1. Ragazzi di strada e «gatti allegri»-1

2047 Words
1. Ragazzi di strada e «gatti allegri» Ogni volta che trovo in giornali, riviste e dizionari bibliografici degli schizzi sulla mia vita, delicatamente tratteggiati, vengo a sapere che io, per studiare sociologia, divenni vagabondo. Ciò è molto simpatico e gentile da parte dei biografi, ma è inesatto. Io divenni vagabondo… ebbene per la vitalità che era in me, per la passione di girovagare che ho nel sangue e che non mi lasciava tranquillo. La sociologia fu puramente accidentale, venne dopo, allo stesso modo per cui ci si trova bagnati dopo un tuffo… Mi diedi alla strada perché non potevo starne lontano, perché non avevo in tasca denaro sufficiente per pagarmi il viaggio in ferrovia e perché ero fatto in modo tale che non avrei potuto lavorare per tutta la vita a uno stesso lavoro; perché… ebbene, perché era più facile agire così che altrimenti. Questo accadde nella mia città natale, a Oakland, quando avevo sedici anni. A quell’epoca avevo acquistato una certa fama nel mio circolo ristretto di avventurieri, presso i quali ero conosciuto come il Principe dei Pirati d’ostriche. È vero che quelli immediatamente fuori dalla mia cerchia, come gli onesti marinai nella baia, gli uomini della spiaggia, i padroni degli yacht e i legittimi proprietari delle ostriche mi chiamavano mascalzone, truffatore, ladro, strozzino e mi davano altri svariati epiteti, tutti molto complimentosi, ma questo non serviva che ad accrescere lo splendore dell’alto posto che occupavo. A quell’epoca non avevo ancora letto Il Paradiso Perduto, ma più tardi, quando lessi le parole di Milton «Meglio regnare all’inferno che servire in paradiso» mi convinsi che i grandi genii seguono le stesse vie. Fu in quel periodo che la fortuita concatenazione degli eventi mi lanciò verso la mia prima avventura sulla strada. Accadde che proprio allora non vi fosse nulla da fare con le ostriche; che a Benicia, a quaranta miglia di distanza, vi fossero delle coperte che volevo ritirare, e che a Port Costa, a qualche miglio da Benicia, giacesse ancorata una barca rubata, sotto la custodia del commissario. Ora, questa barca era di proprietà di un mio amico chiamato Dinny Mc Crea, ed era stata rubata e lasciata a Port Costa dal piccolo Whiskey, altro amico mio. (Povero Whiskey Bob; soltanto l’inverno scorso il suo corpo fu raccolto sulla spiaggia crivellato di colpi da mano ignota). Io ero venuto già dalla parte superiore del fiume poco tempo prima e avevo portato a Dinny Mc Crea notizie della sua barca, e Dinny Mc Crea mi aveva offerto prontamente dieci dollari se gliel’avessi riportata a Oakland. Il tempo mi pesava. Mi sedetti sul pontile e ne parlai con Nickey il Greco, un altro ozioso pirata d’ostriche. «Andiamo?» gli dissi, e Nickey acconsentì volentieri. Lui non aveva un soldo, io possedevo cinquanta centesimi e un piccolo schifo, e investii i primi per fornire il secondo di biscotti, manzo in scatola e una bottiglia da dieci centesimi di mostarda francese (la mostarda francese in quei giorni era la nostra passione!) Poi, nel tardo pomeriggio, spiegammo la vela di bompresso e partimmo. Navigammo tutta la notte, e il mattino seguente, al levarsi di una meravigliosa marea, con un buon vento in poppa arrivammo, come un colpo di cannone su per lo stretto di Carquinez, a Port Costa. Qui giaceva la barca rubata, a meno di venticinque piedi dal porto. Passammo di fianco e ammainammo la vela; poi mandai Nickey a sollevare l’ancora mentre io cominciavo a togliere gli ormeggi. Un uomo si mostrò sul porto, e ci chiamò. Era il commissario. Subito mi venne in mente che avevo trascurato di farmi dare un’autorizzazione scritta da Dinny Mc Crea per entrare in possesso della sua barca. Sapevo inoltre che quel commissario mi avrebbe chiesto almeno venticinque dollari di compenso per aver catturato la barca a Whiskey Bob e per averla custodita; e i miei ultimi cinquanta centesimi erano stati spesi per la carne conservata e la mostarda francese; e poi il compenso avrebbe dovuto essere di soli dieci dollari. Lanciai uno sguardo verso Nickey; tentava di smuovere l’ancora con grande sforzo. «Strappala!» gli