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2124 Words
«Vedi che non mi sbagliavo?» La domanda mi spiazza. Ri­porto lo sguardo sul suo viso truccato. «Sei davvero forte.» Mi accorgo che non c’è traccia d’ironia nelle sue parole. Sento le guance colorarsi di un lieve rossore, una cosa che non mi succedeva da tempo. «Comunque sono Iacopo», dice, allungando una mano. Sorrido, stringendogliela appena, un poco impacciata. «Suzie.» «Suz, sei pronta?» La voce di Matteo mi richiama all’ordine. Appoggia una mano sulla mia spalla. «Suz?» Sposto lo sguardo da Iacopo al mio amico. «Sì.» Abbozzo un sorriso. «Ci sono.» L’energumeno con la testa rasata si materializza di nuovo al nostro fianco e si sporge un pochino per sovrastare il frastuono di voci. «Tra trenta secondi si spegneranno le luci, dopodiché il palco sarà vostro. Vi presenteranno a fine esibizione, okay?» Facciamo di sì con la testa. Quando Matteo ci ha portato il volantino del Black Night Contest, due settimane fa, eravamo indecisi se iscriverci o meno. Per tre anni ci siamo accontentati di piccoli concerti e qualche festa di compleanno. La gente ha imparato ad apprez­zare il nostro stile e la nostra personalità artistica. Vantiamo anche una cerchia di fedelissimi che ci segue ovunque. Voglio dire, non abbiamo mai preteso di raggiungere degli obiettivi importanti come può essere un concorso nazionale, e ragionan­doci ho anche capito il perché: aspettavamo l’occasione giusta. Il modo migliore per schiuderci e venire alla luce. «In bocca al lupo, Xena», dice Iacopo con un sorriso scanzo­nato. Annuisco, poi mi scambio un’occhiata d’intesa con il resto del gruppo, l’ultima, e basta. * * * La prima volta che ho preso in mano un microfono avevo tre anni. Lo so perché mia madre immortalò il momento in uno scatto di Polaroid che conservo ancora, in un bauletto di legno sotto al letto. Portavo i capelli aggrovigliati in una massa di riccioli bruni, gli occhiali da sole della mamma che facevano apparire il mio viso piccolissimo, avevo le guance arrossate e tenevo la bocca appiccicata al microfono. Non era vero, faceva parte del kit del Karaoke che mi avevano regalato per festeggiare i miei primi passi; un evento che loro vissero come qualcosa di oltremodo straordinario e prodigioso. Nemmeno Mosè quando divise le acque ottenne un così grande successo. Spesso, prima di andare a dormire, tiro fuori la foto dalla mia scatola dei ricordi e guardandola mi rendo conto che la gioia racchiusa nei miei occhi di bambina è la stessa che provo adesso quando salgo sul palco. Incontenibile, mi possiede. Mamma ha lasciato anche un’annotazione sul retro. Aveva la mania delle annotazioni. Il tratto della matita si è un tantino sbiadito, però si legge ancora. La nostra piccola selvaggia ha già le idee molto chiare su cosa fare da grande, così ha scritto. Niente di più vero. Peccato che quella vita sia passata da un pezzo, che non possa più tornare. * * * Entro in casa e mi chiudo la porta alle spalle. «Sono io.» Strofino più volte i piedi sul tappetino all’ingresso. Fuori c’è un vento terribile, sotto le suole ho un misto di fanghiglia e ghiaia e, poiché questi anfibi lasciano impronte delle dimensio­ni di un carrarmato, meglio ripulirsi per bene. Odio l’autunno. Lo odio con tutta me stessa. Lancio il giubbino di pelle sul divano, insieme al borsone, che rotola a terra con un tonfo sordo. «Zia?» Mi risponde il silenzio. Strano, lei mi aspetta sempre in piedi: un po’ perché si pre­occupa per la sua nipotina che se ne va a zonzo a