
Iniziai a tremare e gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Venivo da tre giorni di terrore e non ce la facevo più.
Lui sbuffò, mi lasciò il polso e tornò a sedersi accanto a me. Mi allungò un fazzoletto.
«Sarah, odio perdere tutto questo tempo».
Annuii, cercando di ricompormi, consapevole che se si fosse stancato davvero non sarebbe stato bello.
«Okay, che cosa devo fare?»
Adrian tornò a guardarmi con la sua espressione distante ed educata. «Aiutare Glenda e Henry nella gestione della casa. Potrai uscire, è ovvio, ma avrai addosso un segnalatore, per la tua sicurezza».
Annuii.
«Ma il tuo compito principale sarà prenderti cura di me, quando sono a casa. Ho delle esigenze particolari».
Annuii di nuovo. Potevo fargli da merenda, se questo serviva a tenermi in vita.
Lui rise lievemente. « Naturalmente dovrai farmi da merenda, ma non solo. Non mi nutro solo di sangue. Il sangue è la base. Quello che mi sfama davvero sono tre cose». Alzò tre dita. «Dolore. Paura. Piacere».
Deglutii forte, ma lui sembrò non farci caso.
«Riguarda le sostanze che sono nel sangue. Non viviamo più nel Medio Evo, abbiamo fatto alcuni studi basandoci sul metodo scientifico. Quando una persona è spaventata, prova dolore o è eccitata, nel suo sangue si riversano delle sostanze che sono il mio vero cibo. Prima, quando ho bevuto da Glenda, è stato come... un’insalata. Ora hai paura. Se bevessi da te, adesso, saresti come... una bistecca, diciamo».
Sospirò e si alzò di nuovo. «Ma quello è un gusto che ho quasi dimenticato. Piacere e dolore, questo è quello che ti chiedo. Non troppo dolore e tutto il piacere che riesci a darmi. Patto fatto?»
Non avevo molte alternative.
Annuii.
«Molto bene» disse lui, tendendomi una mano. «Vieni con me».