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2673 Parole
1 Un altro evento, un’altra serata passata a indossare la mia logora maschera. Mostro al mondo quel che voglio che il mondo veda. No, quello che si aspetta di vedere. Un architetto di fama nazionale, al cui nome sono associati edifici iconici, attira attenzioni e produce aspettative di un certo tipo. Ci si aspetta che io sia alla mano, rispettabile, ben vestito e di ispirazione per gli altri. E da fuori io appaio proprio così. Un brav’uomo di ottima famiglia, che ha acquisito notorietà disegnando palazzi che hanno instillato orgoglio nella nazione, il tutto mettendo in mostra il meglio delle moderne tecniche architettoniche. Mi appoggio al bancone del bar nell’angolo. Cogliendo il mio riflesso nello specchio dietro all’ultimo scaffale raddrizzo la schiena, cercando di non apparire autoritario e inaccessibile. L’evento potrà anche essere in mio onore, ma non mi è ignoto il suo vero scopo: raccogliere fondi dagli ex studenti del college sfruttando la mia ultima impresa. A quanto pare, la grandiosa storia del successo di Callum Alexander è una gallina dalle uova d’oro. Rigirandomi il bicchiere di Glenlivet in mano, osservo la stanza con impassibile indifferenza. Non mi importa di essere qua o altrove. Onestamente preferirei trovarmi nel mio personale santuario appartato, seduto sulla mia poltrona di pelle nera mentre guardo fuori in direzione della baia. Invece indosso uno smoking su misura di Tom Ford in una stanza piena di camaleonti come me, che continuano a chiacchierare di argomenti irrilevanti. Tutto ciò che concerne me – il modo in cui mi comporto, la macchina con cui arrivo, persino l’etichetta del completo che ho addosso – è importante. In queste condizioni, sono conforme al modello. In questo ambiente, il mio costume camaleontico si trova nel suo elemento: sto chiacchierando del più e del meno con il personale universitario, con professori ansiosi di discutere delle nuove classi, ragazzini affascinati dalla celebrità alla quale anch’essi aspirano, persino benefattori che sperano di tirarmi dentro al club dei vecchi compagni. Ciascuno qua ha un obiettivo, ma tutti vogliono un pezzo di me. Ecco perché a eventi simili sono più riservato. Mi siedo, osservo, e di rado interagisco con altri, a meno che non siano loro ad avvicinarsi. Il mio travestimento, il mio personaggio pubblico, si compone di molti strati. Pochissime persone hanno l’opportunità di vedere il vero Callum Alexander: la mia famiglia e il mio migliore amico, basta. Per tutti gli altri c’è questo Callum, l’uomo di successo, rispettato e ben visto, che vive il sogno americano. Sacrificare molto e rimanere sempre in controllo, ecco cosa ho dovuto fare; ma questo potrebbe avere a che fare più con le mie predilezioni che altro. Scuoto la testa, mentre i miei pensieri prendono una direzione del tutto inappropriata per un evento del genere, e scolandomi il resto del drink mi sistemo con discrezione i pantaloni. Poso il bicchiere sul bancone e faccio cenno al barista di versarmene un altro. Quando arriva il secondo, lo prendo e vado verso la parte anteriore del salone d’hotel, cercando di scacciare le cupe meditazioni che cominciano a sporcare i bordi della mia vita apparentemente splendida. La fronte aggrottata, cammino in mezzo alla folla di persone intenta a socializzare; le mie labbra ridotte a una linea sottile mentre scruto invano la stanza in cerca di un viso familiare. Le occhiate che ottengo in risposta mi dicono che stasera la mia maschera dev’essere fuori posto. È in un certo senso comprensibile, la mia mente è altrove. Sono troppo preso a chiedermi perché mi preoccupo di indossare il travestimento del lupo che si finge agnello. Ho lavorato duramente e rinunciato a molto per arrivare dove sono oggi, e continuo a farlo per mantenere questa condizione. Perdere tutto adesso avrebbe conseguenze incalcolabili. Un uomo che sarebbe potuto essere me dieci anni fa, incrocia il mio cammino porgendo la mano. «Mr Alexander?». Mi prendo un momento per esaminarlo. È appena più basso del mio metro e 90, con spalle larghe da persona sicura di sé e un completo sartoriale che senza dubbio è costoso quanto il mio, segno che è ricco di famiglia. I