Terzo Capitolo
Un attimo dopo Alice si era infilata dietro di lui, senza
minimamente riflettere su come avrebbe fatto poi per uscire.
Cambridge, 16 ottobre 1936
«Lewis! Lewis, cazzo!» Sentivo la voce di Reggie e mi chiedevo perché continuasse a svegliarmi così. Cos’era? Una maledizione? «Lewis, sei vivo?»
«Ma che domande fai?»
Mentre mi sforzavo di parlare, sentii il mio corpo urlare e, con la vista ancora annebbiata, cercai di riprendere il contatto con la realtà, anche se l’unica cosa che riuscivo a sentire davvero era il dolore alla schiena. No, non proprio la schiena. Era il coccige; sentivo un dolore lancinante al coccige. Quando ripresi del tutto conoscenza, mi ritrovai alla fine della seconda rampa di scale che separava il nostro piano da quello dove alloggiavano Shay e Will.
Una rampa l’avevo fatta correndo, l’altra volando. In più, ruzzolando, dovevo aver sbattuto anche un lato del costato, perché, se provavo a piegarmi, mi faceva male anche quello. Inutile dire che sentivo la voce preoccupata di Reggie insieme alle risate sommesse di chi aveva assistito alla scena. Poi, mi ricordai perché stavo correndo e pensai che, a quel punto, Shay avesse già tumefatto la faccia di Will. Mi alzai, tradendo tutta la sofferenza della mia irruenza, ma almeno il dolore fu acuto e breve, e mi trascinai sgraziatamente per il corridoio.
«Ma si può sapere dove stai andando?» domandò Reggie, venendomi dietro.
Voglio staccare i pugni di Shay dalla faccia di Will Chase, Reggie, perché mi ha scopato nel cesso di un pub di periferia – Will, non Shay – e ora mi guarda come se volesse rifarlo e io guardo lui come a dirgli: “Fallo, qui, ora”, ma ai suoi occhi devo apparire come una specie di ritardato.
Questo pensai, ma, invece, gli riposi: «Se lo picchia, si farà espellere.»
«E quando mai te n’è fregato qualcosa di Breen?»
Lo guardai, fingendomi offeso dal commento, ma non replicai nulla. Avevo qualcosa di più urgente a cui pensare. Immaginavo Shay col collo di Will serrato in un braccio e l’altra mano che lo colpiva a suon di pugni. Forse l’aveva già atterrato e lo stava prendendo a calci, e tutto perché ero caduto dalle scale. Colpii la porta come un ossesso, urlando a Shay di aprirmi, e sentii solo la sua voce che mi invitava a entrare: forse perché, se lo stava pestando, non poteva certo venire alla porta. Allora irruppi nella stanza come una furia, malgrado la mia sofferenza. Non sapevo chi di noi fosse il più sorpreso, se io dallo spettacolo che avevo davanti o loro nel vedermi. Will era seduto sul letto a gambe tese e piedi incrociati e stava leggendo: Shay era alla sua scrivania.
«Cristo, Dalky, che ti è successo?» mi chiese quest’ultimo, fissandomi.
«È caduto, mentre correva per le scale» spiegò Reggie, dietro di me. «Pensava che volessi picchiare Chase e voleva impedirti di farti espellere.»
Aveva veramente creduto a quell’idiozia.
Anche Shay sentì la necessità di sembrare un emerito idiota: «E quando mai hai avuto a cuore la mia istruzione, Lewis?»
A quel punto, l’unico che avrebbe dovuto credere alla scusa imbarazzante era seduto sul letto, impassibile, e mi ignorava senza alcuno sforzo. Ma quando Shay mi invitò a sedermi perché: «Non hai una bella cera, amico», Will pronunciò le uniche parole di quella sera: «C’è troppa confusione, vado a leggere in biblioteca.» Non mi guardò neanche e se ne andò come se niente fosse.
Mi ero lanciato letteralmente dalle scale per salvargli il culo e l’unico culo che ci aveva rimesso era stato il mio, senza che lui mi avesse degnato di un’occhiata. Neanche quel suo maledetto modo di guardarmi. Nulla. Prima era eccitante, ora stava diventando frustrante.
