Chapter 2

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II — Sono vedova, — disse. — E questo è un fatto. E che sto per risposarmi è un altro fatto. A questo punto s’interruppe e sorrise a un pensiero che le era passato per la mente. Al dottore quel sorrisetto non aveva fatto una buona impressione: c’era qualcosa di triste e al tempo stesso di crudele. Si formò pian piano e sparì di colpo. Cominciò a chiedersi se aveva fatto bene a dare retta alla prima impressione. Con una po' di rimpianto rivolse la mente ai pazienti così normali e alle malattie accertabili che lo attendevano. La signora continuò. Al mio nuovo matrimonio, — disse, — è legata una circostanza imbarazzante. L'uomo con il quale devo sposarmi era fidanzato con un’altra quando noi due ci incontrammo, accadde all’estero, lei era una donna che apparteneva alla sua famiglia, era imparentata con lui, era la cugina. Io le ho rubato l’innamorato senza malizia e ho distrutto tutte le sue speranze. Senza malizia, perché non sapevo nulla del suo fidanzamento se non dopo che avevo accettato la sua proposta. Quando in seguito ci siamo incontrati di nuovo in Inghilterra — e quando c’era pericolo che venissi a sapere tutto — lui mi ha detto tutta la verità. Naturalmente ci rimasi molto male. Ma lui aveva una scusa pronta: mi fece vedere una lettera della donna che lo liberava dall’impegno che aveva con lei. Non ho mai letto in vita mia una lettera più bella, più comprensiva. Ho pianto, io che non riesco a piangere neanche per i miei problemi personali! Se la lettera gli avesse lasciato una qualche speranza di perdono, mi sarei immediatamente rifiutata di sposarlo. Ma la sua decisione — senza ira, senza una parola di rimprovero, anzi, con gli auguri più sinceri di felicità — la sua decisione, lo ripeto, non gli lasciava alcuna speranza. Fece appello alla mia comprensione, fece appello al suo amore per me. Lei lo sa come sono fatte le donne. Ho avuto anch'io il cuore troppo tenero... gli ho detto: va bene, d'accordo, fra una settimana - al pensiero rabbrividisco - ci sposeremo. Tremava davvero... fu costretta a fermarsi e a ricomporsi prima di continuare. Il dottore, che si aspettava di più, temeva di doversi sorbire una lunga storia d'amore... — Perdonatemi se vi ricordo che ci sono persone che stanno male che aspettano di vedermi, — disse. — Prima arriverete al punto, meglio sarà per me e per loro. Lo strano sorriso — tanto triste e tanto crudele allo stesso tempo — riapparve di nuovo sulle labbra della donna. — Ogni cosa che ho detto è necessaria, — rispose lei. — Lo capirete da voi fra poco. E riprese a raccontare. — Ieri, non dovete temere una storia lunga, signore, solo ieri ero ospite a uno dei vostri pranzi ufficiali inglesi. Una signora, per me una perfetta sconosciuta, arrivò in ritardo, dopo che ci eravamo già alzati da tavola e ci eravamo ritirati in salotto. Si sedette accanto a me e venimmo presentate. La conoscevo di nome, come lei me. Era la donna alla quale avevo portato via il fidanzato, quella che aveva scritto quella nobile lettera. Ascoltatemi, siete stato impaziente perché finora non vi ho detto nulla che vi potesse interessare. Ho fatto così perché voi foste sicuro che non avevo nessun pregiudizio negativo nei confronti della donna che sedeva al mio fianco. L’ammiravo, ne avevo compassione... e non avevo motivo di rimproverarmelo. È una cosa molto importante, lo capirete subito. Riguardo a lei, avevo ragione di pensare che tutto le fosse stato spiegato in modo corretto e che capisse come io non avessi alcuna colpa. Adesso che conoscete tutti i dettagli, spiegatemi, se ci riuscite, perché quando mi alzai e incrociai gli occhi di quella donna che mi guardavano, io mi sia raggelata da capo a piedi e, percorsa da brividi e tremori, per la prima volta in vita mia abbia provato un terrore che definirei mortale. Finalmente il dottore cominciava a interessarsi. — C’era qualcosa di strano nell’aspetto di quella donna? — chiese lui. — Assolutamente nulla! — fu la pronta risposta. — Ecco la sua esatta descrizione: una tipica donna inglese, occhi azzurri un po' freddi, un bel colorito roseo, modi gentili senza troppo entusiasmo, una grande bocca, guance e mento un po' paffuti: tutto qui, niente altro. — C’era qualcosa nella sua espressione, la prima volta che l’avete guardata, che vi ha sorpreso? — Solo la naturale curiosità di vedere la donna che era stata la preferita, e forse anche una certa sorpresa nel vedere una persona che non era più attraente e più bella. Ma entrambe le sensazioni erano nei limiti della buona educazione