suoi capelli quasi neri sono pettinati su un lato, lontano dal viso, il che aggiunge carattere allo sguardo pulito, brillante e speranzoso che mi rivolge. «Sono un grande fan del suo lavoro», dice. La sua adulazione mi procura una fitta al petto. Ricambio la stretta di mano. La sua è forte, salda ma non minacciosa. Non c’è traccia di egocentrismo in questo scambio. «Sono al terzo anno, e questo semestre, in vista dell’evento di stasera, abbiamo studiato i suoi progetti.», continua. Spalanco gli occhi nel sentire questa rivelazione. So che i miei progetti più recenti sono degni di interesse, ma ho solo trentaquattro anni. Quando ero studente io, studiavamo il lavoro dei grandi. Non di architetti moderni che vanno avanti a braccio e sono solo abbastanza fortunati da cogliere l’occasione giusta. Per due volte. «Grazie. Spero che non abbiate studiato il mio lavoro con troppa attenzione. Potreste trovare qualcosa da migliorare», aggiungo strizzando l’occhio. Lui spalanca la bocca per un attimo, prima di ricomporsi in fretta. «Impossibile che succeda, Mr Alexander. Il concetto alla base della Spera House di Boston è geniale. Ispirato. Il modo in cui ha messo a contrasto le linee fredde del calcestruzzo moderno con le curve dei palazzi storici accanto… favoloso». Be’, senza dubbio il giovanotto è uno che studia. «Il posto mi ha stimolato. Che posso dire?». Gli sorrido. «Sarei felice di discutere delle possibilità di uno stage presso il suo studio, Mr Alexander. Sarebbe un onore e un privilegio per me imparare e lavorare con lei». Il ragazzo ha fatto i compiti. Lo stage di quest’anno è stato annunciato formalmente solo una settimana fa. Annuisco, notando che tiene i pugni stretti lungo i fianchi, mentre tiro fuori dalla tasca interna della giacca il mio biglietto da visita. Un cartoncino spesso color crema, con una scritta in caratteri argento: Alexander Richardson. Sono nella mia versione con il pilota automatico: sorridere, conversare e porgere il biglietto da visita, dando istruzioni di contattare la mia assistente. Una procedura diretta e pratica, che non lascia spazio a confusioni. Per un uomo come me, è la perfetta strategia di networking. Gli passo il cartoncino, lui lo stringe forte tra le dita e lo guarda, passando il pollice sulla scritta, poi mi fissa. «Dia un colpo di telefono alla mia assistente, Annie, che la guiderà nella richiesta». Lui raddrizza le spalle: è evidente che l’opportunità di lavorare con me è una cosa a cui dà grande valore. «Ricordi di dirle che mi ha incontrato e che deve immediatamente mettere in agenda un colloquio con lei». Il giovane apre la bocca e la richiude subito, prima di annuire e mettersi in tasca il biglietto. «Wow, sarebbe un’opportunità incredibile. Grazie, Mr Alexander». Allungo la mano per stringere di nuovo la sua. «Grazie a lei, che ammira il mio lavoro. Noi tipi creativi amiamo le lodi, come ben sa, Mr…». «Gregory Graves». Dopo aver dato un’altra rapida stretta alla mia mano, arretra e torna a formare un pugno lungo la gamba. «Mr Graves, lieto di conoscerla. Ci vediamo presto». «Buona serata», si affretta ad aggiungere, prima di sparire nella folla. Devo concederglielo: il fatto di venire da me con tanta sicurezza e chiedere subito dello stage comunica un’idea di grande ambizione e determinazione. Normalmente chi si candida al nostro programma lo fa per avere il nostro nome sul curriculum. Gregory Graves potrebbe davvero alzare lo standard della selezione di quest’anno. Continuo a camminare al centro della stanza e osservo la grandiosa festa. Questi eventi non sono mai quello che sembrano. La serata sbandierata come una celebrazione del premio da me vinto, in realtà è una raccolta fondi, meticolosa e piuttosto ovvia. I prezzi d’ingresso sono gonfiati, e i cartelli propagandistici che circondano le pareti della stanza raccontano il vero scopo del raduno di stasera: esibirmi come il pony da coccarda di cui tutti sono fieri e, intanto, raccogliere fondi per un nuovo business center. «Callum!» Giro il capo e vedo il mio migliore amico nonché socio, Grant, venire verso di me. La tensione che mi è montata dentro dal mio arrivo si dissipa lentamente, e tiro un sospiro di sollievo sapendo che c’è almeno un’altra persona, stasera, con