Reggie invece ci teneva proprio a conoscere ogni particolare della storia. «Shay, ma non volevi picchiarlo – cito a memoria – tanto da farlo piangere?»
E così Breen ci spiegò: «Ero veramente furibondo e quando lui è entrato mi sono alzato di scatto. Chase non ha detto nulla, ma è il suo sguardo che mi ha fregato, credo.»
«Che vuoi dire?» domandai, come se dalla sua risposta dipendesse la mia vita.
«Era sicuro, tranquillo, non aveva paura di me malgrado fossi furioso, per questo ho lasciato stare. Stava lì, fiero, sapendo che l’avrei picchiato e che me l’avrebbe lasciato fare. E, poi, ho sentito la sua voce ed è stato strano. Mi ha detto solo: “Scusa” e si è messo a leggere. Non me la sono sentita.»
«Breen incantato dal fascino di Will Chase.»
«Reggie, non dire stronzate! Sono solo curioso. Non gli ho mai parlato, credevo fosse ritardato e poi scopro che ha praticamente umiliato Maxwell. Ho pensato che prima di mettergli le mani addosso avrei potuto dargli una possibilità.»
Breen aveva scelto davvero un bel momento per dire la prima cosa sensata della sua vita.
O, forse, non lo avevo mai ascoltato per davvero, prima che parlasse di Will Chase. Mi chiesi se Will avesse creduto sul serio alla mia scusa, o se avesse capito che mi ero quasi ucciso, solo per salvare lui e il suo culo maledetto. E, se l’aveva capito, perché continuava a ignorarmi?
Cambridge, 30 ottobre 1936
Non era possibile.
Non era assolutamente possibile che stessi assistendo a uno spettacolo così irritante e surreale. Shay Breen che rideva come un dannato ogni volta che il suo interlocutore parlava o gesticolava. Non era surreale che Shay ridesse, anzi, lui era la più sfinente dimostrazione che risus abundat in ore stultorum non fosse solo una locuzione latina, ma un teorema di veridicità assoluta; era surreale che l’adorabile e vivace interlocutore fosse Will Chase.
E questa era anche la parte irritante.
Ero per strada, in piedi dietro la vetrina della sala da tè, e fissavo la scena come un maniaco furioso. Will era di spalle, ma avrei saputo riconoscere quella sagoma ricciuta ovunque. E stava amabilmente conversando con Shay Breen. Lo stesso Shay di cui, qualche settimana prima, aveva detto testualmente: “Così ho pensato che avrei preferito davvero essere sordo, piuttosto che ascoltare le sue idiozie per tutto l’anno”.
Magari la coerenza non era proprio il suo forte, esattamente come la capacità di mimetizzarmi non era il mio. Vidi Shay sbracciarsi nella mia direzione per invitarmi a entrare e, una volta che fui all’interno, mi presentò in modo formale, cosa che non aveva potuto fare la volta precedente: «Lewis, lui è Will Chase, ne avrai già sentito parlare. Will, lui è Lewis Ellsworth, eravamo compagni di stanza lo scorso anno.»
Cercai di essere freddo porgendogli la mano: «Sì, frequentiamo il corso di Maxwell insieme.»
Mi strinse la mano e pensai al fatto che fosse il nostro primo contatto fisico dopo...
«Oh, Louis. Est-ce que vous êtes français?»
Non potevo credere che l’avesse detto e poi vidi nei suoi occhi quello sguardo maledetto, probabilmente nato dallo stesso ricordo.
«No. Mi chiamo Lewis, non Louis» risposi impacciato, quasi infastidito.
Mi irritava profondamente quello che riusciva a farmi con una sola frase. Con quella frase. Con quel nome, che era solo un nome e neanche il mio. Eppure, tra le sue labbra diventavo Louis, arreso a quell’invito erotico, senza scampo e senza condizioni. Incapace di controllarmi e di resistere alla sua voce. E scelsi di non retrocedere. Accettai di giocare, correndo il rischio. Restammo lì, insieme a Shay, finalmente capaci di parlare con lucidità e, nel frattempo, parlando tra di noi una lingua sconosciuta a chiunque altro.
