Virtuose o vinte? Tre donne di Matilde Serao
Virtuose o vinte? Tre donne di Matilde Serao
di Cristina Tagliaferri
Fra i «più belli del nostro secondo Ottocento. […] tre classici racconti, di quelli che vi prendono e commuovono alla prima lettura, e poi reggono, e anzi crescono a un secondo esame, quando ne indagate il movimento proprio dell’arte». Così il critico Pietro Pancrazi si espresse in merito alle novelle che Matilde Serao (Patrasso, 1857 - Napoli, 1927) pubblicò inizialmente a puntate su famose riviste dell’epoca: nel 1883, fra le pagine della «Domenica Letteraria», diretta da Ferdinando Martini, vide la luce La virtù di Checchina; mentre Terno secco – comprensivo del sottotitolo (Novella napoletana) – e O Giovannino o la morte uscirono per la prima volta sulla «Nuova Antologia», rispettivamente nel 1887 e nel 1888.
Il periodo è quello verista, alle cui sollecitazioni ella non fu affatto estranea, anche per la sua collaborazione alla «Rivista nuova di scienze, lettere ed arti» (1879-1881), fondata da Carlo Del Balzo con l’intento di divulgare quella produzione sorta sulla scia del naturalismo francese, insistendo sull’importanza del realismo in letteratura, sull’onda dell’interesse su Zola suscitato dai concomitanti contributi di Francesco De Sanctis. Ne ritroviamo l’influsso nella minuta descrizione degli ambienti, degli oggetti, delle persone, che la Serao realizza in una commistione di suggestioni provenienti anche da Balzac e dalla letteratura d’appendice del conterraneo Francesco Mastriani, con una personale inclinazione verso forme decadenti di ascendenza estetizzante e dannunziana.
Benedetto Croce, non esente da un iniziale sospetto verso l’insorgere di un altro elemento nuovo in letteratura – quello ‘tipicamente femminile’, delle donne scrittrici e magari autodidatte – seppure con l’intento elevato a sistema di «comprendere e far comprendere» o di «sceverare», ciò che secondo il suo metodo critico fosse da concepire come artisticamente bello rispetto a ciò che non lo è, ebbe a dire che
L’elemento di riflessione, e l’altro che potrebbe dirsi di cultura, è nella Serao quasi nullo: e debole e senza spontaneità ciò che in altri artisti proviene dall’aspirazione e dal sogno di una vita che oltrepassi la realtà ordinaria. Ella è tutta osservazione realistica e sentimento; o meglio, osservazione mossa da sentimento.
Ne divenne il più autorevole estimatore.
Probabilmente la narrativa della Serao non sarebbe quella che è, se l’autrice non si fosse dedicata in parallelo all’attività di giornalista, per lei un’autentica professione, tanto da fondare – prima donna nella storia italiana – un quotidiano («Il Giorno»), dopo la separazione coniugale da Edoardo Scarfoglio. All’altezza dell’apparizione di questi primi racconti, è una presenza assai attiva nel panorama culturale dell’epoca. Nel 1882 si trasferisce da Napoli a Roma; è redattrice del «Capitan Fracassa», collabora alla «Nuova Antologia», al «Fanfulla della Domenica», alla «Domenica del Corriere», alla «Cronaca Bizantina». Nel 1885 fonda insieme al marito «Il corriere di Roma», curando, con lo pseudonimo di Gibus, la rubrica ‘Api, mosconi e vespe’, che ottiene un grande successo. Tornata nella città partenopea verso la fine del 1887, dà vita, insieme a Scarfoglio direttore, al «Corriere di Napoli»; poi al «Mattino», prima dell’ultima impresa editoriale che ne consacra appieno lo spirito indipendente e moderno, quando le donne nemmeno potevano votare.
Sul piano narrativo e su quello giornalistico, i risvolti sono per lei reciprocamente positivi: dalle pagine delle testate che la impegnano come nota collaboratrice può ‘promuovere’ la propria attività letteraria (ne è un esempio il legame con la «Nuova Antologia») e, viceversa, dall’attività di pubblicista le è possibile allenare quell’attitudine all’osservazione, unitamente al gusto per il reportage e per la cronaca da cui attingere stile e temi narrativi. Si pensi ai due capolavori: Il ventre di Napoli (1884) nasce come una grande inchiesta giornalistica per il «Capitan Fracassa»; a sua volta, essa costituirà materiale ispiratore e preparatorio per il magistrale affresco de Il paese di Cuccagna (1891).
Ciò che accomuna i racconti proposti in questa edizione è innanzitutto la dimensione ‘corale’, ossia la presenza del ‘vissuto’ propria di quella gente del popolo o di estrazione piccolo-borghese, che la Serao attinge dalla vita reale similmente ai naturalisti e ai veristi, sebbene secondo differenti procedimenti tecnico-linguistici. Da essa, a emergere sono le storie individuali, delineate con effetti differenti: quella ‘quasi umoristica’ de La virtù di Checchina, quella ‘patetica’ di Terno secco e infine la vicenda ‘tragica’ di O Giovannino o la morte (Pancrazi), da cui sarà tratto l’omonimo dramma in tre atti di Ernesto Murolo.
Protagoniste sono le donne, eroine a loro modo, in contrapposizione agli uomini, meno virtuosi per gli istinti maschili con cui la Serao li caratterizza. Affascinano, ancora oggi, per la psicologia che ne determina il destino, non esente dall’influsso del contesto sociale di cui quei personaggi sono parte.
