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Suzie Moore e il Nuovo Viaggio al Centro della Terra

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Suzie Moore non è una ragazza come tutte le altre. Si veste in modo strano, è cinica e odia le persone. È nata in Illinois ma vive a Roma, dopo che la sua famiglia è morta tragicamente in una bufera di neve. Ama la musica ma non la scuola. Tuttavia proprio un libro cambierà per sempre la sua vita. Nascosto nel computer del preside della Scuola Americana di Roma, troverà un misterioso file che le darà accesso a un mondo di fantasia: quello descritto da Jules Verne nel suo Viaggio al Centro della Terra. Vivrà così un"avventura incredibile, al fianco del folle professor Lidenbrock e del giovane nipote Axel, il cui fascino metterà in crisi persino il suo cuore. Da Amburgo all"Islanda, dalla vetta del monte Sneffels alle profondità della Terra e là, dove Jules Verne non è mai andato e dove il confine tra finzione e realtà è un orizzonte quasi invisibile. E mentre la vita di tutti i giorni continua a scorrere, tra scuola e amici, delusioni e piccole e grandi conquiste, qualcosa dentro di lei - in un mondo diverso - le darà le giuste lezioni per superare le sue paure.

DICONO DI SUZIE:

"Il saggio trova se stesso stando immobile in una stanza, ma a volte la vita ci chiama a una scelta e sono le strade inaspettate quelle che ci portano a trovare il nostro centro. Seguite l"indimenticabile Suzie Moore in questa bella avventura che vi terrà inchiodati fino all"ultima pagina. Fatevi condurre da lei là dove i mondi si incontrano, dove i contorni delle cose sfumano, dove ciò che importa non è il solo viaggio ma le domande che nascono sulla via di casa."

(GISELLA LATERZA, autrice di "Diranno di me che ho ucciso un angelo")

"Lo stile dell’autrice ha reso il romanzo ironico, divertente e scorrevole, ma allo stesso tempo molto elaborato. Ho riso e pianto in molte scene. In fondo, è vero che questo è un libro d’avventura, di amicizie e giovani amori, ma è soprattutto una storia di crescita e rinascita." (WE FOUND WONDERLAND IN BOOKS)

"La lettura è stata molto piacevole, scorrevole e divertente. Mi ha fatto ridere e in alcuni momenti mi ha fatto anche scendere una lacrima. Vengono valorizzati l’amicizia, l’amore e l’importanza nel credere nei propri sogni. Sapevo che questo romanzo non mi avrebbe delusa, ma ha superato di gran lunga le mie aspettative." (LETTERE D"INCHIOSTRO)