Per la prima volta dopo settimane, in una sala da tè, Will mi regalava un’intimità che pensavo avesse dimenticato. Mi stava seducendo nel modo più subdolo e sfacciato. Lampi languidi negli occhi, la bocca a indugiare sulla tazza da tè, le dita a sfiorarsi il collo lentamente, le gambe accavallate e il gomito appoggiato al bracciolo della poltrona, per slanciare la figura. La voce roca, ma leggera, il tono controllato e quelle ciglia che mi accarezzavano, parola dopo parola, il suo sguardo sulle mie labbra mentre parlavo. Era tortura e piacere insieme, ma avevo resistito e mi ero lasciato condurre in quella danza eccitante. Quando uscimmo, disse che doveva passare in biblioteca e si incamminò, ma si fermò quasi subito e mi chiese se avessi da accendere. Tirai fuori dalla giacca i fiammiferi e gli andai incontro.
«Accendimi tu.» Lo disse a voce bassa, la malizia nello sguardo.
Era Dio e stava giocando con ogni desiderio che sapeva avrei provato nelle ore successive. Si avvicinò con la sigaretta tra le labbra e gli occhi colorati di sesso, e mi sfiorò l’avambraccio, come se il fiammifero che mi si consumava tra le dita non fosse sufficiente. Benzina sul fuoco era e lo sapeva.
Mi guardò quasi distratto: «Non tremare tutte le volte, Ellsworth.»
Era così che faceva. Tutte le volte. Seduceva e poi rendeva tutto una suggestione o un dispetto. E aveva ragione: ogni volta mi lasciavo trascinare, ogni volta entravo in quel baratro di ambiguità e desiderio. Senza pensare.
Pareva un pozzo assai profondo.
Cambridge, 14 novembre 1936
«My lord...»
Era di spalle appoggiato allo scaffale della libreria. Come diavolo mi aveva sentito arrivare?
Mi ero avvicinato, trattenendo il respiro, dopo averlo osservato per almeno quaranta minuti. Se ne andava in giro per la sezione Letteratura della biblioteca di Pembroke come un pazzo psicotico. Prendeva un libro, lo sfogliava, leggeva una pagina o due, o più, e poi lo rimetteva a posto. Vagabondava da uno scaffale all’altro, nelle sezioni di Letterature straniere. Dalla Francia alla Repubblica Cecoslovacca, dagli Stati Uniti all’Irlanda, dalla Russia all’Austria. Ed ero assolutamente sicuro che non mi avesse visto. E invece: “My lord.”
«Will, smettila di chiamarmi così.»
«Non sei forse un lord?» Solo a quel punto si voltò a guardarmi.
«Mio padre lo è, io sono solo suo figlio.»
«Ma un giorno sarai un lord. Io mi avvantaggio soltanto.» Era inutile contraddirlo, peggioravo la situazione.
«Hai un occhio dietro la nuca?»
«Potrei averti notato, mentre mi spiavi tra uno scaffale e l’altro.»
«Non ti stavo spiando. Sei tu che sei strano.»
«Ma in una biblioteca piena di gente, sei l’unico a essersene accorto.»
«Si può sapere che problemi hai?»
«Non lo so, dimmelo tu.»
«Ti aggiri tra gli scaffali, prendi un libro, leggi poche pagine e poi lo rimetti al suo posto.»
«Non è reato.»
«Certo che non lo è, ma ciò non toglie che sei strano.»
Teneva ancora stretto tra le mani il pesante volume dell’Ulisse di Joyce. Lo guardò, sospirò e si girò per riporlo con cura nello scaffale. «Se continui a seguire tutti quelli che ti sembrano strani ti caccerai nei guai.»
Ero già nei guai e lui lo sapeva. «Sono già nei guai. E lo sai.»
«Almeno sei realista.»
«Ora mi dici cosa stai cercando?»