cui posso essere me stesso. Non posso fare altro che ridere di lui. È appena arrivato e sta già cercando di sistemarsi il cravattino. Grant Richardson, il mio miglior amico dal liceo e l’unica persona del mio circolo privato che come me non apprezza la finzione di cui è ammantato l’evento, non è un fan degli smoking. Anzi, non è un fan di qualsiasi cosa lo costringa, incluso il matrimonio. Si guarda in giro e sbuffa forte. «Maledizione, stasera fai sul serio, eh? Callum Alexander che ritorna alla Mecca». Gli do una spallata. «Fanculo, Richardson. Pensi che mi piaccia essere esibito come un dipinto?». Il mio tono leggero fa il paio con la ridicolaggine della sua affermazione. Lui alza un sopracciglio e mi fissa con espressione carica di incredulità. «Davvero? Sono fieri da morire di te, Cal. È un caso che questo coincida con il bisogno di raccogliere un fottilione di dollari. Colpo di fortuna?». Il suo sorriso è gioioso. Ridacchio. «Sai come lo so io, che non è così. Dal punto di vista del business ha senso, anche se mi stanno usando come jolly». Lui conferma annuendo. «Sei riuscito a evitare i paparazzi fuori?». Sospiro forte. «Pensi che me lo avrebbero permesso? Ho dovuto rilasciare tre interviste ai reporter prima di arrivare all’ingresso». Lui ride e scuote la testa. «Sei l’ospite d’onore». Da quando ho vinto il premio, buona parte dell’attenzione dei media, specialmente i tabloid, è stata concentrata su di me, “l’architetto rampante e celibe che si tiene lontano dai riflettori”. Sono diventato una specie di pseudo-celebrità, una star di serie D, diciamo. Non è un titolo che ho accolto volentieri né tantomeno incoraggiato, ma visto che attira attenzione sul mio lavoro e sul mio studio, sono consapevole che sarebbe poco saggio mordere la mano che mi nutre. Una giornalista in particolare sembra avere come missione quella di lanciare il mio status di scapolo più desiderabile della città. Questo, ovviamente, dopo che ho rifiutato le sue avances. Fortunatamente, stasera non si vede da nessuna parte. Guardando il grande orologio sul muro mi rendo conto che sono solo le otto e ho altre due ore di questa merda da sopportare prima di poter fuggire. Porto di nuovo il bicchiere alla bocca. In qualche modo, il vortice caldo del whisky rende leggermente più piacevole la serata. «Qualcuno di attraente da guardare?». Grant mi riscuote dai miei pensieri, portando la mia attenzione sul bel sesso. Mi si mette a lato per scandagliare gli ospiti e io mi unisco a lui, guardandomi in giro distrattamente. «Da quel che vedo no, ma la notte è ancora giovane. Non sai mai cosa ti può capitare con il buio in questa magnifica città». Rido. «Si può sempre sperare», ribatte Grant. «Cerchi una nuova moglie trofeo, Grant? Non hai imparato niente da Olivia?», chiedo. Olivia è la sua ex moglie, ex finalista al titolo di Miss Montana, di famiglia ricca e con un décolleté killer che aveva catturato la sua attenzione ancor prima che lei aprisse bocca. Aggiungiamoci un corteggiamento serrato e un matrimonio lampo a Las Vegas, e Grant era fuori piazza. O almeno così avevamo pensato tutti. Avrebbe presto scoperto che un bell’aspetto e una famiglia importante non si accompagnano per forza all’intelligenza: Olivia non poteva essere altro che uno splendido accessorio. Nel momento in cui Grant si rese conto di volere di più, la sua giovane moglie trofeo era già fuori casa. Agitando la mano attira l’attenzione di una cameriera, che passa con un vassoio pieno di flûte di champagne. «Mi scusi», le dice Grant. Quando lei si ferma e si gira verso di noi, lui afferra due bicchieri e me ne porge uno. «Grazie», gli dico prendendolo. Sentendo uno sguardo addosso, mi giro: è la cameriera, che non si è mossa. Si trova accanto a noi e mi fissa apertamente. Mi giro verso di lei. «Mi scusi, le serve qualcosa?». «Lei è Callum Alexander, giusto?». Io alzo gli occhi al cielo ed espiro rumorosamente, per poi rimettermi la maschera professionale e mostrarle il mio sorriso più accattivante. «Proprio io. E lei è…?». «Lucia. Lucia Harding, ma preferisco Luce». Tiene in bilico sul palmo di una mano il vassoio carico e mi porge l’altra, lo sguardo saldo su di me. Due occhi verdi con pagliuzze ambra mi ipnotizzano, mentre