Se son rose moriranno

Se son rose moriranno

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Trafiletto

Un malato muore nell’afa opprimente di un’estate di qualche anno fa. Un dolore improvviso e ingiusto dissesta la vita di Ardelia Spinola. In una triste sera autunnale, il dottor Steiner si fracassa una caviglia cadendo dalle scale di casa. Nel frattempo Bartolomeo Rebaudengo si rigira tra le mani un pacco di cocaina senza mittente e senza destinatario, abbandonato come un rifiuto in una “fascia” di ulivi sopra la splendida baia di Alassio.

Questi sono gli ingredienti di una nuova storia che vedrà i talenti dei protagonisti, sempre sospesi tra dramma e risata, uniti nella ricerca della soluzione di un caso complicato. Tempi e dosaggi sembrano la chiave per comprendere la natura dei decessi di anziani, trovati morti nelle loro abitazioni. Si tratta di una serie di “equivocal death” come dicono gli esperti dell’FBI, oppure dietro c’è un disegno perverso? La logica di Rebaudengo e l’intuito di Ardelia accompagneranno il lettore verso la verità.

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Chapter 1
PrologoAlbenga, estate 1987: una piccola storia prima della storia L’alba scivola attraverso le fessure della tapparella che non è completamente abbassata. Striscia sugli oggetti senza illuminarli, mescolandosi al respiro dei fantasmi della notte. Nella stanza non succede niente, ma fuori la città si sta svegliando, un pezzo dopo l’altro: prima cominciano i camion della spazzatura, poi qualche saracinesca sale sferragliando, intanto che aumenta il rumore del traffico. Se le finestre fossero aperte, dal forno all’angolo della via potrebbe arrivare l’odore semplice del pane e quello voluttuoso delle brioche, ma le finestre sono chiuse. Ci fa caldo lì dentro, un caldo vischioso, di malattia. L’aria è greve, satura di anidride carbonica e di morte. Dà un’occhiata al corpo steso, ansante, fa qualche passo che potrebbe sembrare di pietosa sollecitudine ed invece è l’ennesimo scherzo: all’ultimo momento schiva il letto e la traiettoria diventa quella della finestra; va a guardare il mondo tra un listello e l’altro. Pensa a tanto tempo fa, a quando aveva la testa piena di sogni e di eroi, come gli altri bambini. Si stava immersi in quella stagione della vita come in un’acqua buona, e il proprio corpo serviva soprattutto per correre e giocare. Al risveglio, quella domenica mattina, non avrebbe mai creduto che nel pomeriggio sarebbe finita. Il dolore, la paura, la colpa mostruosa di non sapersi opporre all’orrore, il ribrezzo, il vomito e il sangue, il terrore e infine il silenzio. Ecco, l’infanzia era finita così, di botto, quella domenica estiva, nel sudore e nel pianto, sul divano stampato a papaveri; è ancora di là nello studiolo quel divano, testimone infetto di una violenza ignorata da tutti, come un ascesso mai inciso e mai ripulito. Si siede sulla poltrona vicino al comodino e tira fuori la medicina. Sorride al malato, senza parlare. Lui ha le orbite nere ma ci vede ancora, il naso è affilato e il respiro irregolare come è giusto che sia, ma capisce cosa sta per succedere. Gli esce un suono strano dalla gola, un raschio, un lamento, comunque un rumore brutto. Chissà cosa vorrà dire... Forse chiede pietà. Sì, ne è capace. Certo, sarebbe bello se questi momenti potessero durare molto di più, ma non si deve tirare tanto la corda, bisogna accontentarsi. Guai a farsi prendere dall’ebbrezza di volere troppo. È già talmente meraviglioso che le cose siano arrivate a questo punto: ha saputo spingerlo oltre i confini benevoli delle terapie antalgiche, nel luogo desolato della sofferenza pura. All’inizio aveva pensato di non ucciderlo e di godersi semplicemente l’avanzata della malattia, divertendosi soltanto a sostituire la morfina con l’acqua distillata. Poi però aveva capito che ci sono cose che vanno fatte, che non possono essere delegate al caso, con il rischio di doversi rimproverare per sempre la propria codardia. Avrebbe agito un po’ prima che arrivasse la morte naturale. Le sofferenze della malattia non sarebbero mai state sufficienti come risarcimento, ma ad un certo punto sarebbe aumentato il rischio di intrusioni esterne, quindi meglio darci un taglio. Gli avrebbe spiegato che il suo non era certo un gesto di eutanasia, lo avrebbe informato di averlo curato ‘al contrario’ per farlo soffrire il più possibile e nello stesso modo lo avrebbe soppresso. Oggi è il gran giorno! Gli ha fatto un bel riassunto di tutto. Si alza dalla poltrona, sistema il necessario sul tavolino e va in bagno, orina e si sciacqua le mani. Dalla porta aperta del bagno lo osserva: la sua espressione assomiglia un po’ a quella dei condannati per iniezione letale, chissà, magari anche loro seguono con lo sguardo i preparativi, i gesti degli addetti all’esecuzione, ascoltano i suoni dell’allestimento, fissano il neon sul soffitto. Quelli possono ancora parlare, perlomeno prima che cominci a scorrere il pentothal sodico, lui invece non può, perché non ha più le corde vocali. Che meraviglia il suo silenzio! Torna nella stanza e si prepara all’ultimo compito. Nemmeno cinque minuti e non dovrà mai più occuparsi di lui, mai più, certo dopo aver espletato le pratiche del funerale e pianto il giusto. Mai più il suo odore, il rumore dei suoi passi, le sue occhiate sporche, i suoi ordini e i suoi ricatti: non riesce quasi a credere che tutto questo stia per finire. “Allora, adesso facciamo una punturina che ti farà bruciare forte forte, come un fuoco nella vena, ma tu non ti potrai muovere, non hai voce per chiamare aiuto, e quando la medicina arriverà al cuore ti farà un male fortissimo e tirerai le cuoia. Hai capito tutto?”. Il moribondo ha lo sguardo vitreo, respira male, ma per quanto malridotto, l’orrore che gli si è stampato in faccia indica che ha compreso perfettamente. Il liquido esce dalla siringa ed entra nel tubetto della fleboclisi. Il gesto è rapido, però il farmaco è tanto e ci vogliono parecchi secondi. Si fissano. Il tempo sembra fermo, qualche spasmo e il malato non si muove più. Che stranezza... Ha avuto un orgasmo, mentre quello moriva, ha avuto un orgasmo, ma pensa... La natura certe volte è imprevedibile! Comprende che nessuna emozione che proverà nella vita, nemmeno il giorno in cui dovesse innamorarsi, potrà superare la scarica elettrica che ha trapassato il suo cervello nel momento in cui il vecchio è morto, consapevole di tutto, anche di essere ammazzato. Lo guarda ancora una volta. “Ciao, nonnetto del cazzo! Mi raccomando, non raccontarlo a nessuno, questo nostro segreto deve rimanere tra te e me, per sempre, proprio come mi dicevi tu!”. Fa un respiro profondo, si dirige verso la finestra. Con un gesto forte e brusco tira su la tapparella, spalanca le ante e lascia che entri l’aria del mattino. Non si sente più odore di brioche ma soltanto di gas di scarico, però c’è un bel sole.

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