«I romanzi sono come vecchi amici, Lewis, ogni tanto bisogna far loro visita e ricordare insieme i vecchi tempi. Ma non ricordi mai tutta la storia, solo i momenti più interessanti.» Gli vidi uno strappo di malinconia negli occhi, mentre guardava in alto, verso uno degli scaffali della sezione tedesca; toccò la parte superiore di un volume e lo inclinò, come se volesse sfilarlo, poi si girò verso di me. «Montagne di macerie, mari d’oblìo erano rimossi, scomparsi; con superbi occhi azzurri e luminosi... Sai cos’è?»
«No, mi spiace.»
«Narciso e Boccadoro.»
«Mai letto.»
«Hermann Hesse, il mio autore preferito.»
«Non lo conosco, mi spiace.»
«Cosa leggi di solito, Ellsworth?»
«Classici, perché devo.» E poi, sottovoce, aggiunsi: «Edward Forster e David Lawrence, cose così, se riesco a nascondermi per qualche ora.»
«Sfacciato. Mi piace. Hai letto André Gide e Thomas Mann?»
«Ho solo sentito nominare il secondo.»
«Te li passo, quando vuoi nasconderti.» Lo disse con aria complice. Se possibile era ancora più strano di prima e io cominciavo a non sentirmi a mio agio. E, se non ero a mio agio, finivo per combinare dei casini.
«Will, posso farti una domanda?»
«Se non riguarda il mio girare tra i libri, certo.»
«Com’è che te ne vai in giro a fare l’amico del cuore di Shay Breen, adesso?»
«Oh cielo...»
«Oh cielo, cosa?»
E poi attaccò con un falsetto irrispettoso: «Oh cielo, Will è solo mio! Shay, devi lasciarlo stare.»
«Idiota, non sono geloso! Sono curioso di sapere perché uno con cui non volevi parlare, adesso è uno da risate, pacche sulle spalle, tè e sigarette.»
«Non è cattivo.» Lo disse con un tono definitivo che mi dette un fastidio terribile.
«Questo lo so. È mio amico. Mi chiedo come faccia a saperlo tu, visto che vi parlate da poche settimane.»
«Ma ci conosciamo da prima.»
«Prima credeva che tu fossi sordo.»
«Non hai idea di quante cose le persone dicano quando pensano di non essere ascoltate.»
«Parlava lo stesso?»
Will sorrise: «Già.»
«Ha parlato per tutto il tempo, credendo che tu non lo sentissi? È per questo che siete così in confidenza!»
«Lo vedi, Alice, quando ti concentri non sei tanto male. Ma penso sul serio che dovresti leggere Hermann Hesse.»
«Ah, be’, certo, non sia mai che qualcuno sia sotto la soglia delle tue aspettative.»
«Come, scusa?»
«Sai come guardi la gente?»
«Sinceramente no, ma aspettavo il momento in cui qualcuno di speciale come te mi facesse notare la mia natura.»
«Sei un presuntuoso e lo sai benissimo.»
«Stavo solo cercando di ignorare la parte noiosa del discorso e parlare di letteratura, che è quella che preferisco.»
«Quella in cui ti riesce meglio fare il saccente, vorrai dire.»
«Al contrario di quanto pensi, my lord, io non passo la vita a cercare di umiliarti.»
«No?»
«No. Ammetto che, quando ti ho intorno, mi diverto. Ma non c’è nessuna spocchia, è solo sarcasmo.»
Se possibile, questo mi irritava ancora di più. E più pensavo a lui, che conversava amabilmente con Shay, più quella discussione mi feriva. Avrei voluto vestire i panni di Shay per venti minuti, per sapere com’era il vero Will Chase e vedere com’era il suo viso quando rideva.
«Che gioia...» gli risposi e feci per andar via. Ero frustrato e deluso.
Mise un braccio sull’ultima libreria prima del corridoio e mi bloccò il passo.
«Che sarebbe il piacere dei sensi, se dietro di esso non stesse la morte, e che sarebbe l’amore senza l’eterna mortale ostilità dei sessi?» sussurrò al mio orecchio.