quest’ora della notte e un po’ perché non può proprio farne a meno. La zia è una figlia dei fiori, uno spirito libero che indossa ancora pantaloni a zampa d’elefante e canta a squarciagola Stand by Me nella versione di John Lennon (anche se la sua è legger­mente più stonata); che ama preparare cene messicane e legge libri sulle rivoluzioni che hanno fatto la storia. Una con la mente aperta, insomma. Se non fosse per lei, ora sarei in qualche istituto o, peggio, in qualche orfanotrofio chissà dove. La casa è immersa nella penombra, ma dalla porta socchiusa della cucina filtra uno spiraglio di luce. Sarà lì dentro? Spingo l’anta verso l’interno e, accidenti a lei, il cuore sta­volta mi si incastra in gola per davvero. «Sorpresa!» esulta, soffiando dentro una trombetta di carta. Si è messa uno di quei ridicoli cappellini da festa di com­pleanno (un po’ piccolo, forse, per il suo viso rotondo, visto che ha l’espressione di chi sta soffocando) e ha addobbato la tavola come se fosse Natale. Bibite, succhi, cracker al formag­gio, tramezzini e tortillas. «Dove hai preso la tovaglia? È orrenda», dico mentre ci stringiamo in un abbraccio. Scoppia a ridere e io le stampo un bacio sulla guancia. Buona, sa di zucchero a velo. Affondo il naso fra i suoi capelli. «Ma che hai combinato? Ti stai trasfor­mando in un pasticcino.» Scioglie l’abbraccio. «Oh, sei la solita guastafeste.» Sporge le labbra in avanti, come una bambina a cui è stata tolta la sua bambola preferita. «Che ho detto?» Scuote la testa e mi scompiglia la frangia. «Forza, siediti, e cerca di non rovinarmi anche il resto della sorpresa». Mi fa una linguaccia. Si sfila il cappellino ed estrae dal forno una teglia fumante. «Ho calcolato i tempi, perciò dovrebbe essere ancora calda. E lo so, sono le due passate ma il tempo è uno stato della mente o qualcosa del genere. Pensiamo a festeggiare.» Appog­gia la teglia sul tavolo e comincia a tagliarne il contenuto in grosse fette. Il profumo è delizioso. «La ricetta è di nonna Ma­tilde. Tu non l’hai conosciuta, era già morta quando sei nata, ma in paese la invidiavano tutti per il suo talento culinario. Te ne ho mai parlato?» Faccio di no con la testa. «Sì, be’, lei aveva questa specie di devozione per il cibo. Il suo motto era cucina con amore e cambierai la vita di chi assaggerà i tuoi piatti. Non male, eh?» Mi porge una fetta. «Quando morì lasciò il suo misterioso ricettario a me e una collana di corallo a tua madre. Sapeva che sarebbe stata una spartizione equa. Aveva ragione: guardarla cucinare, per me, era qualcosa di incredibile. Bramavo i suoi segreti.» Cos’è la sostanza cremosa che cola ai lati della pasta? Arric­cio il naso, perplessa. Zia Rebecca mi guarda di sottecchi. «So che non ha un bell’aspetto, ma ti assicuro che il sapore è ottimo.» Se ne mette un po’ nel piatto e si siede. «Che roba è?» chiedo, sollevando con la punta del coltello uno degli strati. «Lasagne. Qui in Italia sono molto gettonate.» Ne taglia un pezzo e se lo porta in bocca. Scanso perplessa un po’ della sostanza cremosa aliena che sta in superficie. «E perché in quattro anni non me le hai mai preparate?» «Mica si cucinano tutti i giorni», dice come se fosse ovvio. «Sono per le occasioni speciali.» Ne ingoia un altro pezzo e poi agita la forchetta nella mia direzione. «No, quella non si toglie. È be­sciamella, un ingrediente che non deve mai mancare. Dà al tutto un sapore unico.» «Sì, ho capito, ma è disgustosa.» «Solo finché non l’assaggi.» Sorride e si versa dell’acqua nel