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3698 Parole
1.Avevo deciso di chiamarlo Banksy. Esattamente come l’esponente della street art più famoso e misterioso del mondo. Era un artista che mi aveva sempre incuriosito. Un tizio che faceva comparire da un giorno all’altro affreschi satirici negli angoli più impensabili delle città. Di solito usava argomenti di forte impatto ideologico. Nessuno sapeva chi fosse, ma una cosa era certa: era uno che ci sapeva fare. Un uomo o forse una donna che aveva saputo guadagnare cifre a sei zeri. Banksy era un bell’esemplare di Parson Russell Terrier, o come diavolo si chiamava. In pratica, una specie di Snoopy peloso con le zampe più lunghe. Sette chili di pelo corto e bianco, con una macchia marrone sull’occhio sinistro e la coda dello stesso colore. Orecchie morbide e pendenti, tartufo nero, snello, ma con notevole muscolatura. Insomma, un cane tenerissimo. Lui sembrò gradire il nome che gli avevo affibbiato fin da subito. Si vede che suonava bene alle sue pelose orecchie. Vi chiederete per quale motivo, uno come me il cui principio dogmatico era quello di astenersi da tutto e tutti, avesse deciso di fare questo importante passo nella sua vita. Semplice, mi ero fatto convincere da Dalia a prenderlo. Il fattore persuasione. “È così carino.” “Ma non è adorabile?” “Guarda come è affettuoso.” “Non ne potrai fare più a meno.” Queste le principali frasi ripetute come un mantra che mi avevano piegato al suo volere. La storia è più o meno andata così. Eravamo una domenica a una fiera di paese nell’entroterra Ligure. Un allevatore aveva portato i suoi amabili cuccioli di poco più di due mesi per venderli. Inutile dire che Dalia se ne era innamorata subito. Inutile dire che siamo venuti via con la bestiola, accudita dalle sapienti mani di Dalia per tutto il tragitto di ritorno. Poi lei si è ricordata di avere già un gatto in casa. La convivenza con un cagnolino non sarebbe stata all’inizio possibile. Per il felino sarebbe stato un attimo cavare un occhio a un cucciolo non ancora educato ad interagire con altri animali. Era meglio addestrarlo e svezzarlo come si deve per poi introdurlo nel nuovo ambiente a fare amicizia con il gatto. E quindi alla fine ecco che mi ero ritrovato con un cagnolino in casa. All’inizio ero molto riluttante, ma Banksy era davvero una bella sagoma. Sapeva come attirarsi le simpatie. Era una cosa che non avrei mai ammesso, tanto meno a Dalia. Il peloso mi seguiva dappertutto. Sulle prime, mi sentivo quasi a disagio, specialmente in bagno. Ora ne ero quasi contento. Un fedele compagno da cui non mi separavo più. Debbo ammettere che ho sempre avuto affinità con i cani fin da bambino. Mia zia aveva Kira, un meticcio di cane lupo. Abitava in campagna, in un paesino della Val Bormida savonese. D’estate ci giocavo molto volentieri. Quando ero in Polizia invece mi divertivo a far fare la ricerca olfattiva ai cani dell’Antidroga. Gli nascondevo pezzetti di würstel in tutta la centrale e poi li facevo cercare. Un passatempo molto divertente. Nonostante ciò, prendere un cane tutto mio non era mai stata un’opzione. Era una motivata scelta personale. La spiegazione che davo agli altri, e a me stesso, era che la vita sregolata che conducevo non mi avrebbe permesso di prendermene cura. Ora cos’era cambiato? Niente o tutto. Ritrovarsi padrone di Banksy mi obbligava a una vita equilibrata nel rispetto di tempi e compiti. A certificarlo l’iscrizione all’ASL e il microchip intestati a me. Non ero un esperto di animali. Ora però, dopo un primo periodo di addestramento ero diventato almeno consapevole delle esigenze di un animale domestico e delle cure di cui aveva