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1 Le porte dell’ascensore si aprono con un rumore di ferro e ruggine. Il ragazzino pelle e ossa che mi sta accanto tira su con il naso, afferra la custodia della chitarra che ha appoggiato alla griglia di metallo ed esce per primo. La scia di sudore e forfora che si lascia alle spalle è da vomito. Forse dovrei corrergli dietro e spruzzargli addosso un bel po’ del campioncino di pro­fumo che zia Rebecca fa scivolare sempre nel mio borsone. Forse. Ma non sono un’anima caritatevole. Né oggi né mai. Esco dalla gabbia metallica e respiro a pieni polmoni. Me l’avevano detto che questo non era il solito bar. Quattro fari posizionati agli angoli della sala principale spa­rano fasci di luce di un blu psichedelico sul soffitto. Meglio non guardarli troppo però, altrimenti ti si rincretiniscono gli occhi. Muri e archi di pietra mettono in comunicazione la pista da ballo con le salette private ai lati del locale, dove si intrave­dono divani e pouf colorati. Ma la cosa più bella sono le stampe di Andy Warhol e Roy Lichtenstein che sfilano lungo le pareti. Danno un tocco di originalità all’ambiente. Il palco è in fondo. Bene, buttiamoci nella mischia. Nessuno si sposta. Scontato: per gli altri sei come le zanzare in estate, irritante, da spiaccicare in un sol colpo. Se poi hai anche i capelli blu e una voglia a forma di X sul décolleté striz­zato in un bustino di pelle, allora non hai proprio speranze. Per fortuna, però, riesco a riemergere illesa o quasi dal gro­viglio di ragazzi e ragazze. Oltrepasso le tendine di velluto agganciate alla porta del backstage e subito mi invade una cacofonia di voci concitate che urlano a destra e a sinistra. Questa è la parte più intima della vita di un artista. Qui c’è tutto quello che il pubblico non vedrà mai. Le fatiche, il sangue versato, le ansie e le paure, gli imprevisti che hai dovuto supe­rare. Il meglio del tuo io interiore, insomma, che affidi alle quinte prima di entrare in scena. Perché, sia chiaro, sul palco insieme a te sale solo il cuore. Cerco con lo sguardo i componenti del gruppo. Un tizio che pare la reincarnazione di Brandon Lee mi squadra dall’alto in basso, nemmeno fossi ricoperta da strati di letame rinsecchito, e cerca di non avvicinarsi troppo per evitare il contagio. Solita­mente rispondo, e in maniera piuttosto diretta anche, ma questo è uno di quei casi in cui me ne frego. Tanto chi lo rivedrà più? Percorro il corridoio dalle pareti sverniciate stringendo la tracolla del borsone e cercando di non pestare i piedi a nessuno. C’è un viavai continuo di musicisti, qui dentro, oltre a un’aria irrespirabile di nicotina e birra. Qualcuno, appoggiato al muro, sta ripetendo il testo di una canzone che parla di scienza e fede, qualcun altro è seduto per terra e sta accordando il suo stru­mento, qualcun altro ancora sta discutendo sull’ordine dei brani da eseguire. I miei amici però non si vedono da nessuna parte. «Suzie!» Mi volto di scatto. «Suzie, di qua.» Socchiudo gli occhi e individuo Enzo che si sbraccia per ri­chiamare la mia attenzione. È il più piccolo di noi quattro (in tutti i sensi) ma quando impugna la sua Stratocaster rosso fiam­mante si trasforma in un gigante. È anche la mia spalla. Quando canto so di poter contare sulla sua voce graffiante per le parti corali. «Ehi», lo saluto una volta raggiunto. Lui sfila il mozzicone che penzola in equilibrio fra le labbra sottili e lo getta a terra. A che numero sarà arrivato? Dio, dete­sto il suo dannato tabacco Drum. «Pensavamo volessi bidonarci», mi fa. Il tono è severo. «E certo, così mi avresti fregato il posto.» Inarco le sopracci­glia. «Scordatelo.» Mi fissa per un po’, poi scoppia a ridere e ai lati della bocca gli si formano due piccole fossette. Non è il tipo che perde tempo in complimenti né tantomeno quello che fa il falso mo­desto. Resta in attesa delle situazioni più vantaggiose come un predatore famelico appostato dietro a un cespuglio per lo spun­tino di metà giornata. Qualche volta pecca di presunzione e di protagonismo, ma non c’è da biasimarlo. Può permetterselo. Lui e la sua chitarra sono una cosa sola. Si cercano a vicenda, si fondono l’uno nell’altra, si amano e si odiano. Un rapporto completo, insomma. C’è chi racconta che appena uscito dal grembo materno abbia gesticolato come se le dita stessero già scivolando su un paio di corde invisibili e in fondo non è diffi­cile immaginarselo. Indossa