Capitolo X

2133 Parole
Capitolo X Veniamo dunque per gradi ai particolari di questa parte della mia storia. Potrete dunque immaginare che, avendo ormai vissuto per quattro anni in Brasile, e avendo ormai cominciato a far fortuna coltivando la mia piantagione, non soltanto avevo imparato la lingua, ma stabilito una rete di amicizie e conoscenze tra gli altri coltivatori e i commercianti di San Salvatore, che era il nostro porto e che, conversando insieme a costoro, avevo spesso raccontato dei miei due viaggi lungo le coste della Guinea, del modo di commerciare coi negri di quel paese e di come fosse facile comperarvi, in cambio di perline, giocattoli, accette, coltelli, forbici, pezzi di vetro e altre inezie del genere, non solo polvere d'oro, spezie e denti di elefante, ma anche innumerevoli schiavi negri di cui c'era in Brasile grande necessità. Essi ascoltavano sempre con molta attenzione i miei discorsi su questi argomenti, specie per quanto concerneva l'acquisto di negri, traffico che in quegli anni era ancora agli albori; esso infatti andava soggetto all'assiento,cioè a uno speciale permesso accordato dai re di Spagna o del Portogallo, e si svolgeva unicamente per asta pubblica, di modo che i negri importati erano pochissimi e molto cari. La mattina successiva a un mio colloquio con alcuni piantatori e mercanti di mia conoscenza durante il quale avevo parlato di queste cose con particolare trasporto, tre di essi vennero a farmi visita; mi dissero che avevano meditato a lungo sulla nostra conversazione del giorno avanti e che venivano a farmi una proposta strettamente personale. Dopo avermi raccomandato di mantenere il segreto, espressero la loro intenzione di allestire una nave per un viaggio alla Guinea, che tutti al pari di me erano proprietari di piantagioni e di nulla avevano urgente bisogno quanto di servi e che, trattandosi di un commercio inattuabile dal momento che non avrebbero potuto vendere i negri all'arrivo, tanto valeva compiere un unico viaggio, trasportare abusivamente i negri in Brasile e spartirseli fra le varie piantagioni. Per concludere, mi chiesero se accettassi d'imbarcarmi sulla loro nave, con l'incarico di trattare personalmente i loro affari sulle coste della Guinea, e offrendomi in cambio la mia parte di negri senza partecipare al finanziamento con una quota personale. Indubbiamente una proposta del genere sarebbe parsa vantaggiosa a chiunque non avesse avuto una situazione definita e una piantagione di proprietà alla quale badare, avviata ad assumere notevole consistenza e tale da comportare un cospicuo investimento di capitale. Ma per me, che ero appunto sistemato in tal modo, che non dovevo preoccuparmi d'altro se non di perseverare nell'opera iniziata per altri tre o quattro anni e farmi mandare le altre cento sterline dall'Inghilterra; e che in tale lasso di tempo, e con l'ausilio di quest'altra piccola somma di denaro, molto probabilmente avrei accumulato un patrimonio di tre o quattromila sterline in costante aumento, per me - dicevo - prendere in considerazione un viaggio del genere era la cosa più assurda di cui un uomo nelle mie condizioni potesse rendersi colpevole. Ma io, che ero nato per essere il distruttore di me stesso, non potei resistere a quella proposta più di quanto avessi resistito ai miei primi aneliti alla vita vagabonda, quando mio padre aveva sprecato i suoi buoni consigli. Risposi senza esitare che sarei stato felicissimo di partire, a patto che in mia assenza qualcuno di loro si assumesse l'impegno di badare alla mia piantagione, e a cederla alla persona che avessi loro indicato qualora la sorte mi fosse stata avversa. La mia richiesta fu accettata da tutti e sottoscritta per mezzo di contratti e impegni formali; e io a mia volta feci un regolare testamento col quale disposi della mia piantagione e dei miei beni in caso di morte, e nominando in tal caso mio erede universale il capitano della nave che mi aveva salvato la vita, ma con l'obbligo di disporre delle mie sostanze secondo quanto stabilivo nel testamento stesso, e cioè assegnando a lui la metà dei redditi, mentre l'altra metà doveva essere inoltrata in Inghilterra. Insomma, presi ogni possibile precauzione a tutela dei miei beni patrimoniali e del prospero andamento della mia piantagione. Se avessi messo in atto la metà di questa stessa oculatezza per salvaguardare il mio interesse e soppesare a dovere ciò che mi conveniva o meno di fare, sicuramente non avrei trascurato le lusinghiere prospettive che mi erano offerte da un'intrapresa così fiorente per gettarmi