bisogno. Ero anche andato presso un centro cinofilo. Era lì che avevo capito che gli addestratori si occupavano di ammaestrare i padroni, non i cani. Era poi compito del proprietario istruire l’animale con pazienza e dedizione. Usando il più classico dei metodi, quello del bastone e della carota. In pratica era come trattare con un bambino piccolo che non parlava. Non parlare non significa non comunicare. Infatti, Banksy aveva i suoi modi per farsi capire. Quando gli scappava la pipi per esempio, arrivava e mi saltava in groppa. Poi iniziava a leccarmi il collo. Era l’inequivocabile segnale che aveva la vescica piena e non ne poteva più. Stessa cosa quando sbadigliava rumorosamente. Invece quando si sedeva con sguardo fisso sul bidone delle crocchette il messaggio era ancora più esplicito. Conseguenze sulla mia vita ce n’erano state, anche se temevo peggio. Pensavo infatti che mi pesasse dover rispettare i suoi tempi. Dargli da mangiare e bere e uscire puntualmente, senza mai sgarrare, aveva anche regolato i miei di pasti. Alla fine, non era Banksy a mangiare ai miei orari, ma io ai suoi. Disciplina e responsabilità che nella vita avevo sempre rifuggito e di cui ora apprezzavo un certo lato positivo. Forse stavo invecchiando. Anche quel giorno Banksy era con me in ufficio. Era impegnato a far scricchiolare con i denti un osso di gomma blu sdraiato nella sua cuccia. In Banksy c’erano solo due tasti: On e Off. Questo a seconda che si trovasse fuori o a cuccia. Due personalità opposte, ma perfettamente conviventi, dottor Jekyll e mister Hyde Era sia un perfetto cane da lavoro, dedito e instancabile, sia un tranquillo cane da compagnia, affettuoso e coccolone. Era una giornata grigia come tante altre. L’inconfondibile odore delle brioches scongelate e di caffè macinato arrivava dal bar nella via sottostante. Chiusi le finestre che avevo aperto per cambiare l’aria. Quel mattino non stavo davvero lavorando. Guardavo soltanto fogli zeppi di dati e numeri che giacevano sulla scrivania. Dalia, la mia segretaria particolare nonché eminenza grigia di tutte le mie attività lavorative e non, si era messa in testa di aprire un sito internet. Voleva pubblicizzare l’agenzia di investigazioni Astengo per aumentare il giro della clientela. Aveva in pratica già deciso e fatto tutto lei. Nonostante ciò, mi aveva sottoposto le diverse pagine stampate in formato gigante affinché le approvassi. Era tutto un gioco delle parti tra di noi. Sapeva che per pigrizia mi sarei limitato a guardare distrattamente i primi due o tre fogli. Aveva davvero fatto un ottimo lavoro con quelli della software house a cui aveva affidato il progetto. La prima pagina conteneva la presentazione, che recitava: Michele Astengo investigazioni, vent’anni di successi professionali nelle indagini. Andando oltre compariva una descrizione più dettagliata. “L’agenzia investigativa Astengo nasce in una delle zone più caratteristiche e centrali di Genova, dall’idea di un commissario della Polizia di Stato in congedo che ha deciso di mettere la sua pluriennale esperienza a servizio di coloro che ne hanno bisogno. L’agenzia vanta un’esperienza ventennale in intelligence & financial investigations. Ha aiutato enti governativi, aziende e privati a ridurre la loro esposizione al rischio ed a identificare gli illeciti subiti. Gli uffici dell’agenzia investigativa si trovano in un condominio in centro città facile da raggiungere data la vicinanza alle fermate dell’autobus di piazza De Ferrari, ma per la posizione privilegiata assicura la massima discrezione a chi fisicamente entra in agenzia.” Tutte cose vere, ma messe in una forma tale da farmi sembrare un detective