bicchiere. «Allora, vogliamo parlare di questa strabiliante vitto­ria?» «Ehi, non esageriamo.» Non sono scaramantica, però in questi casi è preferibile andarci piano. «Siamo arrivati solo se­condi, ma ora ci aspettano le semifinali. La vedo dura.» «Sì, ma è già un bel risultato. L’avreste mai immaginato?» Taglia un’altra fetta di lasagna e l’avvicina al mio piatto, ma io scuoto la testa. «Dopotutto, è la prima volta che partecipate a un vero concorso. Quanti erano i gruppi?» «Dodici e di questi ne sono stati eliminati due.» Mi verso del succo di mirtillo. Sorrido. «E comunque no, nessuno di noi lo immaginava. Avresti dovuto vedere le nostre facce quando hanno annunciato il secondo posto. Eravamo… io… io non so nemmeno come descriverti la sensazione. Cioè, non ci sembra­va possibile, capisci? A Enzo è quasi venuto un infarto.» La zia allarga le labbra in un sorriso dolce e nostalgico. In questa posa assomiglia tanto alla mamma. Le stesse rughe appena accennate ai lati degli occhi, lo stesso lieve rossore sulle guance. «Capisco eccome», dice. Rubo una manciata di tortillas dalla coppa al centro della tavola. «Non mi spiego una cosa, però. Chi ti ha detto che siamo stati presi?» Lecco via le briciole dai polpastrelli. «Il cel­lulare l’avevo lasciato in carica sul comodino.» A questa mia affermazione, un lampo le attraversa gli occhi. Raddrizza la schiena e mette le mani sui fianchi. «A proposito di cellulare…» Mi accascio contro lo schienale. «Lo so, Vittorio un altro po’ chiamava pure l’ambasciata americana perché temeva che fossi caduta nella tana del Coniglio Bianco.» Sgranocchio una tortil­las. «E naturalmente è solo colpa mia. Non avrei dovuto lascia­re il cellulare a casa, non avrei dovuto fermarmi a…» «Fermarti dove?» Solleva entrambe le sopracciglia. Non so se dirglielo o meno. Insomma, non l’ho mai detto a nessuno. Perché nessuno capirebbe. È una cosa mia, personale. Stropiccio un lembo della tovaglia in attesa che mi vengano le parole giuste. Poi, però, penso che la zia meriti di sapere. Lei ha fatto e continua a fare tanto per me. Sono sicura che sacrifi­chi anche una buona parte dei suoi desideri per pagarmi la retta scolastica (sì, è una scuola privata e una di quelle toste anche) e accontentarmi. Non è giusto. Perché nasconderglielo? Sospiro. «Prima di cantare passo sempre davanti al cimitero di Prima Porta. Non entro, non ne ho il coraggio. Mi soffermo soltanto al cancello d’ingresso e me ne resto lì per un po’.» Ab­basso la testa e un sorriso mi sfugge dalle labbra. «Sono pateti­ca, vero?» La mia famiglia è stata sepolta in Illinois, anche se la mamma avrebbe preferito mille volte l’Italia. Non c’è un perché, lei avrebbe voluto così. Perciò potrà sembrare da scioc­chi il fatto che mi fermi di fronte a uno dei luoghi più tristi e suggestivi di Roma, ma il problema è che ne ho bisogno. Qual­cosa mi spinge ad andarci. L’istinto, forse. Come se tutti i cimi­teri del mondo fossero legati gli uni agli altri e io mi sentissi più vicina a casa. Zia Rebecca allunga una mano e la posa sulla mia. «Non pensarlo nemmeno, bambina mia. Loro non possono che essere orgogliosi di te.» Bambina mia. Ogni tanto mi chiama così e io glielo lascio fare. Abbozzo un sorriso ma non aggiungo altro. «Okay.» Si asciuga una lacrima furtiva sulla guancia. «Basta malinconia. Ora arriva il pezzo forte della serata.» Si alza e apre il frigorifero. Cerco di sbirciare oltre la sua spalla, ma mi faccio scoprire. «Ah-ah! Non è consentito spiare. Chiudi gli occhi.» Obbedisco, anche se controvoglia. Non