sussurrai, mi voltai e risposi gridando al commissario. Il risultato fu che lui ed io parlammo contemporaneamente, mentre i nostri pensieri, così espressi, si urtavano a mezz’aria confusamente. Il commissario si fece più imperativo e mi fu giocoforza ascoltarlo. Nickey stava sollevando l’ancora con tale sforzo che temetti gli si spezzasse una vena. Quando il commissario ebbe finito con le sue minacce ed i suoi avvertimenti, gli chiesi chi fosse. Il tempo che perdette nel dirmelo rese possibile a Nickey di strappare l’ancora. Facevo dei calcoli rapidi: ai piedi del commissario scendeva una scaletta, e a questa era ormeggiato uno schifo; dentro c’erano i remi: ma era sotto catenaccio; giocai tutto su quella circostanza. Sentii la brezza sulle guance, vidi l’alzarsi della marea, guardai gli ormeggi che ancora trattenevano lo schifo e corsi con gli occhi su per le corde sulle quali si issava la vela; vidi che tutto era libero; allora smisi di simulare. «Addosso» gridai a Nickey, e saltai agli ormeggi sciogliendoli e ringraziando la mia buona stella che Whiskey Bob li avesse allacciati con nodi semplici anziché doppi. Il commissario si era calato giù per la scaletta e stava armeggiando sul catenaccio con la chiave. L’ancora venne a bordo e l’ultimo laccio fu allentato nello stesso momento in cui il commissario liberava lo schifo e saltava ai remi. «Drizza l’antenna e issa la vela!» comandai al mio equipaggio, lanciandomi nel frattempo sulla corda dell’antenna. La vela fu issata rapidamente. L’assicurai e corsi al timone. «Distendila» gridai a Nickey dall’alto. Mentre il commissario stava per raggiungere la poppa della nostra barca, un soffio c’investì spingendoci al largo. Fu sublime! Avessi avuto una bandiera nera l’avrei issata in segno di trionfo. Il commissario, in piedi nello schifo, faceva impallidire lo splendore del giorno con la vivacità del suo linguaggio. Si lagnava anche di non avere un fucile con sé. Vedete, era un altro rischio che avevamo evitato! Però noi non rubavamo la barca; non era del commissario. Gli facevamo perdere soltanto l’introito di una tassa, la sua forma speciale di estorsione. E non lo facevamo nemmeno per noi; era per il nostro amico Dinny Mc Crea. Raggiungemmo Benicia in pochi minuti e poco più tardi erano a bordo anche le mie coperte. Ancorammo la barca all’estremità del porto, in un punto da cui avremmo potuto scorgere chiunque ci avesse inseguito. Non si sa mai; poteva darsi che il commissario di Port Costa avesse telefonato a quello di Benicia. Nickey ed io tenemmo un consiglio di guerra. Ci stendemmo a bordo nel caldo sole, con le guance carezzate dalla brezza, mentre le onde s’increspavano e si arricciavano intorno a noi. Non era possibile ripartire per Oakland prima del pomeriggio, quando fosse cominciata la bassa marea. Pensammo però che il commissario avrebbe potuto tener d’occhio lo stretto di Carquinez quando la marea fosse cominciata e che l’unica cosa che ci restava da fare era di aspettare il seguente riflusso, alle due del mattino: soltanto allora avremmo potuto sfuggire nell’oscurità con sicurezza al Cerbero. Così restammo sdraiati a bordo, fumando sigarette, felici di essere al mondo. Sputai dal parapetto della barca per conoscere la rapidità della corrente. «Con questo vento e questo riflusso potremmo navigare dritto sino a Rio Vista.» «E c’è tempo buono sul fiume» disse Nickey. «E sul fiume l’acqua è bassa» dissi io. «È l’epoca migliore dell’anno per andare a Sacramento.» Ci mettemmo a sedere e ci guardammo in faccia. Il vento di ponente ci si riversava addosso, inebriandoci come fosse vino. Sputammo entrambi dal parapetto per indagare la corrente. Credo che fu tutta colpa di quella marea e di quel vento favorevole che rispondevano all’appello del nostro istinto marinaresco. Se non fosse stato così l’intera catena di avvenimenti che doveva lanciarmi sulla strada si sarebbe spezzata. Non scambiammo una parola: levammo gli ormeggi e issammo la vela. Le nostre avventure per il fiume fino a Sacramento non fanno parte di questo racconto. Toccammo la città di Sacramento e ci ancorammo. L’acqua era buona e passammo più di un’ora a bagnarci; poi su