una canottiera nera seminascosta da una felpa a ma­niche corte sulla quale campeggia il logo della band. Soulless – senz’anima – così ci chiamiamo e, a conti fatti, lo siamo sul serio. «Andiamo», dice mantenendo il sorriso, «ti stanno aspettan­do.» Superiamo delle ragazze con una dozzina di catene intorno al collo e imbocchiamo l’uscita d’emergenza. Matteo, il batterista, ha il cellulare attaccato a un orecchio e si rigira il bastoncino di un lecca-lecca in bocca. È alto un metro e ottanta e, come se non bastasse, ha la cresta di capelli corvini schizzati di gelatina. Colleziona lenti a contatto, nono­stante abbia dei meravigliosi e profondi occhi verdi (che il più delle volte lui definisce appena anonimi). Ogni coppia di lenti ha il suo utilizzo specifico: quelle celesti per rimorchiare, quelle nere per le giornate storte, quelle grigie per i colloqui di lavoro, quelle rosse per le notti dark e quelle bianche da cada­vere per i concerti. Gli ho ripetuto fino alla nausea che dovreb­be lasciar perdere e valorizzare il suo sguardo da perfetto se­duttore, ma non ho ottenuto grandi risultati. È testardo come un mulo. Appena mi vede solleva gli occhi al cielo e mormora un «Alleluia» a fior di labbra, quindi ritorna a concentrarsi sulla conversazione al telefono. Non è di lui che mi preoccupo, tuttavia, ma di Vittorio. Il nostro alfa. «Si può sapere dove cazzo eri finita?» Appunto. «È da mezz’ora che provo a chiamarti.» Mi sventola il cellu­lare in faccia. «Cliente non raggiungibile, linea occupata… Cos’è, hai deciso di farmi impazzire?» Non lo interrompo, ha bisogno di sfogarsi. «Ti ho incasinato la segreteria di messaggi, sappilo. Ho in­viato SMS, ho chiamato casa tua… devo continuare? Ho rotto le palle a mezzo mondo solo per sapere dove diavolo ti eri caccia­ta.» Ha il volto paonazzo e la vena al centro della fronte gli si sta ingrossando in maniera impressionante. «Perché cavolo devi comportarti così, me lo spieghi? Per colpa tua stavamo ri­schiando di perdere la nostra occasione.» Incrocio le braccia sul petto. «Respira Vi, ti sta andando a fuoco il cervello.» La reazione è immediata. Si irrigidisce, come se qualcuno lo avesse trafitto alle spalle, poi riduce gli occhi a due fessure e serra i pugni, le nocche bianche per lo sforzo. Tutto il suo corpo vibra di collera. Fa un passo avanti e un attimo dopo avanzo anch’io. Non ho paura di niente, figuriamoci di lui. Siamo così vicini che le nostre fronti si sfiorano quasi. Smanio dalla voglia di sapere fino a quanto resisterà. «Ragazzi», interviene Enzo mettendosi in mezzo, «potreste rimandare lo spargimento di sangue a più tardi? Suzie è qui adesso ed è quello che conta.» Il ruolo del buon samaritano è la sua specialità. «Ha ragione.» Matteo fa scattare lo sportellino del cellulare e se lo mette in tasca. Il bastoncino del lecca-lecca all’angolo della bocca va su e giù. «Mancano solo otto minuti e poi siamo in scena. Vedete di farla finita.» Spalanco gli occhi. «Come sarebbe otto minuti?» «Ci esibiamo per primi», sibila Vittorio, velenoso. Merda. Inspiro profondamente. «Non stai scherzando, vero?» I muscoli delle mascelle si contraggono. «Per niente.» «Okay.» Deglutisco. «Nessun problema. Possiamo farcela.» Sento le viscere attorcigliarsi ma fingo di avere il controllo della situazione. «La nostra è una scaletta vincente, spacchere­mo di sicuro.» Matteo fa scorrere la cerniera lampo della borsa ed estrae le sue bacchette magiche. «Chi glielo dice?» Tiene gli occhi pun­tati sulle asticine di legno che fa roteare in aria in abili giochi acrobatici. «Dirmi cosa?» La voce mi è salita di un’ottava. Si vede che questa è la serata delle sorprese. Passo in rassegna i volti dei miei amici e alla fine è Enzo a prendere la parola. Sempre lui, povero agnello sacrificale. «C’è un piccolo cambiamento. Apriamo con la cover di You and I.» Fa una pausa e si scambia un’occhiata con Vittorio, che annuisce impercettibilmente. Poi torna a guardare me. «Pensia­mo sia più d’effetto.» «Non solo», aggiunge Matteo. «In questo modo mandiamo il pubblico fuori di testa e arriviamo dritti in semifinale.» Potrebbe infastidirmi il fatto che abbiano architettato la cosa in mia assenza, ma sarei egoista. Se non fossi arrivata in ritar­do, mi avrebbero senz’altro reso partecipe. E poi lo ammetto: è davvero un’ottima strategia. «Facciamolo», dico, sicura. Enzo e Matteo tirano un sospiro di sollievo. Vittorio, invece, non fa una piega. In