che lavora per la CIA. C’era solo una cosa che stonava. Il fatto di aver insistito sul fattore anni. Era una cosa utile per proporre un’immagine di grande autorevolezza. Ciò nonostante, mi dava un vago senso di depressione. Era per il tempo che volava via e non tornava più. Avrei dovuto farmene una ragione… Dalia voleva anche mettere una mia foto. Diceva che avrebbe avuto una funzione rassicurante per chi visitava il sito. Mi aveva portato da un fotografo professionale. Alla fine, aveva scelto un paio di immagini, entrambe in bianco e nero. Era per dare profondità d’animo ed esprimere serietà. In una apparivo molto autorevole, capelli impomatati, barba incolta a bella posta. Le rughe di espressione erano volutamente in evidenza per esprimere austerità e affidabilità. Nell’altra, invece, ero bello sbarbato e avevo un leggero sorriso che metteva in risalto le fossette sulle guance. Davo l’idea di una persona di mezz’età com’ero, ma dai modi di fare informali. Lo scopo era dare ai potenziali clienti l’impressione di una riservata confidenzialità. Su questo punto però avevo deciso che sarei stato intransigente, rifiutando di mettere la mia immagine. La buona scusa era che volevo evitare di rendermi troppo riconoscibile, vista la necessità spesso di doversi camuffare. In realtà non amavo affatto mettermi in mostra e non mi piaceva proprio l’idea di avere il mio bel faccione su internet alla mercè di chiunque. Comunque, avevo scelto la seconda foto, in cui sembravo più giovane, perché sapevo già che l’avrebbe vinta lei… In un’altra schermata si parlava pomposamente della struttura dell’agenzia. “Un team di esperti professionisti, una struttura flessibile in grado di fornire servizi per la difesa aziendale o personale, sviluppati con precisa metodologia. Staff altamente qualificato che si muove coordinando le forze per rispondere alle esigenze di qualsiasi committente, garantendo massima professionalità e riservatezza.” Se i clienti avessero saputo che il team di esperti professionisti era al momento composto da una sola persona, anzi mezza non mi avrebbero chiamato. Il fido Corrado, un uomo la cui statura non andava oltre il metro e trentacinque, non era una referenza di cui vantarsi. Dalia aveva impostato un menù con le categorie dei servizi svolti: investigazioni per i privati, per le imprese e studi legali, indagini confidenziali e matrimoniali, indagini commerciali e aziendali, controllo minori, eredità e successioni, perizie calligrafiche. Poi alcune cose in inglese, che sosteneva potessero dare un tocco di modernità al sito: Stalking, Cyber Security, Mobbing, Compliance. Lei era sicura che indicizzando il sito sui maggiori motori di ricerca e pagando un pacchetto di promozione pubblicitaria, avremmo aumentato la nostra clientela. Di solito aveva ragione e senz’altro mi aspettavo nuovo e remunerativo lavoro. Purtroppo, le incombenze della giornata non erano finite. Come ogni anno dovevo torturarmi sull’ultima dichiarazione dei redditi. Tutte le volte mi dicevo che avrei provato a farla senza l’aiuto del mio amico commercialista. E ogni anno, stremato dai falliti tentativi di compilazione, mi dichiaravo sconfitto, affidandomi a lui. In quel preciso momento ero concentrato su riquadri e sezioni: scelta per la destinazione dell’otto per mille dell’Irpef. Una cifra che doveva essere donata allo Stato o ad un’istituzione religiosa L’Istituto Buddista Italiano stava attraendo la mia attenzione più di altri. Per quanto riguardava invece il cinque per mille a enti di volontariato, ricerca o di interesse sociale avrei scelto come ogni anno l’associazione Gigi Ghirotti. Il due per mille per la cultura sarebbe andato