Nel primo racconto, ambientato nella Roma umbertina, al centro del ‘triangolo’ costituito da Checchina, dal marito dottor Toto Primicerio e dal ricco marchese d’Aragona, è la disposizione della donna al tradimento, favorita dalla mediocrità del consorte e dalla piatta vita coniugale che per lei ne consegue. La ragione per cui rimane indenne alle insidie del peccato è dovuta apparentemente, come in certi contenuti onirici, a una serie di intoppi che ne impediscono l’incontro galeotto con l’altro uomo (la ricerca dell’ombrello che non trova, la visita importuna della lavandaia, l’incontro con un’amica non desiderata, infine la presenza del portinaio che, incuriosito, non la perde mai di vista), dopo i goffi preparativi per compiacerlo; ma forse, più al fondo, è la sottesa indecisione della donna a determinare l’esito della vicenda, preannunciata dalla parabola dello stato d’animo vissuto in quella notte insonne, passata a ragionare sul da farsi, percorrendo nella mente, passo a passo, il dedalo di vie – metafora dello smarrimento interiore – che dalla propria abitazione avrebbero dovuto condurla alla meta:
Nella notte, nella solitudine, fissando gli occhi ardenti che l’insonnia spalancava, nelle tenebre ella si sentiva piena di coraggio. […] Andare, sì, doveva andare, perché aveva detto sì, quella sera, quando egli l’aveva baciata. […]
Sì, tutto le pareva facile, tutto le pareva semplice, tutto le pareva vicino, possibile, nella notte che eccita le forze dei temperamenti flemmatici. […] Le pareva di avere una forza nuova che non aveva mai sentito in sé, un coraggio grande, un’audacia che fa superare allegramente qualunque ostacolo, una volontà così ferma che nulla poteva vincerla o spezzarla. […]
Ma l’alba la buttava in un sonno plumbeo, da cui invano, per mezz’ora, tentavano di destarla gli strilli e i borbottamenti di Toto. […]
Così dal mattino, lentamente, svaniva la sua volontà, la sua forza, il suo coraggio. Invano tentava di ritrovare l’audacia delle veglie notturne. […]
Quando veniva la sera, tutto era crollato, tutto era caduto, in polvere, scomparso; ella non aveva osato pronunziare una parola, fare un atto, nulla, nulla che la riavvicinasse ai suoi progetti. Ed era anche sicura, quel giorno, di perdersi per la strada. […]
In questo stato di cose, con l’esaltazione della fantasia della notte, con l’assoluta mancanza di volontà nel giorno, venne il venerdì mattina. Ella non aveva deciso niente.
(cap. V)
Per di più in una giornata fatidica per ogni superstizioso che si rispetti: venerdì tredici, quello in cui, secondo le parole della fantesca Susanna, «sta Cristo morto, per terra; per i peccati nostri». Facendo trasalire la padrona impaurita, memore anche del popolare proverbio («Né di venere né di marte ci si sposa né si parte»). Da qui il titolo, La virtù di Checchina, attraverso il quale la Serao strizza l’occhio al lettore, con un briciolo di maliziosa ironia.
L’inquietudine femminile che ammanta questa donna di fragile umanità, è una componente che la accomuna alle altre di Terno secco e di O Giovannino o la morte. Nel primo racconto Tommasina, la serva di una signora rimasta vedova assieme alla figlia Caterina, trova in casa un biglietto con tre numeri. In virtù di quella superstizione che la Serao introduce come tratto antropologico tipico, soprattutto, della gente napoletana, lo comunica al vicinato (un cronotopo assai presente nella letteratura verista e naturalista, attingendo alla dimensione del ‘vissuto’ quotidiano) tentando lei stessa la buona sorte. Solo la mamma di Caterina vi rinuncia, spendendo l’unica lira di cui dispone per assecondare un capriccio della figlia. I numeri escono: molti i vincitori, due, in particolare, gli sconfitti. Di intenso pathos è il dialogo fra le donne, amareggiate anche dal pensiero dello sfratto; su di esso cala il sipario, con la forza di un piccolo dramma.
Anche il motivo della rinunzia accomuna, in modi diversi, le donne dei tre racconti. Se quella di Checchina Primicerio è legata in parte alla sua debolezza, in parte alle contingenze che nel corso della sua vicenda si vengono a creare, in Terno secco è l’amore di una madre per la figlia a prevalere. Equivale invece all’abnegazione di sé quando, nelle sue più nefaste conseguenze, essa assume il volto della disperazione che viene da una passione tradita.
Forse riduzione o abbozzo del romanzo Addio Amore (1890), Giovannino o la morte narra la vicenda della giovane e innamorata Chiarina, figliastra di una ripugnante impegnatrice, la quale finisce per coinvolgere nei suoi ignobili affari il futuro genero, che in un primo momento la asseconda per avere da lei il consenso alle nozze fino a quel momento contrastate. Accorgendosi con sgomento della crescente familiarità fra Giovannino e la matrigna, Chiarina finisce per scoprire che il fidanzato la tradisce con lei e trafitta si butta in un pozzo.
Un’eroina sventurata, come le altre della Serao, che tutto sottomette all’amore, anche la vita. Intorno, l’ambiente composto dagli inquilini dello stesso caseggiato, che partecipano ostili e pietosi alla vicenda di quella passione, fino all’epilogo, tragicamente realistico nel concitamento delle voci che seguono il «grido acutissimo, terribile, che nulla aveva di umano»:
– S’è buttata nel pozzo, s’è buttata nel pozzo!
[…]
– Morta o viva?
– Morta! – fece una voce fioca e affannosa.
E da tutte le parti, da su fino giù, nella via, nei vicoli, fu un gemito, un pianto, un singhiozzo.
– Morta, morta, morta!
(cap. II)
Storie di vinte, tradite dalla loro stessa virtù.
LA VIRTÙ DI CHECCHINA