di un banco di sabbia, al di là del ponte ferroviario, ci unimmo a un gruppo di ragazzi che stavano anch’essi nuotando. Nelle soste ci stendevamo sulla spiaggia a parlare; parlavano in modo diverso dai ragazzi ai quali mi univo di solito; il loro era un linguaggio nuovo per me; erano dei «ragazzi di strada» e ad ogni parola che pronunciavano l’attrazione della strada mi prendeva sempre più imperiosa. «Quando ero giù in Alabama…» cominciava a dire un ragazzo; o un altro: «Venendo su sulla C. e A. da K. C.» [1] ; al che un terzo ragazzetto aggiungeva: «Sulla C. e A. non ci sono gradini sui ‘ciechi’.» E io restavo silenzioso sulla sabbia ad ascoltare. «Fu in una piccola città dell’Ohio, sul lago Shore e al Michigan meridionale» cominciava un ragazzo, e un altro: «Non avete mai viaggiato sulla Cannon Ball sul Wabash?» e un altro ancora: «No, ma sono stato sulla linea del White Mail partendo da Chicago…» «Parlate di viaggi ferroviari… Aspettate, finché avrete viaggiato nella Pennsylvania sulla grande linea a quattro binari; niente cisterne d’acqua; si prende l’acqua lungo la corsa… Quello è viaggiare!» «La Northern Pacific è una cattiva linea, ora.» «A Salina la polizia è ostile. Sono stato preso a El Paso con Moke Kid. Quanto all’elemosina aspettate di arrivare in un paese francese oltre Montreal; non una parola d’inglese, voi dite: ‘Mongée, Madame, mongée, ne parlo fransé’ e vi fregate lo stomaco mostrando d’aver fame; e la signora vi dà una fetta di lardo e una porzione di funghi secchi in umido.» Io continuavo a rimanere sdraiato sulla sabbia ad ascoltare. Quei ragazzi coi loro racconti facevano impallidire lo splendore della mia gloria di pirata d’ostriche. Sentivo il richiamo di un nuovo mondo ad ogni parola pronunciata; un mondo di strade ferrate e di vaporiere, di bagagliai-ciechi e di pullman, di poliziotti, di guardiafreni, di colluttazioni e di fughe; il mondo dei vagabondi d’ogni specie. E da ogni parola emanava il fascino dell’avventura. Molto bene; mi sarei dato a questo nuovo mondo. E mi schierai con questi ragazzi di strada. Ero forte come tutti loro; altrettanto svelto e vigoroso, e il mio cervello era buono quanto il loro. Dopo il bagno, poiché scendeva la sera, si vestirono e tornarono in città. Andai con loro. I ragazzi cominciarono a battere le strade principali, chiedendo l’elemosina. Non avevo mai mendicato in vita mia, e mendicare fu per il mio orgoglio la più difficile prova quando mi diedi alla strada. Avevo delle idee assurde sul mendicare. La mia filosofia di allora mi faceva considerare il furto cosa più degna dell’elemosina e consideravo anche il furto cosa più attraente perché il rischio e la punizione erano proporzionalmente più grandi. Come pirata d’ostriche mi ero già guadagnato tante condanne dalla giustizia che se avessi dovuto scontarle tutte avrei dovuto passare un migliaio d’anni nelle prigioni di Stato. Rubare era cosa grande, mendicare era sordida e detestabile cosa. Ma mi trasformai talmente nei giorni successivi che arrivai a considerare l’elemosina un esercizio festoso, una gara dello spirito, un esercizio dei nervi. Quella prima sera però non mi ci potei adattare, e il risultato fu che quando gli altri ragazzi ebbero il denaro per andar a mangiare in una trattoria, io non ne avevo. Il piccolo Meny, credo sia stato lui, mi diede i soldi necessari e mangiammo tutti insieme. Ma mentre mangiavo, meditavo. Chi accetta, si dice, è tristo quanto il ladro stesso. Il piccolo Meny aveva mendicato e io ne approfittavo. Pensai decisamente che chi riceveva era peggiore dello stesso ladro e che la cosa non si sarebbe più ripetuta. E fu così. Il giorno dopo presi coraggio e mi misi anch’io a mendicare, e così feci i giorni seguenti. L’ambizione di Nickey il Greco non era di darsi alla strada. Non aveva successo quando mendicava e una notte trovò posto su una zattera e andò sul fiume verso San Francisco. L’ho incontrato solo una settimana fa a un torneo di pugilato. Si è fatto strada; sedeva a un posto d’onore nel ring; ora è un manager di campioni e ne va orgoglioso. È quasi un’autorità nel mondo dello sport.
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