Ma non mi lasciai incantare: «Lo stai rifacendo.»
«Cosa?»
«Replicare con saccenteria.»
«E perché tu presti attenzione al tono e non a ciò che ti dico davvero?» continuò, venendo più vicino. «Ridi mai davvero, my lord? O ridi come scopi, senza provare piacere?»
Decisi che non avrei più tremato. «Ti piacerebbe essere la mia puttana» gli risposi.
Gli si incupì lo sguardo e divenne imperscrutabile. «Oh, no, Lewis, non farlo, non rispondermi con rabbia. La rabbia toglie grazia e giustezza. E le puttane hanno un prezzo, chiunque può darsi un prezzo. Io invece ho scelto di darmi un valore e questo è il motivo per cui io non sarò mai una delle tue puttane. E tu dovresti imparare a non venderti al primo che capita. Quando imparerai ad amarti davvero, allora potrai avermi davvero.»
Gli spostai il braccio con forza e me ne andai.
Gli piaceva vincere. E a me non piaceva perdere.
Ci saremmo dovuti odiare. Ma c’era un problema.
Cambridge, 23 novembre 1936
Quasi dieci giorni di silenzio.
Lo incrociavo nei corridoi, lo vedevo a mensa e a lezione, ma non avevo voglia di parlargli. Provavo un odio a me sconosciuto.
Al diavolo, Chase, pifferaio magico delle cazzate.
Io mi amavo. Perché non avrei dovuto? Erano solo parole, le sue. Continuavo ad annodarmi intorno a quella frase malsana che mi toglieva il sonno, tanto per cambiare: “Quando imparerai ad amarti davvero, allora potrai avermi davvero.”
Piccolo, odioso, presuntuoso idiota! Che cosa ne sapeva di quanto mi amassi io? Chi diavolo credeva di essere per permettersi di rivolgersi a me in modo così saccente? Non riuscivo in alcun modo a distrarmi da quella frustrazione; dovevo riuscire a liberarmene e pensai che l’unico modo fosse mostrargli quanto si sbagliava.
Decisi di affrontarlo quel venerdì, perché sapevo dove aspettarlo: il portico sul retro del corridoio dell’aula di Storia, nascosto da occhi indiscreti. Quando lo vidi avvicinarsi, ero un groviglio di nervi, puzzavo di ansia, fumo, frustrazione ed eccitazione, perché di quella non riuscivo in alcun modo a liberarmi. Lui invece aveva il suo solito passo elegante e disinvolto e, quando mi vide, gli spuntò anche un certo ghigno divertito.
Gli andai incontro con lo stesso passo convinto e una determinazione che, a momenti, sorprese anche me.
Vaffanculo, Chase.
Puntai gli occhi nei suoi, senza dargli neanche il tempo di fiatare, gli strinsi una mano sul collo e l’altra sul fianco, e lo spinsi contro il muro per avventarmi sulle sue labbra. Ero una furia, o così credevo. Riuscii appena a sfiorargli le labbra e sentii la sua presa sulle mie spalle; mi spinse via e allora capii davvero cosa fosse la furia.
«Che cazzo fai?»
Aveva il fuoco negli occhi. Non pensavo neanche sapesse urlare e da quel momento non capii più nulla. Mi sembrò di non essere più presente: ero spettatore delle conseguenze della mia stupidità e della mia profonda ingenuità. Sentii la sua mano stringermi il braccio e trascinarmi prima lungo il portico e, poi, attraverso il prato. L’avevo sempre considerato minuto, più piccolo, più magro; era sì più alto, ma non avrei mai pensato avesse tanta forza. Il suo sguardo bruciava, era fuori di sé, eppure il suo corpo restava algido, di una compostezza indefinita e agghiacciante.
Come faceva?
Mi portò dietro la biblioteca e mi sembrò strano perché non era un luogo appartato. Era nel cortile esterno e su quello si affacciavano un’ala del college e molte aule; un qualunque studente avrebbe potuto vederci anche dai corridoi. Solo dopo capii il motivo. Tutti potevano vederci, ma nessuno poteva ascoltare, e da lontano sarebbe sembrato solo un semplice litigio tra compagni di corso. Non c’era possibilità che qualcuno fosse abbastanza vicino da origliare la conversazione senza essere visto.