senz’altro a un ente, ma dovevo ancora sceglierlo. Probabilmente al Teatro Stabile. Infine, per il due per mille da destinare al partito politico non avevo alcun dubbio. A nessuno. Questo era il mio contributo attivo al 730, la scelta degli enti a cui donare quei pochi spiccioli percentuali del mio modesto reddito. Vista la tensione provocata da questa dura attività intellettuale, decisi di accendermi una sigaretta. Come al solito dimenticavo il problemino che avevo avuto con la mano destra. Una delle mie avventure precedenti in cui mi avevano reciso un tendine in malo modo. Quando me ne rendevo conto, usavo più comodamente la sinistra. E proprio in quel momento di estatica meditazione chi entrò? L’ineffabile Corrado. Era il mio informatore, la persona a cui affidavo indifferentemente compiti delicati o di bassa manovalanza. Era una persona che nel politicamente corretto che va tanto di moda oggi poteva definirsi di bassa statura. Era alto, infatti, circa un metro e trentacinque. Assomigliava molto a Tyrion Lannister della serie televisiva Il Trono di Spade. Ad avvalorare questo legame elettivo aveva deciso di farsi crescere la barba. “Buongiorno Michele, come va oggi?” “Fino a un secondo fa, benissimo. Ora male.” “Sempre a fare lo spiritoso. Se non ci fossi io…” “… ci sarebbe un altro” conclusi la sua frase. “Oh, mai una parola di stima, un segno di affetto. Se non ti conoscessi bene, ti ci avrei già mandato” disse deluso. “Non ti fare troppe illusioni. Io sono ciò che vedi. Pane al pane, vino al vino. Non pensare che sia diverso.” “Bah, non ti credo. A proposito, sei riuscito a pizzicare il cinese in flagrante?” Corrado si stava riferendo alla mia piccola fissazione, la mia sindrome Cinese. Il termine veniva dal titolo di un film degli anni ’70. Raccontava di un incidente nucleare sfiorato. Era con Jack Lemmon e Jane Fonda. Si faceva riferimento a una teoria secondo la quale, in caso di incidente ad una centrale, con la fusione del nocciolo del reattore, nulla lo avrebbe potuto fermare. Avrebbe perforato la crosta terrestre e sarebbe arrivato fino in Cina. La mia sindrome era sì cinese, ma di tutt’altro genere. Il cinese era in carne e ossa. Un tizio che potevo vedere dalla finestra del mio ufficio. Lavorava nell’edificio di fronte. Un cinese che tutti i santissimi giorni era alla sua postazione. Che facesse caldo o freddo, che fosse giorno oppure notte, lui lavorava instancabilmente su diversi monitor senza mai fermarsi. Non ero mai riuscito a sorprenderlo lontano dal suo computer. Uno stacanovista che non mollava un secondo, ventiquattro ore su ventiquattro. Avevo progettato di installare delle telecamere puntate su di lui per cogliere qualche suo break, ma avevo ritenuto lo stratagemma scorretto. Dovevo combattere ad armi pari, basandomi solo sulle mie forze, senza l’ausilio della tecnologia. Sorprenderlo sul fatto con i miei occhi. Il fair play per me aveva un valore. “Figurati. Quello lavora 365 giorni all’anno” risposi a Corrado. Intanto Banksy, con il suo fiuto eccezionale, aveva sentito la presenza di cibo nel raggio di pochi metri. Era la focaccia, nel sacchetto che il mezzo uomo portava con sé. Il peloso su due zampe gli stava già insidiando il prelibato boccone. “Buono, buono” cercò di ammansirlo Corrado. Sapeva però che l’unico modo per quietarlo era dargli ciò che voleva. E Banksy l’aveva sempre vinta. “Ok, ok. Se fai il bravo, te ne darò un pezzetto.” Corrado ne strappò un ritaglio e glielo lanciò in aria. Banksy seguì la parabola e lo centrò perfettamente tra le fauci, ingoiandolo in un sol boccone “Ah, ah! Troppo forte” Corrado era in brodo di giuggiole per la soddisfazione. Occorreva però