allo sbaraglio in un viaggio attraverso i mari, con tutti i rischi ch'esso comportava e senza contare le ragioni personali che avevo per attendermi una sorte particolarmente funesta. Ma una forza indefinibile mi spingeva ed io soggiacevo ciecamente ai dettami della fantasia più che a quelli della ragione. Perciò, allestita la nave e approntato il carico, e avendo i miei soci adempiuto a tutte le condizioni tra noi convenute per contratto, m'imbarcai in un'ora infausta del 1° settembre 1659, lo stesso giorno in cui, otto anni prima, a Hull, ero fuggito dalla casa dei miei genitori, vestendo i panni del ribelle nei loro confronti e dell'idiota rispetto al mio interesse. La nostra nave stazzava circa centoventi tonnellate, con sei cannoni e un equipaggio di quattordici uomini, oltre al capitano, al mozzo e a me; a bordo non avevamo un grosso carico di merci, ma solo le cianfrusaglie idonee al mercato coi negri: perline, conchiglie, oggettini di vetro e altre quisquilie del genere come specchietti, coltelli, accette e simili. Salpammo il giorno stesso del mio imbarco, facendo rotta lungo la nostra costa (cioè lungo il Brasile) col proposito di puntare in direzione della costa africana quando fossimo arrivati a dieci o dodici gradi di latitudine nord, il che, per quanto ne so, corrispondeva alla rotta comunemente seguita in quegli anni. Per tutta la durata della navigazione costiera il tempo si mantenne bellissimo, a parte il caldo opprimente; finché non raggiungemmo il Capo Sant'Agostino, da dove cominciammo a spingerci al largo e perdemmo di vista la terra; puntammo in direzione dell'isola Fernando de Noronha facendo rotta a nord-est, una quarta a nord e lasciando quelle isole a levante. Sempre tenendo questa rotta dopo circa dodici giorni passammo l'equatore, e in base al nostro ultimo rilevamento ci trovavamo a sette gradi e ventidue primi di latitudine nord quando un violentissimo tornado, o uragano, ci fece perdere completamente il senso dell'orientamento. Questo uragano, proveniente da sud-est deviò verso nord-ovest e alla fine si fissò a sud-est, da dove soffiò in modo così terribile che per dodici giorni non potemmo far altro che andare alla deriva, fuggendo incalzati dalla tempesta e lasciandoci trascinare a capriccio del fato e della furia dei venti; e durante quei dodici giorni, inutile dirlo, non feci che attendermi di essere inghiottito dal mare, né alcuno, ormai, a bordo della nave, sperava di riuscire a salvare la vita. In questa disperata situazione, al terrore della tempesta si aggiunse la morte di uno degli uomini per febbre tropicale, mentre il mozzo e un altro marinaio furono spazzati via dai marosi. Verso il dodicesimo giorno il vento diminuì un poco, il capitano cercò alla bell'e meglio di rilevare la nostra posizione e stabilì che ci trovavamo suppergiù a undici gradi di latitudine nord, ma spostati a circa ventidue gradi di longitudine ovest rispetto a Capo Sant'Agostino; concluse pertanto che ci trovavamo al largo della costa della Guiana, che è la regione settentrionale del Brasile, posta a nord del Rio delle Amazzoni in direzione dell'Orinoco, comunemente designato come il Grande Fiume; e incominciò a consultarsi con me sulla rotta da prendere perché la nave aveva subito gravi danni, faceva acqua, ed egli intendeva ritornare immediatamente verso la costa brasiliana. Io però espressi parere contrario; consultando insieme la carta della costa americana constatammo che non esistevano terre popolate verso le quali potessimo far vela fino a quando non avessimo raggiunto l'arcipelago delle isole Caraibiche, cosicché deliberammo di puntare verso le Barbados, speranzosi di arrivarci in quindici giorni di navigazione e badando a tenerci in alto mare per scansare la corrente che trascina dentro la baia, o Golfo del Messico; in ogni modo non era possibile affrontare la traversata verso l'Africa senza prima ricevere soccorsi sia per la nave, sia per noi stessi. Con questo intento cambiammo rotta e puntammo verso nord-ovest, una quarta a ovest, per raggiungere una di quelle isole della Corona inglese ove speravo di trovare aiuto. Ma la nostra traversata doveva concludersi altrimenti, perché quando ci trovammo a dodici gradi e diciotto primi di latitudine est fummo colti e trascinati via da un altro uragano non meno spaventoso del primo, e fummo scaraventati a ovest, così lontano da ogni umano commercio, che se anche fossimo riusciti a scampare al mare, il pericolo di finire divorati dai selvaggi sarebbe stato superiore alla probabilità di rivedere il nostro paese. Mentre