Lasciò andare il mio braccio, s’infilò le mani in tasca e inclinò la spalla verso di me: «Sentiamo, che cosa credevi di fare?»
Aveva ripreso ogni controllo, persino i suoi occhi erano tornati a velarsi di sarcasmo. Cos’era, stupido? Non lo capiva?
«Tu cosa pensi?» domandai imbarazzato, quasi sottovoce.
«Penso che tu sia un imbecille, ma spero ancora di sbagliarmi. Di nuovo: cosa credevi di fare?» Lo chiese lentamente, ma con tono fermo.
«Sei tu che mi hai provocato, non fare il santo per favore.»
«Sono settimane che ti provoco, ma non pensavo che fossi così stupido da saltarmi addosso in...»
«E cosa pensavi di...»
«Non ho finito» mi interruppe, seccato, puntandomi un dito contro il petto.
Non ero abbastanza lucido neanche per ascoltarlo, figuriamoci per tenergli testa. Scossi il capo e presi un respiro profondo. «Scusami» sussurrai.
«Sono settimane che ti provoco, ma non pensavo che fossi così stupido da saltarmi addosso in pubblico.»
Le sue parole mi sorpresero. In pubblico. Quindi, se l’avessi fatto in privato, mi avrebbe lasciato continuare?
Ripresi coraggio. Sollevai il mento e riacquistai il mio consueto tono altezzoso: «Oh, povero William, sempre in equilibrio tra provocazione e mistero e tutti quei bei discorsi sul saper amare se stessi. Le ultime settimane a cercare di ammaliarmi e ora ti agiti se qualcuno ha più audacia di te.» E, poi, volli strafare: «Addirittura ti vergogni di ciò che sei. E poi sono io quello che non sa amarsi.»
Mentre la mia tracotanza si consumava nelle ultime sillabe, lo guardai. Chiuse gli occhi e per un’eterna frazione di tempo pensai di aver vinto; pensai che fosse pronto a sciogliere davanti a me tutte le sue incertezze, ma la mia eternità non fu la sua.
Quando riaprì gli occhi, sospirò. Un sospiro pieno di intolleranza e ribrezzo: «Quando ho detto che avresti dovuto imparare ad amarti, non intendevo che avresti dovuto tentare di fotterci entrambi.» E continuò, assumendo il tono che si usa con i bambini: «Quando capirai che al mondo non frega a nessuno di chi ti scopi, ma che per molti è un pretesto per odiarti? Quando capirai che la libertà non si misura in ciò che mostri, ma in ciò che permetti a te stesso di provare? Mi sei saltato addosso perché volevi me o perché volevi dimostrarmi qualcosa? Te la sei fatta questa domanda? O stavi solo provando a chiarire a te e a me che sei capace di amarti per poi riscuotere il tuo premio? Perché io ti scoperei in ogni fottuta stanza di questo college, Lewis, ma sono abbastanza lucido da sapere che soltanto dietro una porta chiusa possiamo essere davvero liberi.» Poi mi voltò le spalle e si incamminò. «Persino Alice sapeva che Wonderland era solo un sogno.»
La parola sogno la intuii per logica di discorso, perché lui si era già allontanato. Aveva vinto di nuovo e questa volta mi aveva ripulito per bene, lasciandomi lì, stretto nelle miserie della mia ingenuità e della mia ignoranza. Ma aveva anche detto altro, senza nascondersi né indietreggiare, una frase che non potevo far finta di non aver ascoltato: “Io ti scoperei in ogni stanza di questo fottuto college.”
Il fatto che la mia mente si fosse impuntata su quelle parole faceva di me l’idiota che lui credeva. Ma l’aveva detto e, se fosse stato il caso, quest’idiota avrebbe chiuso ogni porta di questo fottuto college e si sarebbe fatto insegnare la libertà dall’unico uomo per cui sarebbe stato disposto a perderla.