PrologoAlassio sembrava una luminaria natalizia stesa davanti al mare, a riflettersi sull’acqua immobile, quasi lacustre. Era lontana, lontanissima, nello spazio e nel tempo. Lì il tempo non c’era, solo la notte con il suo silenzio, un silenzio che dominava lo spazio, l’ombra e la penombra. E la luna era un pendolo di peltro immobile, appeso sopra il mondo, sulle foglie di latta dei limoni, sulle rose grigie, sulle lame nere della cancellata arrugginita.
In mezzo al giardino una riproduzione in marmo dell’Attis di Donatello sovrastava una fontana morta. La luce del plenilunio colava chiara sulla ghiaia del viale, a formare pozze pallide sotto l’intrico alto dei rami. Sul fondale, una scalinata polverosa portava all’ombra di una loggia, sovrastata da un timpano che proclamava la sua solennità. Al piano superiore stava una fila di finestre chiuse con le persiane scrostate. Chissà se mai, in un passato difficile, s’erano aperte al vento abbagliante che arrivava dal mare, pieno di aromi e di sogni… Non sembrava una casa dove le risate fossero corse da una stanza all’altra, come fremiti d’aria fresca a muovere la calura estiva. Era difficile immaginare che qualcuno avesse apparecchiato in giardino una tavola con la tovaglia di lino immacolato, rigido di ricami, e che odore di aglio dorato e pomodori avesse invaso la cucina. Chissà se un raggio di sole aveva mai brillato sulla condensa formata dal vino bianco ghiacciato, nelle caraffe panciute. Le rose ormai eran rovi ed i gerani erano intrichi selvatici, sarebbero stati un buon rifugio per giocare a nascondino: quell’inerzia malsana non evocava però il ricordo di corse e strilli di bambini, era come se tutto fosse stato così da sempre, come se fosse nato così, era una conchiglia erosa dal tempo, immemore del mare.
Eppure una finestra aveva le persiane aperte e dietro le tende pesanti si poteva vedere la luce dorata di un lampadario. Era al piano terra, accanto al portone d’ingresso invisibile nel buio della loggia. Quindi la conchiglia aveva il suo mollusco, che dietro i vetri chiusi percorreva le sue ore ed i suoi giorni, abituato alla muraglia di silenzio che lo isolava dal mondo. Oltre quella barriera la vita ricominciava, i grilli erano un coro intenso e vivace, le lucciole danzavano al ritmo dei loro lumini amorosi e lentamente, man mano che ci si allontanava, affioravano voci di gente, musiche che accompagnavano le cene sulle verande dei ristoranti, suoni di strada, e qualcosa arrivava perfino dall’Aurelia laggiù, dal groviglio di fanali bianchi e rossi delle auto che andavano e venivano come processioni di formiche, regolate da codici misteriosi.
E davanti a quell’anfiteatro magnifico di splendore notturno stava il mare, preso da una sonnolenza benevola, quasi senza onde.
Forse il primo colpo sarebbe potuto sembrare il ciocco di un petardo molto potente o di un fuoco d’artificio difettoso, scoppiato senza far luce, ma gli altri tre in rapidissima successione non potevano essere altro che colpi di pistola. Dopo una pausa prolungata il quinto.
Arrivavano dalla conchiglia. Il tempo passava senza che succedesse altro, ma forse qualche rumore dalla strada si poteva sentire: cassetti che cadevano, armadi che venivano svuotati, sedie che intralciavano il passo, porte che sbattevano, senza una voce. Dopo tanto silenzio, ora che si udiva qualcosa, era intimamente legato alla morte.