contenerlo. “Bada di non dargliene troppa come al solito, che poi non la digerisce bene. Lo vedi che non mastica neppure?” “E come fai a saperlo? Gli hai fatto la gastroscopia?” “Il veterinario si è raccomandato. Niente cibo fuori dalla normale dieta.” “Cosa vuoi che sia, per un po’ di focaccia.” “Fidati. Gli indicatori sono due: la consistenza delle deiezioni che ogni mattina devo raccogliere ed eventuali puzzette serali, che non sono un bel sentire.” Corrado scrosciò in una fragorosa risata. “Quando porti il cane fuori, fai anche l’analisi fecale?” “Tu non ti preoccupare di cosa faccio io. Dagliene solo poca.” Intanto Banksy che aveva capito di essere al centro delle nostre attenzioni, aveva iniziato a saltellare, allargando le zampe davanti a Y e abbaiando forte. “Tieni!” A Corrado piaceva giocare in quel modo, si divertiva un mondo. E, diciamolo, anche io. “Cosa stai facendo con tutti quei fogli sulla scrivania? Stai mettendo in ordine la tua vita?” “Sì, come fai a saperlo? Metto nero su bianco i miei lasciti testamentari.” “Spero che penserai anche a me.” “A questo punto si.” “Ah, bene, bene” si fregò le mani e aggiunse: “Casa tua? L’ufficio?” “No, sei su una falsa strada.” “La macchina? Un orologio?” “No, qualcosa di meglio.” Corrado iniziò a grattarsi la testa. “Non ho proprio idea?” “Ti lascio Banksy.” “Il cane?” “Perché? Non te ne prenderesti cura?” Corrado rimase un po’ in silenzio e poi rispose, cambiando espressione e tono, dal faceto al serio: “Michele, questo ed altro. Puoi stare sicuro che non gli farei mancare nulla.” Banksy sembrò capire anche in quel caso e iniziò a saltellargli davanti, appoggiandogli le zampe sul petto. Osservai il quadretto. Era proprio il cane della taglia giusta per il mezzo uomo. “Visto che mi vuoi dare questo importante compito, nominandomi di fatto padrino di Banksy, devo farti notare un problema.” “Inizi con le lamentele?” “Il fumo passivo. Ne hai mai sentito parlare?” “Quando vieni nel mio ufficio fumi a scrocco e brontoli?” “Il fumo passivo è uno dei principali inquinanti degli ambienti chiusi. L’elevata concentrazione di sostanze cancerogene mette in pericolo la salute dei bambini non meno di quella dei cani.” “Sei forse diventato un esponente del movimento animalista? Greenpeace?” “Parlo ufficialmente come tutore di Banksy.” “Vedo che ti sei calato perfettamente nel ruolo. Bravo! Ok, allora apri quella finestra” gli dissi indicandogliela. “Mi prendi in giro? Secondo te ci arrivo?” “Ah, già. Non ci avevo pensato” stavolta era vero. Mi alzai io, allora, e la spalancai. “Bene, ora che abbiamo soddisfatto le istanze del movimento animalista, mi puoi dire cosa diavolo sei venuto a fare?” “Niente. Passavo dai vicoli e ho pensato di venire a farmi dare un po’ di lavoro.” “Il solito opportunista. Mai una volta che passi solo per l’affetto che nutri nei miei confronti” lo schernii. E proprio in quel momento, improvvisamente, un fulmine a ciel sereno. Un ragazzino. Ce lo trovammo nel bel mezzo dell’ufficio. Era balzato come un felino entrando dalla finestra, ammortizzando perfettamente l’appoggio, senza fare nessun rumore sul pavimento. Come in un effetto speciale si era materializzato così dal nulla. Mancava solo la nuvoletta di zolfo. Ci guardammo tutti negli occhi. Io il ragazzino e lui me. Corrado il ragazzino e lui il mezzo uomo. Poi ci guardammo io e Corrado. E fu in quel preciso istante che il ragazzino sparì, come era apparso. Il numero di magia era finito. “Ma, hai visto quello che ho visto io? O ho avuto le traveggole?” chiesi per sincerarmi di me stesso “No, no. Hai visto bene.” “E ora dove è finito il ragazzino?” “È andato di là, nell’altra stanza.” “Da