e non durarono più di qualche istante, per quanto potessi vedere. Dico “per quanto” perché la terribile agitazione che mi comunicava influenzava la mia capacità di giudicare. Se avessi potuto andare fino alla porta, sarei corsa fuori della stanza, tanto ero spaventata! Non riuscivo nemmeno a stare in piedi e ricaddi sulla sedia: fissavo quei tranquilli occhi azzurri inorridita, occhi che mi guardavano solo con una lieve sorpresa. Avevano su di me l’effetto degli occhi di un serpente. Sentivo in loro l'anima, la loro anima che guardava nella mia, che guardava inconsciamente, se cose del genere possono accadere, il suo stesso io mortale. Vi riporto la mia impressione, in tutto il suo orrore e in tutta la sua follia. Quella donna è destinata (e lei stessa non lo sa) a essere il cattivo genio della mia vita. I suoi occhi innocenti hanno visto il potenziale di malvagità nascosto in me, di cui io stessa non ero consapevole finché non le ho sentite agitarsi sotto quel suo sguardo. Se mai nella mia vita mi macchierò di colpe — se dovessi commettere qualche crimine — sarà lei a castigarmi senza (è ciò che penso) il diretto intervento della sua volontà. Ho provato tutto questo in un indescrivibile momento e immagino che si sia visto sul mio viso. Quella buona e semplice creatura fu presa da una lieve preoccupazione nei miei confronti: — Temo che il calore di questa stanza sia troppo per voi: volete provare la mia boccetta dei sali? — L’ho sentita pronunciare queste parole cortesi, dopo di che non mi ricordo nulla: perché sono svenuta. Quando ho ripreso conoscenza gli ospiti se ne erano andati, con me c’era solo la padrona di casa. Sul momento non mi riuscì di dirle nulla; la spaventosa impressione che ho cercato di descrivervi mi tornò alla mente mentre riprendevo piano piano vita. Non appena fui capace di parlare la supplicai di raccontarmi tutta la verità su quella donna, la donna di cui avevo preso il posto. Avevo la vaga speranza che non fosse davvero all’altezza della sua buona fama, che la sua nobile lettera fosse solo un abile atto d’ipocrisia, in altre parole che lei mi odiasse segretamente e fosse abbastanza furba da tenerlo celato. E invece non era così! La signora era sua amica fin da bambina, la conosceva molto bene, quasi fossero state sorelle, e dava per scontato che era buona, era innocente, incapace di odiare come la più nobile delle sante. La mia ultima speranza, avere avuto solo un normale presentimento di pericolo in presenza di una persona ostile, andava per sempre in pezzi. Mi restava da fare ancora una cosa e la feci. Andai dall’uomo che sto per sposare. L’ho supplicai di lasciarmi libera dalla mia promessa. Ma lui rifiutò. Ho detto allora che avrei rotto il fidanzamento. A quel punto lui mi ha mostrato le lettere delle sue sorelle, dei suoi fratelli e dei suoi più cari amici: lo imploravano tutti di pensarci bene prima di sposarmi, riferendosi tutti a voci che giravano su di me a Parigi, a Vienna e a Londra, che sono altrettante bugie. Vigliacche e false. — Se ti rifiuti di sposarmi, — mi disse, — riconosci che queste voci sono vere, riconosci che hai paura di affrontare la società nei panni di mia moglie. — Che cosa potevo rispondere? Non c’era modo di smentirlo, aveva ragione: continuando a rifiutarmi avrei solo ottenuto la completa distruzione della mia reputazione. Ho accettato così di sposarmi, esattamente come avevamo predisposto. Poi me ne sono andata. È passata una notte. Ora sono qui, con l’assoluta convinzione che quella donna innocente è destinata ad avere un influenza letale sulla mia vita. Ora sono qui con un quesito, che pongo a voi, l’unica persona che mi può rispondere. Per l’ultima volta, signore, vi chiedo che cosa sono io: sono un demone che ha visto l’angelo vendicatore? O solo una povera pazza, ingannata da una mente poco equilibrata? Il dottor Wybrow si alzò dalla sedia, deciso a terminare quel colloquio. Era rimasto fortemente e dolorosamente impressionato da quanto aveva sentito. Più l'aveva ascoltata e più si era convinto della malvagità di quella donna. Aveva provato inutilmente a pensare a lei come a una persona degna di comprensione, una persona dall’immaginazione morbosamente sensibile, consapevole delle potenzialità di male che riposano nascoste in tutti noi, e che si stesse sinceramente adoperando per aprire il proprio cuore all’influenza contraria della sua natura positiva. Ma andava al di là delle sue forze. Un istinto maligno, che sembrava quasi in grado di parlare, gli diceva: attento a credere a questa donna! — Vi ho già detto ciò che