lei attende la mia prossima mossa. Quello che mi sorprende di più è il modo sfacciato in cui sta lì a studiarmi. Ci vuole Grant che si schiarisce la gola, perché io mi renda conto che la sto fissando a mia volta. Mettendo la mano nella sua, il mio sorriso si trasforma in qualcosa di più sincero, quasi genuino. Non succedeva da molto tempo. «Luce…». Tengo la mano nella sua e inclino la testa a destra, verso Grant. «Questo maleducato è il mio amico Grant Richardson, mio complice e braccio destro». Le sue guance si colorano di un rosso leggero, e non riesco a non chiedermi a che diavolo stia pensando. Poi è la mia mente a vagare su altre cose che potrebbero farla arrossire, cose che potrei farle per stimolare una reazione simile. Una stretta gentile mi risveglia dalle mie fantasticherie, e mi rendo conto che le sto ancora tenendo la mano. Neanche lei però accenna a togliere la sua. Un momento strano ma affascinante. Osservo il suo viso. È come se il mio subconscio sentisse il bisogno di memorizzarla. Capelli scuri lucenti che cadono a onde sulle spalle. Pelle del colore della porcellana calda, con una spruzzata di lentiggini che adornano il naso e le guance, donandole un pizzico di carattere che non fa altro che attirarti ancora di più. È impossibile ignorarla. C’è un bagliore nei suoi occhi incantevoli, che danno l’idea di una profondità in cui potersi tuffare a esplorare. Può anche sembrare una normale studentessa del college ingaggiata per servire all’evento, ma basta un’occhiata e capisci che c’è molto altro sotto. E mi venga un colpo se non voglio scoprire esattamente cosa. Quel che mi lascia perplesso è come mai una semplice presentazione, una semplice stretta di mano, riesca a farmi arrovellare tanto. Come se significasse davvero qualcosa per me. È solo una delle tante donne. Probabilmente, se la volessi potrei schioccare le dita e averla nel mio letto, nuda, che supplica di averne ancora. Ma d’altronde c’è qualcosa in lei, qualcosa che colgo anche solo guardandola e che mi dice che potrebbe essere diversa da qualsiasi altra donna nella stanza. Un diamante grezzo. Mi ritrovo ad avvicinarmi, osservando il mio pollice che sfiora la sommità delle sue nocche. Il suo respiro accelera e la mano si fa umida dentro la mia. Sbatto due volte le palpebre, mentre alzo lo sguardo dalle nostre mani ai suoi occhi spalancati. Che diavolo è appena successo? Tiro via la mano e faccio un passo verso Grant, impegnato in una conversazione con uno dei suoi vecchi professori. Faccio un cenno con il capo in direzione della giovane per congedarla silenziosamente. Non c’è niente in me che potrebbe rispondere alle esigenze di una donna simile, a dispetto di qualsiasi connessione o momento incantato possiamo avere avuto. Sembra giovane e senza dubbio innocente, una persona che merita gesti sopra le righe e dichiarazioni di adorazione infinita. Quello che posso offrire io non è niente più che una breve relazione fisica che sarebbe emotivamente vuota, anche se soddisfacente per entrambi. Ciò che voglio davvero è molto più estremo e per niente sentimentale. Il genere di cosa che la farebbe scappare a gambe levate. Un minuto dopo guardo di nuovo verso di lei, ma non scorgo altro che la sua schiena che si allontana. Un lieve ondeggiare delle anche mi dice che sa che la sto guardando. Un’ondata di desiderio mi attraversa mentre poso lo sguardo sulla curva della sua vita, passando sui fianchi e sul sedere. Avendo accantonato l’idea di corteggiarla, improvvisamente ho voglia di ricominciare da capo. Vorrei che la mia maschera da seduttore “strappamutande” tornasse al suo posto, in modo da poterla convincere a fare qualcosa per cui probabilmente non è pronta. L’uomo egoista che sono prenderebbe qualsiasi cosa potesse ottenere da lei. Ho già provato la lussuria in passato. Ne sono anche stato schiacciato. È ciò che mi porta ai pensieri oscuri, alla fantasia idealizzata di lasciarmi andare veramente. Per una persona come me, la lussuria può essere un sentimento pericoloso. La lussuria porta al desiderio. Il desiderio porta al bisogno. Un bisogno che porta alla lotta interiore per resistere a ciò che davvero voglio. A ciò che veramente bramo.
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