versavamo in questa tragica situazione e l'impeto del vento non accennava a placarsi, di prima mattina uno dei nostri uomini prese a gridare: «Terra!» e noi ci precipitammo fuori della cabina a guardare, nella speranza di capire in quale luogo della terra fossimo capitati. Ma in quel momento la nave s'incagliò in un banco di sabbia immobilizzandosi, cosicché le onde presero a frangersi contro di essa con tale violenza, che tutti ci aspettavamo di perire da un istante all'altro, e tosto tornammo a riparare sotto coperta per ripararci dalla spuma e dagli spruzzi del mare. È difficile per chiunque non si sia mai trovato in una simile congiuntura comprendere o anche solo immaginare che cosa provi l'uomo in momenti come questi: non sapevamo nulla: né dove fossimo né su quale terra eravamo stati scaraventati, se fosse un'isola o un continente, se fosse abitata o deserta; e siccome il vento, ancorché diminuito, soffiava ancora furibondo, non potevamo sperare che la nave reggesse ancora a lungo prima di sfasciarsi, a meno che il vento non cessasse di colpo, in virtù di una sorta di miracolo. Pertanto ci guardavamo l'un l'altro, nell'attesa imminente della morte, e tutti in effetti ci comportavamo come chi ormai si prepara al mondo di là, dal momento che in questo ci restava poco o nulla da fare. In quel momento il nostro unico conforto stava nel fatto che la nave non si era ancora sfasciata, e che il vento, secondo il capitano, cominciava a scemare. Ma nonostante la sensazione che il vento fosse leggermente calato, la nave si era arenata troppo profondamente nella sabbia perché potessimo sperare di disincagliarla; pertanto la nostra situazione era oltremodo precaria, e non avevamo altro da fare se non cercare di metterci in salvo come meglio potevamo. Prima avevamo una nave a rimorchio, ma all'inizio della tempesta si era sfasciata sbattendo contro il timone, poi si era staccata ed era stata inghiottita o spazzata via dal mare, cosicché non potevamo più servircene. A bordo avevamo un'altra barca, ma difficilmente saremmo riusciti a metterla in mare, e comunque non c'era tempo per discutere perché eravamo certi che la nave dovesse sfasciarsi da un momento all'altro, anzi qualcuno disse che stava già andando a pezzi. In questi spaventosi frangenti l'ufficiale in seconda mise mano alla barca, e aiutato dagli altri uomini dell'equipaggio riuscì a issarla e a gettarla fuori bordo; poi vi entrammo (eravamo undici), mollammo i cavi e ci affidammo alla mercé di Dio e del mare in tempesta: infatti, sebbene l'uragano fosse sensibilmente diminuito d'intensità, pure le onde irrompevano con inaudita violenza verso la riva, e ben si meritava la denominazione "diden wild zee" con la quale gli olandesi designano il mare in tempesta. A questo punto la nostra situazione apparve né più né meno disperata, perché era chiaro che la barca non avrebbe potuto resistere e noi tutti saremmo annegati. Vele non ne avevamo, e se anche ne avessimo avute non sarebbero servite a nulla; cosicché facemmo forza sui remi puntando verso terra, ma con la morte nell'animo, al pari di uomini avviati al patibolo, perché capivamo che non appena la nostra imbarcazione fosse stata più vicina alla riva sarebbe stata ridotta in mille pezzi dalla violenza dei marosi. Ciononostante affidammo le nostre anime a Dio, e siccome il vento ci sospingeva in direzione della sponda, affrettammo la nostra fine con le nostre stesse mani vogando quanto più in fretta possibile verso la spiaggia. E come fosse questa spiaggia, se rocciosa o sabbiosa, alta o bassa, non potevamo sapere; la sola ipotesi alla quale fosse plausibile attingere un filo di speranza era quella che ci capitasse di penetrare in una baia o in un golfo, oppure nell'estuario di un fiume, sempre che per lieta ventura fossimo riusciti a imbroccarlo con la barca, o da portarci al riparo di un promontorio, e raggiungere così acque più tranquille. Ma non scorgevamo niente di simile, ed anzi a mano a mano che ci andavamo avvicinando la terra ci appariva più spaventosa del mare. Dopo aver remato, o piuttosto essere andati alla deriva, per circa un miglio a occhio e croce, un'onda scatenata, una vera montagna d'acqua, ci piombò addosso mugghiando sulla poppa, e comprendemmo all'istante che quello era il coup de grace. In una parola, c'investì con tale violenza da capovolgere immediatamente la barca; ci scagliò lontano, sia dalla barca, sia l'uno dall'altro, e fummo inghiottiti senza nemmeno avere il tempo d'invocare il nome di Dio.
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