penso, — disse lui. — Nella vostra mente non c'è traccia di squilibrio, né una qualche tendenza negativa, almeno a mio giudizio, che la scienza sia in grado di vedere. Quanto a ciò che mi avete confidato, posso solo dire che nel vostro caso - provo a crederlo - c’è più bisogno di un appoggio spirituale che di uno medico. Di una cosa comunque potete stare certa: ciò che mi avete detto in questa stanza resterà chiuso fra queste mura. La vostra confessione non corre alcun rischio. Lei lo ascoltò, con una certa ostinata rassegnazione, fino alla fine. — Tutto qui? — domandò lei. — Tutto qui, — rispose lui. La donna depose un piccolo rotolo di banconote sul tavolo. — Grazie, signore. Ecco il vostro onorario. E con queste parole si alzò. I suoi occhi neri allucinati si alzarono con un’espressione disperata così provocatoria e terribile nella sua muta angoscia che il dottore preferì voltarsi, incapace di reggere lo sguardo. La sola idea di ricevere qualcosa da lei — non solo soldi ma una qualsiasi cosa toccata da lei — gli ripugnava. E sempre senza guardarla le disse: — Riprendetevi i soldi, non li voglio. Lei non ci fece caso, probabilmente non sentì neppure. Continuando a tenere alto lo sguardo disse piano fra sé: — Giunga pure la fine. Non ho più voglia di lottare: mi sottometto. Abbassò la veletta sul viso, si inchinò al dottore e uscì dalla stanza. Il dottore suonò il campanello e la seguì nell’atrio. Non appena il domestico ebbe chiuso la porta alle sue spalle, un improvviso impulso di curiosità — del tutto indegno di lui, e al tempo stesso del tutto irrefrenabile — si risvegliò nella sua mente. Arrossendo come un bambino disse al suo domestico: — Seguila fino a casa e scopri come si chiama. — Per un istante l’uomo guardò il padrone, senza credere alle sue orecchie. Il dottor Wybrow ricambiò quello sguardo in silenzio. Il domestico rispettoso comprese il significato di quel silenzio, prese il cappello e si precipitò in strada. Il dottore tornò nello studio. Dentro di sé era scosso da un’improvvisa e violenta reazione. Quella donna aveva per caso lasciato nella casa un influsso malefico e lui ne era rimasto contagiato? Quale diavolo si era impossessato di lui tanto da renderlo spregevole agli occhi del suo stesso domestico? Si era comportato in modo vergognoso, aveva chiesto a un uomo onesto, un uomo che lo aveva servito per anni, di diventare una spia! Al solo pensiero rabbrividì e si precipitò di nuovo nell’atrio e spalancò il portone. Il domestico era scomparso, era troppo tardi per richiamarlo. Ma ecco che gli si offriva un'immediata riparazione da quel disprezzo provato per se stesso: il suo lavoro. Salì sulla vettura e andò a compiere il giro dei pazienti. Se il famoso medico avesse voluto dare un colpo decisivo alla sua reputazione, quel pomeriggio sarebbe stato quello giusto. Non si era mai presentato al un capezzale di un malato così insofferente. Mai prima di allora aveva dilazionato al giorno dopo le ricette che avrebbero dovuto essere scritte, i consigli che avrebbero dovuto essere dati immediatamente. Ritornò a casa prima del solito, completamente insoddisfatto di se stesso. Intanto il domestico era ritornato. Il dottor Wybrow si vergognava a chiedergli qualcosa. Così l’uomo riferì i risultati della sua ricerca senza aspettare che qualcuno glielo chiedesse. — La signora è la contessa Narona. Abita a... Senza aspettare di sapere dove abitava, il dottore confermò l’estrema importanza della scoperta chinando muto la testa ed entrando nel suo studio. L’onorario che aveva rifiutato senza successo era ancora nel suo piccolo involucro bianco sul tavolo. Lo sigillò dentro una busta, che indirizzò alla “cassetta delle elemosine” della più vicina corte di giustizia e, chiamato il domestico, gli ordinò di portarlo dal magistrato il giorno seguente. Ligio ai suoi doveri il domestico si fermò per fare la solita domanda: — Il signore oggi pranza a casa? Dopo un momento di esitazione il dottore rispose: — No, pranzerò al club. Di tutte le qualità morali la più facile da corrompere è la cosiddetta “coscienza”. In una certa condizione d’animo, la coscienza di un uomo è il giudice più severo capace di pronunciarne la condanna. Altre volte lui e la sua coscienza si trovano in ottimi rapporti fra loro, nella comoda posizione di due complici. Mentre usciva di casa per la seconda volta il dottor Wybrow non si curò neppure di nascondere a se stesso che quel suo mangiare al club aveva come unico fine quello di sentire ciò che si diceva sulla contessa Narona.
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