fondo, però, ci sono abituata. Lui è uno che picchia duro, anche se solo in apparenza. Ricordo che all’inizio, poco dopo essermi trasferita qui ed esserci conosciuti, la sua arroganza mi faceva imbestialire di brutto. Passavamo quasi tutto il tempo delle prove a litigare. Poi ho capito che si trattava di una maschera, un’arma di difesa per allontanare i nemici e soffocare il dolore di ferite passate, e me ne sono fatta una ragione. Ho imparato a conviverci. Certo, non si può dire che siano sempre rose e fiori tra noi, ma ci vo­gliamo bene come due amici veri e questa è la cosa più impor­tante. La porta si apre all’improvviso e la testa rasata di un energu­meno pieno di piercing fa capolino. Ci scruta con sguardo inda­gatore, poi chiede: «I Soulless?» «Sì.» All’unisono. «Tra meno di un minuto tocca a voi», dice e scompare. Il battito accelera, l’adrenalina comincia a serpeggiarmi sulla pelle. Ci siamo. Enzo imbraccia la chitarra elettrica, Matteo è già pronto con le bacchette e Vittorio si sistema la tracolla del basso. C’è un rito che facciamo poco prima di entrare in scena. Per molti potrà apparire banale, illogico e in un certo senso oscuro, ma per noi è come l’incantesimo della fata madrina che trasfor­ma gli stracci di Cenerentola in un vestito di Prada da cinque­mila euro. Funziona meglio di qualsiasi altra roba da sballo: ci fa toccare il cielo con un dito. E stavolta darò io il via. «Che tu sia dannato», recito, allungando una mano, quella smaltata di nero e inanellata. Le unghie dell’altra sono dipinte di viola. «Che tu sia dannato», ripete Enzo un attimo dopo, coprendo la mia mano con la sua. «Che tu sia dannato», gli fa eco Matteo. Vittorio esita, indirizzandomi uno sguardo affilato. Dio santo, sono arrivata in ritardo, non gli ho mica ammazzato il gatto (ce l’ha davvero un gatto, un siamese strabico di nome Timoteo). Sto per dargli una testata quando finalmente si decide. Mette la mano in cima alle nostre. «Che tu sia dannato», mormora. Enzo getta la testa all’indietro e lancia un ululato stridulo. Lo imitiamo tutti quanti ed è a questo punto che l’incantesimo piove su di noi. Così, per magia. Ci facciamo strada in mezzo al caos degli altri concorrenti e ci piazziamo sulla soglia della porticina con le tende di velluto che dà dritta sul palco. Inizio a sudare, la frangia mi si appiccica alla fronte. Asciu­go i palmi umidicci sui pantaloni e faccio una serie di respiri lenti e profondi. Non è che qualcuno ha una bombola d’ossigeno qui dentro? All’improvviso, Brandon Lee riappare al mio fianco e torna a fissarmi con occhi curiosi. Sono puntati sulla scollatura, cer­cano risposte. In effetti questa voglia all’altezza del cuore non è delle più belle. Chiamiamola pure sgorbio. Frastagliata, color caffellatte. Il tipo potrebbe pensare che abbia subito un inter­vento, che mi sia successo qualcosa di tremendo. Lasciamo pure che liberi la fantasia, allora. «Mi hanno sostituito il cuore con quello di un leopardo», lo provoco, la voce un po’ asciutta per l’agitazione. «Sai, avevano le stesse dimensioni, più o meno, e poi era l’unico disponibile. Sono dovuti intervenire d’urgenza, altrimenti rischiavo di rima­nere soffocata. Il mio, di cuore, si era bloccato qui.» Indico un punto a metà della gola. «Stavo per vomitarlo. Ora va molto meglio invece. Sì, certo, ogni notte di luna piena mi crescono le zanne e sulla pelle mi si allargano delle macchie orribili rico­perte di ciuffi di pelo, ma… sono viva.» Sfodero un sorriso ir­resistibile. «Oh, quasi dimenticavo: ho dovuto riorganizzare la mia dieta. Mi nutro di carne, principalmente animale, ovvio, ma non nego di trovare gustosa anche quella umana.» Bersaglio colpito e affondato. Il tizio infila le mani nelle tasche dei pantaloni di pelle e borbotta una risatina estasiata. «Sei forte, ragazza», dice. «Ma quest’accento?» Faccio spallucce. «Ho viaggiato parecchio. La mia era una famiglia di circensi.» La risatina si trasforma in una risata divertita di fronte alla quale non riesco proprio a resistere. Mi lascio contagiare. «Vengo dagli Stati Uniti», dico alla fine, ricomponendomi. «Mi sono trasferita in Italia dopo… be’ sì, dopo il funerale dei miei.» Ma che sto facendo? A questo non gliene importa un fico secco della mia vita, cercava solo di attaccare bottone. Mi mordo il labbro e abbasso la testa. Ora penserà che voglio essere compatita. Sono una stupida.

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