Qualcuno spalancò la porta, impossibile vedergli la faccia nascosta da una matassa di ricci scuri. Corse sulla ghiaia, aprì il cancello che cigolò come d’obbligo e si diresse, sempre correndo verso valle. Si vedeva che non era una persona abituata a quell’esercizio, scivolava sulle suole di cuoio e mulinava con le braccia per tenersi in equilibrio. Si sporse dal muretto per scrutare la strada, dal basso apparvero i fari di un mezzo che doveva essere grosso, un camion o qualcosa di simile che si stava avvicinando. Il tizio diede un’occhiata anche verso monte, ma lì, se fosse arrivato qualcuno sarebbe stato più difficile accorgersene, perché la via era nascosta dal fogliame. Decise di riprendere la sua corsa, forse valutando che sarebbe riuscito ad arrivare in tempo in qualche punto del percorso, prima di essere illuminato dai fanali del camion, ammesso che fosse diretto lassù. Finalmente arrivò a quella che doveva essere la sua destinazione: una stradina laterale dal fondo erboso che sembrava perdersi nella campagna. Pochi metri dopo l’inizio, nascosta dall’ombra di un gigantesco ippocastano, c’era un’auto. Il fuggiasco aveva scelto bene il luogo dove nasconderla, perché risultava pressoché invisibile a chi avesse percorso la principale, e poi era ancora distante dal centro del paese. Era una vettura sportiva, piatta come una sogliola, il rosso smorzato dal buio. L’uomo aprì la portiera, si sedette e diede contatto.
Armando aveva attrezzato il suo camion nuovo da tre giorni e non lo aveva più spostato dal cantiere, ma era venerdì, l’indomani sarebbe stato giorno di riposo e aveva preferito portarselo a casa, meglio nel cortile della cascina che non sulla piazzola dell’Aurelia, accanto alla palazzina in ristrutturazione, specialmente durante il fine settimana, con tutto il casino di turisti che sarebbe arrivato di lì a poche ore.
Guidava a velocità moderata, non soltanto perché la strada di casa era piena di curve e stretta come un budello, ma proprio perché non aveva fretta. Era sereno, quell’ultimo lavoro lo metteva al riparo dai debiti e forse lo avrebbe spinto ad assumere un altro muratore e questo era bene, voleva dire che la sua piccola impresa edile stava andando avanti. Sapeva che avrebbe trovato sua moglie spaparanzata sul dondolo nel minuscolo giardino, già sentiva le sue parole, sempre le stesse da qualche tempo: “Oh Armando, che caldo, ho le caviglie che non me le sento più. Speriamo che arrivi presto il momento!”. Lui l’abbracciava e lei si lasciava abbracciare, poi armeggiando un po’ si tirava su dal dondolo e l’accompagnava in cucina, dove lui apriva una lattina di birra e cominciavano a raccontarsi la loro giornata. Quella sera aveva mangiato una pizza con i ragazzi, giù vicino al porto, ma quando le aveva telefonato lei non aveva brontolato, forse ne aveva approfittato per riposare mezz’ora di più. Certo che adesso il peso del bambino si faceva sentire. Ad agosto avrebbe partorito; anche lui era impaziente e nello stesso tempo pieno di una paura che i corsi pre-parto non avevano dissolto.
Perso nei suoi pensieri, ma non distratto dalla guida, compì l’ultima curva che lo separava dal bivio che portava alla manciata di case dove abitava, esattamente un istante prima che la Ferrari esplodesse. Il suo cervello registrò ogni evento, prevedendo l’istante successivo, come se avesse già visto centinaia di volte quella scena, e forse era vero, forse l’aveva davvero vista, nei polizieschi americani. La distanza tra il suo mezzo ed il luogo dell’esplosione fu sufficiente a garantire la sua incolumità e quella del camion, ma non quella della sua mente. Rimase a fissare quel rogo le cui fiamme si attorcigliavano in volute rabbiose, seguendo i refoli della brezza notturna. Non sentiva niente, perché aveva guidato fin lassù con i finestrini completamente abbassati per gustarsi i profumi della campagna notturna: questo aveva permesso all’onda d’urto di continuare la sua corsa senza mandare in frantumi il parabrezza, ma le sue orecchie erano fuori uso. Il motore ronfava ancora acceso, con un gesto completamente inconsapevole aveva messo in folle e tirato il freno a mano, e se ne stava lì, a guardare, incapace di fare altro, completamente ignaro delle due auto che si erano accodate ed i cui occupanti erano scesi a guardare quel macello: una portiera, che era volata via roteando, permetteva la vista dell’interno dell’abitacolo, dove per brevi tratti appariva una vaga sagoma, un mucchio di stracci ardenti, immerso nel fuoco, come se fosse stato dentro ad un bruciatore. Anche l’ippocastano s’era incendiato, una torcia immensa che sparava ceneri incandescenti verso il cielo. Nessuno a Moglio aveva mai visto un’esplosione simile, nemmeno in tempo di guerra.
Questa però, è una storia vecchia.
(Giugno 1996)