Dalia?” “No, in quella attigua.” “Nell’archivio?” “Se chiami archivio quell’ammasso di faldoni e cartacce, allora sì, proprio lì.” Mi alzai. “Forza, andiamo a vedere” feci segno a Corrado invitandolo con la mano. Entrammo nella stanza dove tenevo tutte le documentazioni dei casi passati. Scaffali di metallo zincato a incastro. Cataste su cataste di carta che mi dovevo decidere a digitalizzare o solo buttare nell’immondizia. Del ragazzino però non c’era neppure l’ombra. Perlustrammo tutto quanto, senza esito. “È sparito.” “Allora non c’è mai stato? Sarà stata la focaccia adulterata? Può trattarsi di un’allucinazione visiva?” ipotizzò Corrado “Per entrambi? Tutti e due abbiamo visto apparire dal nulla un ragazzo frutto della nostra immaginazione? Impossibile.” “Dove sarà finito allora?” disse grattandosi la testa Corrado “Ho un’idea.” Ritornai in ufficio e chiamai a me Banksy. “Vieni qui bello.” Una volta in archivio sguinzagliai l’unità cinofila. “Cerca Banksy! Cerca!” Non gli ci volle molto con il naso in azione ad individuare il punto: l’armadio dei contatori. Il cane si era seduto lì davanti e non si muoveva più. Scodinzolava, girando di tanto in tanto la testa verso di me, come a richiamarmi. “Ok, Michele. Ti copro io.” “Con cosa? Con la focaccia allucinogena?” “No, con questo sfollagente” e dopo un rumore metallico mi mostrò uno di quei manganelli telescopici da difesa personale “Va bene, al tre allora apro l’armadio.” Uno, due, tre! Non fu come aprire la scatola con il clown a molla. Nessuno scattò fuori. Nella penombra, rannicchiato in posizione fetale il ragazzino si era nascosto dietro i contatori. Era in un posto in cui forse neppure Corrado sarebbe entrato. “Esci subito fuori di qui!” gli intimai. Solo in quel momento mi accorsi che il ragazzino aveva tratti orientali. Uscì sotto la temibile minaccia dello sfollagente di Corrado e lo scortammo in ufficio prendendolo per il bavero. Si mise seduto sulla seggiola con le gambe intrecciate in modo che il piede sinistro appoggiasse sopra la coscia destra all’altezza del pube e il piede destro sulla coscia sinistra. Le mani sulle ginocchia. La posizione del Loto, il nome dal fiore acquatico che aveva numerosi petali e che cresceva negli stagni. Il fiore di loto simboleggia calma, stabilità e bellezza, caratteristiche che si potevano osservare anche nel ragazzino, nonostante tutto. Non una posizione consueta per uno che si accomoda su una sedia. Sembrava un piccolo Siddhartha in meditazione. Dalla fisionomia avrebbe potuto essere cinese. Capelli corti a spazzola neri, magrissimo, ma piuttosto alto. Non aveva più di una dozzina di anni. Indossava una maglietta colorata, un paio di pantaloni attillati scuri e un paio di scarpe da ginnastica. Non sembrava avere niente dietro, a parte se stesso. Mi colpì il suo sguardo, di uno che non te la manda a dire, nonostante l’età. “Chi sei?” iniziai con una domanda semplice. Nessuna risposta. “Secondo me non capisce la lingua” azzardò Corrado. “Temo che tu abbia ragione.” Provai ancora. “Chi sei? Perché sei qui?” Niente. Non c’era verso di cavargli una parola. Aveva uno sguardo diffidente. Non era affatto tranquillo. “Cosa hai intenzione di fare?” mi chiese Corrado. “Al momento non saprei. Non ero preparato a trovarmi un ospite inatteso in ufficio, così all’improvviso. Oggi avevo altri piani.” “La vita riserva sempre continue sorprese.” “La filosofia spicciola delle cartine dei cioccolatini non è utile ora.” Per capire chi fosse, avremmo dovuto trovare un interprete. E l’unico che al momento mi venisse in mente era il cinese di fronte. Colui che mi ossessionava da anni.
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