amo stare sulle spine. L’anta del frigo si richiude con un cigolio. Sento i passi della zia che si avvicinano. Poi il rumore di qualcosa che viene appog­giato sul tavolo. Tintinnio di posate nel lavello. «Zia… cosa sta succedendo?» «Niente domande, aspetta e vedrai.» Trascorre qualche minuto. «Ci siamo quasi, ancora un attimo». Mi sembra di sen­tire nell’aria lo stesso odore di zucchero che era fra i suoi ca­pelli. «Ecco, ora puoi aprirli.» Il respiro mi si blocca in gola. Al posto del piatto c’è una torta enorme, ricoperta di panna e contornata da una fila di roselline di zucchero. La cialda al centro è strepitosa. La foto è super. Siamo io e mia zia vestite da streghe, con la scopa in mano e il cappello a punta. È stato ad Halloween di tre anni fa, il primo che ho festeggiato lontano da casa. Zia Rebecca aveva organizzato una cena a tema, aveva invitato i vicini e comprato anche un pentolone per farci galleg­giare dentro le mele al caramello. Voleva che non soffrissi troppo la mancanza dei miei in un giorno così particolare e a breve distanza dalla loro morte. Ci era riuscita alla grande. Sulla cialda si snodano lettere al cioccolato piene di ghirigo­ri: Alla mia stella nascente. «È magnifica», sussurro. «Lo so, ci azzecco sempre.» «Ma, dico, e se non fossimo passati? Come lo sapevi?» «Primo, me lo sentivo, e secondo… l’avremmo mangiata lo stesso.» Alza il mento. «Con il fisico che ci ritroviamo, tutte e due, ce lo possiamo permettere, tesoro.» Le do un colpetto sul braccio. «Sei tremenda.» Poi lo sguar­do si concentra sui dettagli di quell’istantanea del mio passato recente. Quello della mia nuova vita. «Dio, quella gonna. Ho ancora gli incubi, mi prudeva in un modo…» «È vero, stavi in continuazione a grattarti. Avevo cucito la sottoveste in tulle per renderla più vaporosa, ma per te fu una tragedia comunque.» «Però eravamo sexy», dico, sorridendo. Non ci credo nem­meno io. «Infatti Vittorio non la smetteva di guardarti neanche un se­condo. Pareva l’avessi stregato.» Già, aveva invitato anche i miei pazzi amici. Cioè, quelli che sarebbero diventati i miei pazzi amici. La band si era formata qualche settimana prima e solo perché io avevo letto l’annun­cio nella bacheca della mia scuola. Avevano qualcuno lì che li aveva aiutati a spargere la voce. Tre giovani promettenti musi­cisti andavano alla ricerca di una vocalist per il loro gruppo rock e io non avevo perso tempo. Avevo bisogno di un’attività che mi tenesse occupata il più possibile. E poi, avrei fatto la cosa che più desideravo al mondo: canta­re. «Ma se ci conoscevamo appena!» «Esiste sempre il colpo di fulmine.» «Ero una bambina, zia. E poi quale colpo di fulmine. Balle!» «Oh, che noia parlare con te di certi argomenti», sbuffa. «Dovresti ammorbidirti un po’.» Prende coltello e spatola per dolci, e inizia a tagliare. «Centro o bordo?» «Bordo.» «Quello che non riesco a capire è perché tu ce l’abbia così tanto con l’amore.» Sciolgo un fiorellino di zucchero in bocca, lentamente. «È qui che ti sbagli. Non ce l’ho con l’amore. Lo evito per non cadere nelle sue trappole, che è una cosa diversa. La chiamo prevenzione sentimentale.» La zia scuote la testa. «Vorrà dire che aspetterò paziente il giorno in cui ti getterai fra le mie braccia decrepite e mi sussur­rerai: Avevi ragione, zia, l’amore è l’unica cosa che ci salva.» «Impossibile», obietto, masticando un pezzo di torta. Il suo sorriso, stavolta, è enigmatico. «Nulla lo è, bambina mia. Nulla.»
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